Storia dell’attentato di via Rasella
Per Ignazio La Russa in uno degli eventi più noti della Resistenza sarebbero morti i membri di «una banda musicale di semi pensionati»: non è vero
Venerdì nel corso di un’intervista al podcast Terraverso del quotidiano Libero, il presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha parlato di uno dei fatti storici più noti della Resistenza italiana al nazifascismo, l’attentato di via Rasella a Roma, compiuto il 23 marzo del 1944. La Russa ha detto alcune cose false e per questo nelle ultime ore sta ricevendo critiche e accuse di revisionismo storico. La Russa ha detto che «via Rasella è stata una pagina tutt’altro che nobile della Resistenza» e che quelli uccisi non erano «biechi nazisti delle SS» (il gruppo paramilitare del regime nazista), ma «una banda musicale di semi pensionati altoatesini».
La Russa, che oggi è in Fratelli d’Italia, iniziò la sua carriera politica nel Movimento Sociale Italiano (MSI), il partito fondato nel 1946 da ex fascisti e membri della Repubblica Sociale Italiana, e nella sua lunga carriera non ha mai nascosto le sue simpatie per l’estrema destra. Come hanno documentato decenni di studi storici, nell’attentato furono uccisi 33 membri del Polizeiregiment “Bozen”, un reparto militare della polizia nazista creato in Alto Adige nell’autunno del 1943 quando l’esercito tedesco occupò la regione (Bozen è il nome tedesco di Bolzano).
Il reparto fu utilizzato in Italia soprattutto per compiti di sorveglianza quando Roma fu occupata in seguito all’armistizio dell’8 settembre del 1943. La formazione che si trovava a Roma era il III battaglione del reggimento, che non era una banda musicale e non era composto da «semi pensionati»: il riferimento di La Russa è probabilmente dovuto al fatto che, secondo i racconti di alcuni testimoni, al momento dell’attentato i soldati del Polizeiregiment “Bozen” stavano cantando mentre pattugliavano le strade di Roma (una simile ma alternativa distorsione era stata ripetuta sabato scorso dal direttore del quotidiano Libero: «reclute altoatesine assegnate alla banda militare»). È vero invece che non facevano parte delle SS, anche se tutti i reparti di polizia tedeschi all’epoca facevano riferimento alla struttura di comando delle SS.
L’attentato
Nel marzo del 1944 alcuni partigiani delle Brigate Garibaldi, organizzate dal Partito Comunista Italiano allora fuorilegge, notarono che un grosso gruppo di soldati nazisti percorreva quasi ogni giorno alcune strette strade nel centro di Roma. La regolarità del loro percorso, i ranghi compatti in cui marciavano e le strette strade che percorrevano rendevano il gruppo un bersaglio ideale per un’azione di guerriglia.
Il luogo scelto per l’attacco fu via Rasella, una parallela di via del Tritone. In un bidone della spazzatura vennero sistemate cariche di esplosivo, mentre un gruppo di partigiani si appostò nelle vie vicine per attaccare i nazisti dopo l’esplosione. Uno studente di medicina, Rosario Bentivegna, 21 anni, travestito da spazzino, sistemò il bidone nella strada. Intorno alle 15:30, circa mezz’ora in ritardo rispetto all’orario previsto, i soldati comparvero in fondo alla strada. Un altro partigiano, Franco Calamandrei, diede il segnale levandosi il cappello. Bentivegna accese la miccia dell’esplosivo e si allontanò. Un’altra partigiana, Carla Capponi, lo aspettava poco distante: lo coprì con un impermeabile per nascondere l’uniforme da spazzino e si allontanò insieme a lui.
Via Rasella è una strada molto stretta e lo era anche nel 1944. L’energia dell’esplosione non riuscì a sfogarsi e fu concentrata nei pochi metri della strada. L’intera compagnia venne praticamente spazzata via: 33 soldati morirono immediatamente o nelle ore successive e si ritiene che altri 9 siano morti nei giorni successivi. Circa cento soldati, quasi tutta la compagnia, rimasero feriti in maniera più o meno grave. L’esplosione uccise anche due civili, mentre altri quattro furono uccisi nella sparatoria con cui i nazisti reagirono all’esplosione.
La rappresaglia
L’attentato di via Rasella fu l’azione più efficace portata avanti dai Gruppi di Azione Patriottica partigiani (GAP) a Roma: un agente degli Alleati che lavorava a Roma sotto copertura disse che l’azione era stata militarmente inutile, ma eseguita in maniera «quasi perfetta». Quando gli venne comunicata la notizia dell’attacco, Adolf Hitler chiese una punizione esemplare: cinquanta italiani avrebbero dovuto essere fucilati per ognuno dei soldati nazisti morti nell’attentato. L’esercito tedesco, come anche quello italiano, tradizionalmente rispondeva a questi attacchi con la rappresaglia, ma una proporzione di uno a cinquanta sembrò eccessiva persino ai militari nazisti.
Albert Kesselring, il comandante dell’esercito tedesco in Italia, si oppose insieme a molti degli altri ufficiali e riuscì a persuadere Hitler a ridimensionare le sue richieste. Venne deciso che dieci italiani sarebbero stati uccisi per ognuno dei nazisti morti nell’attentato.
Dal pomeriggio del 23 marzo Herbert Kappler, ufficiale delle SS e comandante della polizia tedesca a Roma, iniziò a cercare più di trecento ostaggi da fucilare. Vennero radunati tutti gli ebrei che non erano ancora stati deportati, i detenuti nelle carceri già condannati a morte e all’ergastolo e i pochi prigionieri della Resistenza che erano stati arrestati. I numeri però non tornavano: mancavano ancora decine di ostaggi. In più, nel corso della notte e della mattina successiva, altri due soldati nazisti erano morti per le ferite, aumentando ulteriormente il numero totale di ostaggi da trovare.
I tedeschi chiesero aiuto alle autorità italiane, che dipendevano dalla Repubblica di Salò, creata da Benito Mussolini nel Nord Italia dopo il suo arresto nel 1943 e la successiva liberazione. Il questore di Roma si recò allora dal ministro dell’Interno, Guido Buffarini-Guidi che, per caso, si trovava a Roma. Svegliandolo la mattina nel suo albergo gli disse delle richieste dei tedeschi e Buffarini-Guidi, preoccupato, gli rispose «Sì, sì, dateglieli! Altrimenti chissà cosa potrebbe succedere!». Alla fine, mettendo insieme anche i nomi di presunti oppositori al regime, comunisti ed ebrei, Kappler riuscì a formare una lista di 335 persone. Nella foga di rintracciare un numero sufficiente di ostaggi erano finite nella lista cinque persone in più del necessario.
Il maggiore Helmuth Dobbrick, il comandante della compagnia che era stata attaccata, venne convocato e gli fu detto che i suoi uomini avevano diritto all’esecuzione della rappresaglia. Il comandante si rifiutò, dicendo che i suoi uomini, per motivi religiosi, non avrebbero potuto. Nelle ore successive il compito venne rifiutato da quasi tutti gli altri reparti a cui venne richiesto, compresi uomini dell’esercito regolare. Alla fine venne deciso che sarebbe toccato alle SS di Kappler.
I prigionieri vennero portati poco fuori Roma, in una serie di cave che Kappler aveva ispezionato in passato alla ricerca di rifugi anti aerei, poi rimaste note come le Fosse Ardeatine. Cinque alla volta i prigionieri vennero condotti all’interno e uccisi con un colpo di pistola alla nuca. Kappler stesso eseguì personalmente numerose esecuzioni, aiutato dai suoi ufficiali, tra cui anche il capitano Erich Priebke. Per tutta la giornata le SS andarono avanti con le esecuzioni e vennero distribuite razioni extra di cognac per tenere alto il morale. La sera del 24 marzo tutti gli ostaggi erano stati uccisi e le grotte della cava vennero fatte esplodere.
La storia processuale della strage delle Fosse Ardeatine è lunga e complessa, Kappler venne arrestato alla fine della guerra e condannato per l’eccidio del 24 marzo, per la deportazione degli ebrei di Roma e per altri crimini di guerra (riuscì a fuggire dal carcere nel 1977 e morì in Germania due anni più tardi). Anche Priebke riuscì a fuggire: si scoprì che era in Argentina soltanto nel 1994. Nel 1995 venne estradato in Italia e nel 1998 condannato all’ergastolo.
Le questioni di opportunità
Nessun annuncio della rappresaglia venne affisso sui muri di Roma e agli autori dell’attentato non venne fatta nessuna richiesta di consegnarsi. La rappresaglia venne portata avanti rapidamente e in segreto. L’annuncio venne dato soltanto il giorno successivo. Nonostante questo, gli autori dell’attentato di via Rasella si sentirono, in qualche misura, responsabili di quanto era accaduto. Carla Capponi, che aveva aiutato Bentivegna a fuggire facendogli indossare l’impermeabile, scrisse che alla notizia della rappresaglia provò «un’angoscia» e una «disperazione terribile».
Bentivegna, nel suo libro Achtung Banditen!, scrisse:
È probabile che di fronte alla sconvolgente minaccia di quel delitto qualcuno di noi, o forse tutti, avremmo preferito morire al posto dei martiri delle Ardeatine. È veramente difficile dire dopo se ci saremmo presentati ove ci fosse stata offerta prima l’opportunità.
Il leader comunista Giorgio Amendola, da cui gli uomini dei GAP di Roma dipendevano, scrisse dopo la guerra che i partigiani «avevano il dovere di non presentarsi» in ogni caso e di «continuare a combattere».
Nei decenni successivi all’attentato si è discusso molto sulla sua opportunità e sulla sua utilità. All’epoca dell’attacco l’esercito tedesco aveva in Italia diverse centinaia di migliaia di soldati. Il grosso delle forze alleate si trovava ancora bloccato a Cassino, 130 chilometri a sud-est di Roma. A gennaio un corpo di spedizione alleato era sbarcato ad Anzio, sul litorale romano, ma era stato bloccato: questa operazione aveva fatto sì che intorno alla capitale fosse concentrato un numero considerevole di truppe tedesche.
È improbabile che l’attentato sia stato di qualche importanza per lo sforzo bellico tedesco e che un’insurrezione della capitale (che era l’obiettivo ultimo delle azioni partigiane) potesse avere successo. Roma sarebbe stata liberata soltanto il 4 giugno 1944, dopo lo sfondamento alleato sul fronte di Cassino. Secondo alcune interpretazioni storiche, le azioni dei GAP come quella di via Rasella ebbero più che altro uno scopo politico e morale: mostrare che una parte degli italiani si opponeva attivamente ai tedeschi e ai fascisti, cercando di contribuire alla liberazione.