Storia e tecnica degli identikit
Pur non essendo più tanto rilevanti vengono realizzati ancora soprattutto con i software, secondo protocolli precisi per mettere a proprio agio il testimone
Dopo l’arresto del boss mafioso Matteo Messina Denaro, avvenuto il 16 gennaio, è stato mostrato sui giornali il suo identikit realizzato nel 2014, accanto alla foto scattata dopo il fermo: c’è in effetti una certa somiglianza. L’ultimo identikit di Messina Denaro era stato costruito “invecchiando” i disegni realizzati negli anni precedenti che, a loro volta, erano stati fatti prima manualmente e poi servendosi di software partendo da una vecchia fotografia, una delle poche che lo ritraevano. L’identikit di Messina Denaro, assieme ad alcune foto molto datate, sono state a lungo le uniche immagini di cui disponevano gli investigatori. Lo stesso era accaduto anni fa per l’identikit di un altro capo mafioso, Bernardo Provenzano.
Anche se oggi hanno perso parte della loro rilevanza, gli identikit realizzati dai disegnatori e dai tecnici delle forze di polizia sono stati a lungo uno strumento importante nelle indagini criminali. Il gran numero di videocamere di sorveglianza (a Roma ci sono per esempio 7mila impianti privati e oltre 2mila pubblici) rende spesso inutile la ricostruzione di un volto attraverso il ricordo di testimoni o vittime. «Negli anni Ottanta e Novanta, invece, era lo strumento principale attraverso il quale si riusciva a ricostruire la fisionomia di una persona» spiega Giovanni Battista Rossi, che per 31 anni è stato disegnatore di identikit della polizia scientifica.
Oggi le volte in cui serve fare un identikit sono meno, e il più delle volte non vengono più realizzati disegnando a mano ma attraverso software specifici con cui si può scegliere in breve tempo tra una gran quantità di tratti somatici, o che possono invecchiare un volto sulla base di una foto reale. In sostanza, i software offrono una vasta gamma di nasi, occhi, orecchie, capelli, forme del viso, e riescono anche a dare vivacità all’immagine. Gli identikit assomigliano sempre più a fotografie, ma è comunque essenziale il lavoro dell’operatore che intervista la persona e aiuta a focalizzare i ricordi.
Secondo Rossi, oggi «manca il passaggio principale, che è quello del disegnatore», il quale a differenza delle tecnologie informatiche riusciva «in molti casi, partendo dagli occhi e dalle sopracciglia, a ricostruire l’espressione delle persone, ciò che dà la caratteristica di unicità al volto». Rossi ha disegnato nella sua carriera centinaia di identikit: alcuni divenuti molto celebri come quelli dei banditi della Uno Bianca o degli assassini che, a Pontevico, in provincia di Brescia, uccisero il 15 agosto 1990 durante una rapina i quattro componenti della famiglia Viscardi: Agnese e Giuliano, i genitori, e i figli Maria Francesca e Luciano.
La parola identikit venne usata per la prima volta negli anni Cinquanta, negli Stati Uniti. Faceva riferimento a uno strumento preciso, commercializzato dalla Smith & Wesson: una valigetta di legno con all’interno alcuni fogli lucidi su cui era raffigurata una vasta gamma di caratteristiche del viso, ciascuna corrispondente a determinate lettere e numeri. Le caratteristiche assemblate creavano un codice alfanumerico che permetteva a chi possedeva la valigetta, ovunque si trovasse, di ricreare l’immagine sovrapponendo tra loro gli elementi impressi sui fogli lucidi. Quella valigetta si chiamava, appunto, Identi-Kit.
L’identikit si basa su un fattore determinante: l’intervista da parte del disegnatore, anche detto illustratore forense. Così come una scena del crimine viene preservata e protetta dalle contaminazioni, allo stesso modo l’obiettivo principale di chi realizza l’identikit è conservare la memoria del testimone e proteggerla da possibili distorsioni dei ricordi. Esistono protocolli e tecniche che vanno seguite per evitare errori: innanzitutto al disegnatore viene chiesto di studiare attentamente i verbali, dalla durata dell’osservazione dell’evento da parte del testimone passando per le condizioni della luce, i movimenti, il punto di vista.
Alcune ricerche hanno sottolineato come nel riconoscimento di una persona abbia maggiore rilevanza la parte superiore del volto rispetto a quella inferiore. Inoltre, alcune caratteristiche vengono ricordate meglio: i capelli, innanzitutto, e in particolare colore, lunghezza, consistenza e scriminatura. Poi in misura minore occhi e sopracciglia, e successivamente naso e struttura facciale generale. La fronte e le guance vengono invece ritenute meno rilevanti. «Il disegnatore deve far emergere il ricordo del volto della persona nel momento stesso in cui entra nel campo visivo del testimone o della vittima», dice Rossi.
Quando viene realizzato un identikit, tra le altre cose bisogna tenere conto del fatto che le persone sono in grado di individuare con maggiore efficacia il volto di chi appartiene alla loro stessa etnia. È il fenomeno chiamato ORB che sta per Other-race bias oppure per Own-race bias (noto anche come Other race o Cross-race effect). Non sempre poi chi riesce a descrivere in maniera accurata il volto ha davvero in mente l’immagine più precisa. Insomma, un testimone che ha maggiore difficoltà a esprimersi può essere allo stesso tempo il miglior osservatore.
«Ciò che conta di più» racconta ancora Rossi, «è entrare in empatia con la vittima o il testimone, cercare di metterlo a suo agio, dargli tutto il tempo necessario. E poi ricordare che l’illustratore è solo uno strumento nelle mani di chi deve descrivere un volto». Secondo Rossi è necessario partire dal contesto: le prime domande devono necessariamente essere: “Cosa stava facendo in quel momento?”, e poi “Che cosa ricorda dell’ambiente circostante?”. «Bisogna sempre avere presente che il ricordo è spesso accompagnato dalla paura di rivivere un momento traumatico. Rievocare prima l’ambiente esterno, descrivendo ciò che si è vissuto attraverso tutti gli organi di senso, mette nelle condizioni poi di avere maggiormente a fuoco il volto che si deve ricostruire».
Per un’intervista efficace è consigliabile che la persona stia seduta comoda, senza disagi e senza soffrire il caldo o il freddo. Al muro non devono esserci foto segnaletiche o altri identikit che possano influenzare la descrizione. Quando il ricordo inizia a emergere con più precisione, l’abbassamento delle luci può essere utile. La scelta però deve essere sempre della persona che sta dando la sua testimonianza. Va spiegato bene e in anticipo, con il dettaglio di tutti i passaggi, come si svolgerà l’intervista per la realizzazione dell’identikit.
Dal punto di vista psicologico, è bene che la vittima di un crimine sia messa nelle condizioni di essere “parte attiva” e cioè di riprendere il controllo della situazione.
Sicuramente le situazioni di stress emotivo e la paura spostano l’oggetto dell’attenzione. Quindi, se una persona è stata minacciata con un’arma, l’attenzione si concentrerà sulla bocca della pistola che si ha di fronte o sulla lama di un coltello, secondo un fenomeno chiamato weapon focus (weapon significa arma, in inglese). Altri fattori possono poi influire sul ricordo: il passare del tempo è sicuramente un elemento determinante. Dopo aver subito violenza o assistito a un episodio di violenza, alcune persone mettono in atto una strategia di “evitamento” per scacciare il ricordo. Altre invece continuano a ripensarci, ma non è detto che questo aiuti il ricordo esatto: è possibile invece che le rievocazioni costanti aumentino il rischio di distorsioni.
Un altro fattore di rischio è che il disegnatore, facendo le domande, interferisca con i ricordi. «Per questo quello che si deve fare è ascoltare, più che porre domande», dice Rossi.
La posizione ideale del disegnatore è di fianco al testimone in modo che le caratteristiche del volto dell’intervistatore non influenzino minimamente la descrizione del volto che deve essere realizzato. Nella prima fase si lascia spazio alla narrazione libera: si delineano le proporzioni del volto e si stabilisce la tipologia. Una volta che il volto è abbozzato e le proporzioni stabilite il disegnatore mostra ciò che ha realizzato, avvertendo però il testimone che il risultato potrebbe non essere vicino a ciò che ha visto.
Alcuni illustratori coprono il disegno con un altro foglio e lasciano al testimone l’azione di rimuoverlo, in modo che possa farlo con calma, con i tempi che ritiene più opportuni, poiché la vista del volto dell’aggressore, anche se disegnato o abbozzato, può provocare forti reazioni emotive. Dopo questo passaggio si passa a domande più specifiche (“Le sopracciglia più o meno folte?”, “Le narici più ampie?”). A volte si entra in una fase di stallo e allora è utile fermarsi e parlare di tutt’altro, togliendo il disegno dalla vista per poi tornarci in un secondo momento.
Prima di terminare l’identikit è anche utile una piccola pausa che permetta al testimone di rilassarsi per poi dare un’ultima occhiata. Spesso poi vengono richiesti dal testimone ritocchi finali. Se però la persona è stanca o stressata è possibile che i ritocchi peggiorino la precisione del disegno invece che migliorarla.
La durata dell’intervista è molto varia, dice Rossi, e non c’è un tempo standard, dipende da molti fattori tra cui il rapporto che si instaura tra il disegnatore che intervista e la persona che deve ricordare: «Certo è che non si può andare avanti troppo a lungo perché rivivere eventi traumatici è pesante e la stanchezza influisce sui ricordi e sulla loro descrizione. Non bisogna mai però mettere fretta perché il testimone, o la vittima, deve sentirsi a proprio agio. Solo così possono emergere lo sguardo, l’espressione, il carattere della persona che deve essere descritta. È nel momento in cui emerge l’espressione che si apre la memoria della vittima».