Jannacci, vieni fuori
«Così com’era estremamente accattivante in alcuni approcci, poteva dimostrarsi terribilmente scontroso se preso nel momento sbagliato. Ho in mente una riunione in cui si finse svenuto per non risolvere una questione organizzativa di un programma Rai, lasciandomi solo a gestire una situazione molto critica»
Ho frequentato Enzo Jannacci per quasi quarant’anni, per lavoro ma soprattutto per amicizia; e ho amato le sue canzoni da molto prima di conoscerlo. Aggiungo che per me non conoscere le sue opere è un crimine culturale, purtroppo non ancora sancito dall’attuale legislazione nazionale. Lo studio dei suoi testi (a memoria!) dovrebbe far parte del programma educativo delle scuole patrie di ogni ordine e grado, come sommo poeta a cavallo tra ermetismo e dadaismo, che ha segnato il panorama narrativo italiano dagli anni del boom economico (fine anni ’50/primi ’60) sino agli albori del nuovo millennio.
Personalmente, ho molti ricordi di lui:
– Era un grande seduttore, valutava le nuove conoscenze sottoponendole a strani riti di iniziazione: una notte dell’autunno 1977 mi fece percorrere in auto a tarda notte la Galleria Vittorio Emanuele di Milano, da piazza Duomo a piazza della Scala. Pochi giorni dopo, al verde di un semaforo, inserì la prima marcia della sua Austin (un modello d’epoca, sembrava l’auto di Topolino, col cambio a leva al volante e un minimo molto basso) e scese, chiudendo lo sportello, camminando a fianco e guidando attraverso il finestrino con una mano e continuando a chiacchierare come se niente fosse: abbastanza spiazzante.
– Così com’era estremamente accattivante in alcuni approcci, poteva dimostrarsi – se preso nel momento sbagliato o casualmente contrariato – terribilmente scontroso. Ho in mente una riunione in cui si finse svenuto per non risolvere una questione organizzativa di un programma Rai, lasciandomi solo a gestire una situazione molto critica; ma ricordo anche risse stradali o amicizie sedimentate bruscamente interrotte per sue ambiguità: l’umoralità a volte lo divorava. Con gli anni aveva però trovato un equilibrio che lo rendeva molto più frequentabile.
– La sua grande creatività era alimentata da un profondo disagio esistenziale e da una estrema sensibilità emotiva, che lo portava quasi al bipolarismo: ad esempio, rinchiuso in un mutismo solipsistico per un contrastato spot radiofonico che non aveva incontrato l’approvazione del cliente (mi sembra per una birra), la mattina successiva si ripresentò pimpante con l’abbozzo di Io e te, splendido brano sul disagio giovanile anni ’70 (in generale, più facile frequentare le opere degli artisti che la loro persona!).
– Trovava noioso ripetere le versioni “canoniche” del suo repertorio; in particolare, cambiava e improvvisava i testi, quasi fossero note di un brano free jazz. Questo procedere spesso irritava i suoi fans, che in un preciso testo o arrangiamento avevano cristallizzato preziosi ricordi personali (Jannacci è stata la colonna sonora di molti giovani degli anni ’60 e ’70: i suoi non erano brani meccanicamente “politici” come quelli di altri musicisti di quel periodo, ma così poco ideologici e senza moralismi che alla fine si sono impressi ancora meglio nel sentire e nel ricordo collettivo di quegli anni).
In un’intervista Jannacci si definì: «Nato prevalentemente a Milano, di stirpe greco balcanica; segni particolari: fame atavica»; tutte caratteristiche assolutamente reali. La sua prevalenza settentrionale traspare, oltre che dall’atto di nascita, dall’utilizzo del dialetto milanese nelle prime interpretazioni; e questa scelta, obliquo frutto dell’essere un mezzosangue (figlio d’una casalinga comasca e di un maresciallo dell’aeronautica militare di origini pugliesi il cui padre era un macedone italianizzatosi anche nel nome prima della Grande Guerra), era assolutamente controcorrente nel periodo in cui – a distanza di un secolo dalla complessa e anche linguisticamente irrisolta unificazione dell’Italia, e grazie soprattutto alla drastica omologazione operata dalla paleotelevisione – tutti cercavano di passare dalle parlate localistiche all’italiano dei quiz di Mike Bongiorno e di Non è mai troppo tardi (meraviglioso programma di alfabetizzazione, in una nazione dove ancora un’altissima percentuale di abitanti non sapeva leggere o scrivere). Sulla fame atavica, bastava accompagnarlo al ristorante per assistere a massicci esperimenti di contaminazioni alimentari di discutibile qualità organolettica: imbarazzante la frustrazione di un cuoco di una famosa pizzeria milanese, entusiasta per la presenza di Enzo nel suo locale, ma poi inorridito dal trattamento inferto ai suoi piatti (pizza farcita trasformata in una piramide di verdura e frutta, accompagnata da una banana immersa come una brioche nella Coca-Cola e mangiata a morsi).
Maturità scientifica al Leonardo da Vinci nel 1954, diploma in armonia, composizione e direzione d’orchestra al Conservatorio Giuseppe Verdi. Su ispirazione dei genitori («Bisogna stare vicino alla gente che soffre», gli aveva inculcato il padre: principio etico che Jannacci interiorizzerà a fondo e applicherà nelle sue opere ma anche nella vita privata) si iscrive alla facoltà di Medicina, sempre a Milano, dove si laurea nel 1969. (Piccola curiosità semi-sconosciuta: al liceo e poi a Medicina Jannacci fu compagno di studi di Giorgio Armani, il futuro stilista, che però era già ripetente e continuamente rimproverato da sua madre: «Prendi a modello l’Enzino, che fa sempre i compiti». Per questo, con velata ironia, Jannacci aggiungeva: «Io ho sgobbato e sono diventato medico, Giorgio ha sempre fatto quello che gli piaceva ed è diventato miliardario!»).
Questa doppia figura di medico e musicista – a volerci credere… era un Gemelli, nato il 3 giugno del 1935, avrebbe 88 anni – accompagnerà Jannacci in maniera sofferta per tutta la vita: percepiva la profonda incertezza professionale ed economica del mondo dello spettacolo (fu bocciato al primo provino in Rai; e Saltimbanchi si muore era l’emblematico titolo di un suo varietà televisivo), in confronto alla sicurezza di un ruolo sancito da un titolo di studio e da un albo professionale come il medico. Talché, dopo il cocente insuccesso a Canzonissima nel 1968, dove Jannacci si classifica ultimo, abbandona l’Italia per diversi anni, specializzandosi in chirurgia a Città del Capo, dove entra nell’equipe del famoso Christiaan Barnard, il primo chirurgo al mondo a trapiantare un cuore a un paziente, per poi lavorare alla Columbia e al Queens College di New York. Conoscere la sintomatologia dei dolori fisici dal punto di vista medico ha forse a che fare con la sua grande empatia nel raccontare le sofferenze umane: ascoltando i suoi brani non si può fare a meno di immedesimarsi nei protagonisti delle sue storie e partecipare quasi fisicamente alle loro assurde vicende. Come medico, aveva una grandissima sensibilità nell’azzeccare la diagnosi; qualche problema in più, invece, nel dosaggio dei farmaci in cui abbondava oltremisura; l’ho accompagnato a casa di Massimo Boldi che mormorava, semisvenuto sul letto: «Enzino, mi hai ucciso», sembra per un eccessivo utilizzo di antibiotici.
Le radici di Jannacci come compositore ed esecutore sono nel jazz, come quelle di buona parte dei suoi amici musicisti milanesi doc o d’adozione: da Giorgio Gaber a Nicola Arigliano, da Franco Cerri a Bruno De Filippi, da Paolo Tomelleri a Nando de Luca. Per guadagnare qualche soldo mentre studia, fa il session man nelle balere in voga nella Milano anni ’50: al Santa Tecla, alla Taverna Messicana e all’Aretusa, locali dove accompagna e si confronta con jazzisti di grandissimo pregio, come Chet Baker, Bud Powell («Mi ha insegnato che nel pianoforte jazz la cosa più importante è l’utilizzo della mano sinistra»), Gerry Mulligan e Thelonious Monk. Nel 1956 entra a far parte come tastierista dei Rocky Mountains di Tony Dallara e poi (assieme a Gaber) dei Rock Boys di Adriano Celentano. L’aneddotica di quegli anni richiama quella dei Blues Brothers, con paghe da fame, agenti che scappano con l’incasso, pubblici inferociti che non apprezzano le esecuzioni costringendo le band a fughe precipitose.
Ma le mode evolvono rapidamente e il grande Nanni Ricordi, erede di una secolare dinastia musicale e fresco di un intenso apprendistato negli Stati Uniti, reinventa il mercato discografico nazionale spianando la strada alla scuola dei “cantautori”: Gino Paoli, Umberto Bindi, Luigi Tenco, Sergio Endrigo, Bruno Lauzi, Ricky Gianco e, ovviamente, gli stessi Gaber e Jannacci, che avranno per tutta la vita un dialettico ma solidissimo rapporto di fratellanza affettiva e artistica (preciso, analitico e cerebrale il ragioniere Giorgio, interista; impulsivo e compulsivo, quasi dedito all’action painting applicata alla musica, il buon dottor Enzo, milanista, non a caso soprannominato “Schizo” dagli amici più stretti).
Il primo successo discografico arriva nel 1963 con El purtava i scarp del tennis, malinconica storia di un barbone meneghino in scarpe Superga – allora c’erano solo quelle – che sale per la prima volta nella sua vita su un’automobile, ma che non vedrà mai coronato il suo sogno d’amore per una sconosciuta vestita come il tricolore. È la “somma teologica”, per sua stessa ammissione, di tutti i temi che declinerà e approfondirà nei suoi 27 album: l’attenzione verso l’escluso e al peso delle differenze economiche e sociali (si potrebbe dire marxianamente “di classe”), storie d’amore impossibili o paradossali, l’essenzialità del racconto attraverso un bozzetto minimale e caratteriale del protagonista, l’estrema diversità tipologica-comportamentale come territorio di sperimentazione esistenziale. Proprio per questa sua dedizione alla causa dei più fragili e dei “diseredati”, nel 2014 gli è stata dedicata la Casa dell’Accoglienza di Milano (il più capiente centro d’assistenza d’Europa per persone adulte senza fissa dimora).
I suoi poemi musicali brevi riescono a sintetizzare poeticamente lo stridore dell’industrializzazione forzata, dello sradicamento da migrazione interna, del disagio della catena di montaggio, della disparità economica nel periodo in cui il PIL aumenta vertiginosamente, travolgendo ogni consolidata barriera sociale del nostro paese (e la sua, secondo me, è una narrazione molto più efficace e laica, e molto meno moralista e ideologica di quella operata contemporaneamente e sugli stessi temi, dialetto incluso, da Pier Paolo Pasolini). Allo stesso modo Jannacci ha poi riassunto in personaggi straordinari le piaghe esistenziali tipiche dell’era post-industriale: fenomeni di solitudine relazionale e di emarginazione socioculturale, di modelli familiari in crisi, di vite segnate da dipendenze chimiche o vuoti emozionali. Anche per questa sensibilità ai tempi, già dai primi anni ’60, Jannacci diventa amico di un altro cantore del lato oscuro del boom economico, Luciano Bianciardi (è suo lo scritto sul retro del primo LP di Jannacci).
Sempre negli anni ’60 inizia l’avventura dell’Intra’s Derby Club di viale Monterosa, così chiamato inizialmente in onore del pianista jazz Enrico Intra e perché si trovava vicino all’ippodromo e allo stadio di San Siro. Al Derby Jannacci conosce Dario Fo, con cui condividerà molti successi, anche se di stoffa leggermente diversa dai suoi (più sarcastici e teatrali i brani scritti con Fo, più intimi e realistici quelli partoriti in solitudine). In due decenni al Derby Jannacci entra in contatto con gli allora emergenti Cochi e Renato (di cui rimarrà costante riferimento per tutta la vita), Lino Toffolo, Felice Andreasi, Paolo Villaggio, il suo amico d’infanzia Beppe Viola, e poi Massimo Boldi, Teo Teocoli, Diego Abatantuono e tanti altri. A tutti gli effetti, Enzo Jannacci sarà l’informale direttore artistico di quella fucina di talenti e il vero teorico del cabaret alla “milanese”: surreale e stralunato, che lavorava per sottrazione cercando di raggiungere l’essenzialità, distante dai cabaret genovesi e torinesi (umoristici, derivati dall’intrattenimento dell’avanspettacolo) e soprattutto lontano anni luce dalla scuola romana del Bagaglino (che lavora per addizione e ammiccamenti, imitazioni e travestimenti, verbosa e ventrale).
Nel corso di quasi sessant’anni di produttività, oltre a fare il medico e a scrivere e interpretare il suo vastissimo repertorio, Enzo Jannacci ha anche: calcato palcoscenici teatrali (indimenticabile l’Aspettando Godot con Gaber nel 1990), lavorato in televisione, scritto libri e sceneggiato copioni, prestato il volto a parecchi personaggi nelle opere di grandi registi cinematografici (Ferreri, Monicelli e Scola, per citarne alcuni), composto colonne sonore (anche una candidatura all’Oscar per Pasqualino Settebellezze di Lina Wertmuller del 1975 per cui Jannacci aveva composto Tira a campà e Quelli che…, scritta con Beppe Viola), partecipato/sonorizzato Caroselli e spot, interpretato brani di colleghi che stimava e ammirava (da Paolo Conte a Pino Donaggio, da Umberto Bindi a Sergio Endrigo), dato spazio a giovani più o meno emergenti (negli ultimi anni: Paolo Rossi, Gino&Michele, Riccardo Piferi, J-Ax, Bove&Limardi), sviluppato una lunga e stimolante collaborazione col figlio Paolo. L’orizzonte jannacciano è un labirinto in cui aggirarsi e perdersi, una specie di test di Rorschach acustico per scoprire affinità e sintonie elettive (che entrino in risonanza con le proprie “diversità”), tra il Soldato Nencini e volatori di aquiloni, tra uccellini e pescioloni, nonché bonzi, gruisti o rucheté. Personalmente, ho il culto di Ti te se no, Vincenzina e la fabbrica (straordinaria e straziante la versione con Gaber) e Quello che canta onliù.
Ho amato incondizionatamente i suoi successi più celebrati, ma anche molti brani minori, in particolare quelli che si potrebbero definire “format”, invenzioni linguistico/musicali che possono venire declinate in forme sempre diverse, quasi “opere aperte”: da Quelli che a Dagalterun fandango a Jannacci arrenditi (dove dice anche “Jannacci vieni fuori”). Perché Jannacci, che gente come Paolo Conte, Renzo Arbore etc giudica il più grande cantautore della musica italiana, è stato l’inventore di espressioni linguistiche straordinarie: lo stesso Gaber diceva che dal suo modo di lavorare, apparentemente cialtronesco, emergevano poi misteriosamente immagini fortissime, come «L’avvenire è un buco nero in fondo al tram». Molti per me periodicamente diventano dei mantra interiori: dal «canotto mordicchiato da un doberman» a «Son s’ciopàa», da «Se me lo dicevi prima…/ Ma prima quando? Io c’ho bisogno adesso» ad «Accertarsi che quello che canta sia proprio Onliù» o a «Songo venuto co’ la piena».
Jannacci è stato un geniale surrealista nell’uso della lingua e nello spiazzamento dei contesti scenici; se dovessi indicare un’appartenenza a qualche compagine musicale, lo definirei un Mod, ovvero quella subcultura giovanile inglese dei cultori del MODern jazz: di quella tendenza aveva anche la Vespa come mezzo abituale di trasporto, il Parka nell’abbigliamento, l’atteggiamento anti-autoritario e irriverente. Ma forse è stato un unicum, un irripetibile e fortunatissimo accidente genetico…
Enzo Jannacci se n’è andato il 29 marzo 2013 senza confrontarsi coi fenomeni mediali della nuova contemporaneità; sarebbe stato interessante e istruttivo vederlo alle prese con le proiezioni narcisistiche degli influencer, le amplificazioni egocentriche dei social media, con il crudele mondo dei like, l’onnipotenza e onnipresenza delle app o le narrazioni folgoranti di TikTok. Sono sicuro che ci avrebbe offerto qualche perla di riflessione sintetica, con la sua selvaggia (in senso antropologico) capacità di confronto e interpretazione del nuovo che avanza.
In verità, di Enzo mi manca tutto, anzi parecchio!