Chi sono i sensitivity reader
Nell'editoria anglosassone esiste la figura professionale di chi legge i libri per individuare parole e contenuti potenzialmente offensivi, ma in diversi la criticano
di Ludovica Lugli
Il dibattito sulle modifiche ai romanzi per ragazzi di Roald Dahl ha fatto nuovamente parlare di una figura professionale dell’editoria che sempre più spesso viene citata nelle discussioni su come gestire parole e contenuti dei libri oggi considerati offensivi da una parte della società: il sensitivity reader, che si potrebbe tradurre come “lettore per le questioni di sensibilità”.
In tutto il mondo le case editrici si servono di collaboratori chiamati “lettori” che danno un parere esterno sui manoscritti presi in considerazione per la pubblicazione, in parte per decidere se pubblicarli effettivamente, in parte per facilitare in altri modi il lavoro di editor, redattori e grafici. I sensitivity reader sono lettori specializzati e tendenzialmente sono persone giovani, aggiornate sui dibattiti culturali internazionali, oltre che competenti in ambito editoriale e letterario. L’espressione per definirli è in inglese perché si tratta di una mansione che si è sviluppata all’interno dell’editoria anglosassone, anche se esiste sempre di più anche in quella tedesca, ad esempio, e per quanto senza un inquadramento specifico, si comincia a praticare anche in Italia.
In sostanza un sensitivity reader è un revisore che legge un romanzo prima che sia pubblicato, non per cercare refusi nei testi, o per verificare le informazioni che contengono, come possono fare redattori e correttori di bozze, ma per accorgersi di eventuali espressioni che potrebbero essere percepite come offensive da alcuni gruppi di persone (la mansione per cui sono più noti) o di dettagli poco verosimili, inaccurati o frutto di stereotipi.
Ad esempio, lo scrittore scozzese Irvine Welsh, l’autore di Trainspotting, ha collaborato con un sensitivity reader che è una persona trans durante la scrittura del suo thriller I lunghi coltelli, che parla in parte di persone trans (Welsh è un uomo cisgender, che cioè si riconosce nel genere corrispondente al suo sesso biologico). Lo scopo di tali letture era trovare eventuali scorrettezze riferite alla vita delle persone trans che Welsh poteva non conoscere o aver capito male, o espressioni potenzialmente offensive per una persona trans.
«Inizialmente ero ostile a questa pratica, la consideravo una forma di censura», ha raccontato Welsh: «Tuttavia la mia esperienza è stata molto positiva. Il lettore mi è stato di sostegno in quello che stavo cercando di fare; equilibrato, ha meditato su ciò che mi ha detto ed è stato chiarificatore. Il libro è venuto molto meglio di conseguenza».
Nel Regno Unito e negli Stati Uniti il compito di sensitivity reader viene normalmente affidato a persone che per la loro identità personale, e in particolare per il loro genere, orientamento sessuale, origini etniche, religione o caratteristiche fisiche o psicologiche, dovrebbero essere particolarmente esperte e sensibili nell’individuare potenziali aspetti offensivi o controversi di un testo. La scelta di coinvolgerli è in parte legata anche alla consapevolezza che in anni recenti una parte dei lettori è diventata sempre più attenta all’uso delle parole, e succede spesso che una critica diffusa online venga ripresa da tante altre persone sui social network e si trasformi in una pesante accusa nei confronti di un libro e di una casa editrice, con potenziali risultati disastrosi in termini di immagine pubblica e, conseguentemente, economici.
Negli Stati Uniti era successo ad esempio in occasione dell’uscita di Il sale della terra di Jeanine Cummins, un romanzo molto pubblicizzato dai media statunitensi su una storia di emigrazione dal Messico. Scritto da un’autrice non messicana né di origini messicane, era stato duramente criticato perché conteneva stereotipi sulle persone messicane e sul Messico, e perché la sua protagonista aveva comportamenti ritenuti inverosimili per una messicana.
I sensitivity reader vengono scelti ad hoc per ogni caso, generalmente quando l’autore di un romanzo ha un’identità diversa da quella di uno o più personaggi che ha scelto di inserire nella sua storia. Non sono dipendenti delle case editrici, ma collaboratori esterni occasionali – come i lettori generici, quelli coinvolti per avere riscontri sui libri presi in considerazione per la pubblicazione – che in alcuni casi lavorano per un’agenzia di consulenza esterna, che mette in contatto gli editori con le persone più adatte per ciascun tipo di revisione.
Nel caso degli interventi sui libri di Roald Dahl è andata così: la casa editrice Puffin Books e la Roald Dahl Story Company, la società che possiede i diritti d’autore sui libri di Dahl e appartiene a Netflix, hanno collaborato con Inclusive Minds, specializzata in libri per bambini. Il settore è ancora piccolo, nonostante le dimensioni dell’editoria in lingua inglese, e per questo chi fa questo lavoro ne svolge generalmente anche altri, autoriali o di revisioni più classiche.
I sensitivity reader non vengono ingaggiati per leggere ogni romanzo che esce, ma solo alcuni, quelli per cui autori o editori ritengono possa essere utile. Il loro lavoro è sfruttato soprattutto nel campo dei libri per ragazzi e adolescenti, per cui ci si preoccupa di più delle conseguenze di un possibile impatto negativo di certe parole. Generalmente i sensitivity reader non suggeriscono come cambiare un testo ma segnalano le parti che considerano problematiche, indicandone i motivi: sta poi all’autore e all’editor, cioè alla persona della casa editrice che lavora direttamente con l’autore sul testo, in modo più o meno incisivo a seconda dei casi, in modo da migliorarlo il più possibile, decidere come e se seguire i suggerimenti dei sensitivity reader.
A volte sono gli stessi autori a chiedere che i loro manoscritti vengano letti da un sensitivity reader. La scrittrice britannica Juno Dawson ad esempio ha raccontato sul Guardian di averne richiesto uno perché nel suo romanzo fantasy Her Majesty’s Royal Coven c’è un personaggio che ha origini etniche miste e ha la pelle nera: Dawson, che è bianca, voleva descriverla nel modo più giusto. «Prima di dirmi cosa aveva trovato la lettrice, la mia editor mi ha chiesto se fossi pronta a sapere cose che forse non avrei voluto sentire», ha detto Dawson. «Ovviamente nessuno vuole sentirsi accusato di avere dei pregiudizi, ma se avevo scritto inavvertitamente qualcosa di inaccurato o offensivo volevo saperlo prima che il libro arrivasse nelle librerie».
Se in molti casi la discussione è serena perché la pratica di queste revisioni è consolidata, in altri però possono esserci contrasti d’opinione. Può succedere agli autori stranieri i cui libri sono tradotti in inglese da altre lingue e a cui l’editore americano o britannico può chiedere, nella fase di traduzione, di cambiare certe espressioni approfittando della trasposizione in un’altra lingua per questioni di sensibilità.
Secondo Dawson il ruolo dei sensitivity reader esterni «non sarebbe necessario se le redazioni delle case editrici fossero più varie per quanto riguarda il personale»: «delle sei editor con cui ho lavorato dal 2011 nel Regno Unito, tutte erano donne cisgender bianche provenienti (direi) da famiglie abbastanza benestanti. I loro capi, quasi in ogni caso, erano uomini cisgender bianchi».
In Italia non esistono veri e propri sensitivity reader, anche se sempre più spesso, e soprattutto nell’editoria per ragazzi e adolescenti, editor e traduttori e traduttrici, nel caso dei libri stranieri, fanno attenzione al modo in cui certe questioni sono citate e alle parole da usare in quei contesti. Capita anche che chi edita o traduce si rivolga più o meno informalmente ad altre persone, più esperte di un tema o di un certo tipo di esperienze, per capire meglio quali parole usare.
È una cosa che è stata fatta ad esempio per alcuni libri di Oscar Mondadori, pubblicati nelle collane Fantastica, Fabula, Draghi, Ink.: quelle rivolte principalmente a un pubblico di adolescenti o giovani adulti e che propongono romanzi fantasy, fantascientifici, fumetti e, sempre di più negli ultimi anni, altri che raccontano esperienze di persone molto giovani, spesso appartenenti alla comunità LGBTQ+.
Chiara Reali, consulente editoriale delle collane e traduttrice di vari libri che vi sono stati pubblicati, si è ad esempio rivolta all’editrice, autrice e attivista Antonia Caruso, che è una donna trans, per una consulenza sulla traduzione di Detransition, baby di Torrey Peters, un romanzo le cui protagoniste principali sono donne trans; il nome di Caruso sarà indicato all’interno del libro per segnalare il suo contributo. Nel caso di un altro romanzo straniero che menzionava problemi di disturbi alimentari è stata invece coinvolta per rivedere la traduzione una persona che ne aveva esperienza personale e che al contempo ha competenze in campo letterario.
«Stiamo costruendo una squadra di traduttrici, traduttori e traduttorə già competenti sul linguaggio da usare per parlare di temi LGBTQ+», spiega Reali, «oppure che formiamo noi. Abbiamo una specie di laboratorio a distanza per tenerci in contatto durante il lavoro e discutere collettivamente alcune scelte di traduzione e i problemi che ci possono essere. Poi insieme abbiamo una rete di contatti molto nutrita a cui possiamo fare riferimento in caso di necessità».
Sempre all’interno di Mondadori, ma in un’altra divisione della casa editrice, quella dei libri per ragazzi, è poi capitato di fare revisioni di vecchi libri mirate espressamente a trovare eventuali passaggi problematici: è stata condotta una rilettura completa e approfondita dei romanzi per ragazzi di Enid Blyton (1897-1968), scrittrice inglese autrice della serie della Banda dei Cinque, le cui opere fin dagli anni Sessanta sono state accusate di contenere dettagli razzisti, xenofobi e sessisti. Alcuni libri di Blyton sono stati ripubblicati di recente e la rilettura e le successive modifiche ai testi sono state fatte su richiesta degli eredi della scrittrice, cioè di coloro che possiedono i diritti d’autore sui testi.
Gli interventi sui libri di autori stranieri del passato sono comunque in generale meno complicati perché spesso le parole problematiche per le sensibilità contemporanee si possono variare nella traduzione senza avere un grosso impatto sul testo.
Il Post ha contattato alcune scrittrici e scrittori italiani che hanno avuto a che fare con sensitivity reader, più o meno formalmente, in occasione della pubblicazione all’estero dei loro romanzi, ma tutti hanno preferito non parlare dell’esperienza per ragioni di opportunità professionale, oppure perché non possono farlo pubblicamente per contratto.
In generale quando si discute del lavoro dei sensitivity reader ciò su cui ci si sofferma è che, secondo i critici, queste figure rappresenterebbero un rischio per la libertà d’espressione e per la qualità dei testi letterari, perché possono costringere gli autori a cambiare le proprie parole e le proprie storie, col rischio di condurre alla pubblicazione di narrativa insipida, che non urta e quindi non offende, ma non stimola nemmeno nuove riflessioni provocando il lettore e mettendolo di fronte a un disagio “costruttivo”. Chi sostiene l’utilità dei sensitivity reader sottolinea che gli eventuali cambiamenti sono concordati tra editor e autore (o detentore dei diritti d’autore, nel caso di autori morti come Dahl), e che quindi i sensitivity reader non fanno censure.
C’è poi chi pensa che il ricorso ai sensitivity reader sia problematico perché da un lato può spingere uno scrittore ad auto-censurarsi, a scegliere di non scrivere di un certo argomento, dall’altro perché un lettore impiegato unicamente per trovare problemi legati alla sensibilità potrebbe essere spinto a vederne anche dove non ce ne sono realmente. Quest’ultimo caso potrebbe essere quello di alcune delle numerose modifiche fatte ai libri di Dahl, quelle meno comprensibili: ad esempio, la rimozione dell’aggettivo “nero” riferito al cappotto («palandrana» nella traduzione italiana) del gigante di Il GGG. Tuttavia non si sa se tale correzione sia stata suggerita da Inclusive Minds o decisa da Roald Dahl Story Company e dalla Puffin Books per un eccesso di premure.
Quello che è certo è che l’atto di leggere i libri con un’attenzione per l’uso di certe parole potenzialmente offensive non è una novità. Nel 1940 il celebre romanzo giallo di Agatha Christie Dieci piccoli indiani venne pubblicato negli Stati Uniti con il titolo And Then There Were None, diverso da quello originale usato per l’edizione britannica di pochi mesi prima, perché quest’ultimo conteneva un termine altamente offensivo per la società americana, cioè la parola più dispregiativa e razzista per indicare le persone nere: Ten Little Niggers.
E ancora prima era successo che uno scrittore decidesse di cambiare alcune parole di un suo libro già uscito, in vista di una nuova edizione, dopo che una lettrice gli disse che le trovava non solo offensive ma dannose per la comunità di persone di cui faceva parte: accadde nel 1863, lo scrittore era Charles Dickens e la lettrice Eliza Davis, una donna inglese di origine ebraica che conosceva Dickens perché suo marito aveva acquistato una casa da lui. Davis scrisse allo scrittore in merito alla rappresentazione del personaggio di Fagin, l’antagonista di Oliver Twist (1837-1839), che è un criminale sfruttatore di bambini, e che nel romanzo veniva chiamato tantissime volte «the Jew», cioè “l’ebreo”.
Inizialmente Dickens difese la sua scelta, ma poi fu convinto da Davis e decise di intervenire sulla ristampa del romanzo in corso in quel momento. Era già a più di metà, e dato che all’epoca comporre i caratteri per un romanzo era un lavoro molto lungo, le modifiche vennero fatte solo sulla seconda parte del libro. Tuttora Fagin è chiamato “l’ebreo” per 257 volte nei primi 38 capitoli di Oliver Twist, e solo in rare occasioni nel resto nel romanzo (15 capitoli).
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