Una grandezza minore
«Tutta la “retorica dell'uomo forte” diventa assai concreta quando si parla con qualcuno che stima davvero l'uomo forte per semplici motivi: perché dà un senso alla sua infelicità e gli fornisce ottime ragioni per accanirsi su chi sta peggio — pensando che in fondo stia meglio»
Tra le grandi intellettuali del Novecento, Simone Weil ha incarnato un esempio di obbedienza morale talmente estremo da condurre alla dissoluzione: per molti versi è una figura più tragica che esemplare, e pochissimi sarebbero disposti a seguirla fino in fondo. Ma nei suoi scritti, fra testimonianze della brutalità della vita operaia e lampi dal sapore paleocristiano, troviamo sempre suggestioni utili per ragionare su quanto accade oggi.
Ecco due paragrafi di La prima radice:
Tutto quel che si vorrà imporre a Hitler, non gli impedirà di sentirsi una creatura grandiosa. E soprattutto non impedirà, fra venti, cinquanta, cento o duecento anni, a un piccolo ragazzo sognatore e solitario, tedesco o no, di pensare che Hitler è stato un essere grandioso, e di desiderare con tutta l’anima un eguale destino. In questo caso, guai ai suoi contemporanei.
La sola punizione capace di punire davvero Hitler e di distogliere dal suo esempio i ragazzi affamati di grandezza che vivranno nei secoli avvenire, è una così completa trasformazione del senso della grandezza, che necessariamente lo escluda.
Altri tempi, si dirà: il saggio è del 1943, quando Hitler era ancora vivo, e fu pubblicato nel 1949, quando il Reich era stato sconfitto ma il lavoro di denazificazione in Germania procedeva in maniera alquanto superficiale. Nel suo straordinario reportage dal paese occupato, Autunno tedesco, Stig Dagerman testimonia una sofferenza collettiva fatta di rovine, cantine allagate e bambini orfani; e se «la fame è una pessima maestra», ancor più dolorosa è la presenza di gerarchi e aguzzini che la scampano soprattutto grazie ai soldi messi da parte: mentre «un giurista nazista raccoglie la legna nel bosco dove appena due anni fa i nazisti hanno impiccato dei bambini», altrove gli americani «sparano ai cinghiali con le munizioni della vittoria».
Altri tempi, certo; e altri autori. Però se siamo ancora qui a discutere di fascismo e disumanità o coglioni violenti — se ci agitiamo allibiti davanti alle turpitudini del governo e alla fierezza con cui sono rivendicate — rileggere le righe di Weil, in apparenza così distanti, può essere d’aiuto.
Cos’è oggi la grandezza? Quali sono le qualità più invidiate e desiderate? Prima di cercare una risposta conviene fare un passo di lato.
Qualche anno fa Feltrinelli pubblicò un piccolo e intenso saggio di Didier Fassin, Punire. Una passione contemporanea. A giudizio di Fassin gli ultimi decenni hanno segnato un irrigidimento della politica nei confronti dell’illegalità reale o percepita, eleggendo la sicurezza a tema centrale delle agende: l’antropologo definisce populismo penale questo passaggio dallo Stato sociale allo Stato giudiziario, che si incarna innanzitutto in un aumento costante della popolazione carceraria. Ma il discorso di Fassin è assai più ampio e cerca di minare alla base l’idea che la punizione consista nell’infliggere sofferenza all’autore del crimine, invece di operare una restituzione verso la vittima.
Il libro è ancora molto attuale e merita una riflessione più ampia: qui mi limito a sottolineare come Fassin insista sulla sproporzione punitiva fra il singolo atto di violenza — spesso reati contro la proprietà — e i crimini finanziari o ecologici, più gravi ma meno immediatamente visibili. (Tale sproporzione è anche narrativa, per lo meno nei mass media, e rinfocola l’idea che il mondo sia marcio e occorra usare la mano dura un po’ ovunque — tranne dove servirebbe davvero).
Per quanto concerne l’Italia, però, mi pare che l’intensificarsi del desiderio di punizione non c’entri solo con il giustizialismo o populismo penale, e abbia bensì tratti di Schadenfreude — il mero compiacimento per la sofferenza altrui. Questo tipo di violenza disperata assume molte forme, che vanno dal grottesco al tragico: è un misto di sconfinato vittimismo, odio pre-politico e risentimento. Nulla di troppo nuovo, certo. Nello stesso anno in cui Dagerman mandava i suoi dispacci dalla Germania, Ferruccio Parri accusava una «deficienza di coscienza civile, per la quale agli italiani, tra gli opposti poli del gregge e del ribellismo, è così difficile ritrovarsi cittadini. Miracolisti e maldicenti, figli tutti del fascismo padre e perciò riuniti oggi sotto il santo segno del qualunquismo». (Ma almeno all’epoca c’era Parri, si dirà).
In ogni caso, solo nell’ultima settimana ho raccolto una messe di esempi su tale Schadenfreude che chiunque può alimentare a piacimento. Non li racconto perché l’analisi morirebbe nell’aneddotica: ci vorrebbero statistiche più fondate, lo so; e ci sono fin troppi indignatissimi editoriali basati su quanto è capitato all’autore il giorno prima — lo so. Ma nulla mi toglie questa sensazione di dosso: il Paese è intriso di questa passione punitiva irriflessa.
Ed è un problema che riguarda tutti, a livelli ovviamente diversi: pensarsi immuni o salvi non serve a granché. Non voglio cancellare le differenze, intendiamoci: c’è una linea nettissima fra chi non si preoccupa della morte di persone in mare e chi ne resta inorridito, ma in casi meno eclatanti — in famiglia, nel lavoro, nelle relazioni di ogni giorno — le cose si fanno meno chiare. La passione punitiva può diventare depressione o ferocia o, come accade più spesso, delega della violenza: non alzo un dito, ma sono contento che qualcuno soffra: che un manifestante venga preso a botte, che un senzatetto venga allontanato. Ed è grande chi lavora per questo obiettivo.
Cambiare direzione è complicato, e al riguardo Weil offre una verità sgradevole: fatte salve le ovvie differenze (sarebbe delirante paragonare lo stato presente agli anni ’40) se anche assistessimo a un rivolgimento politico, per impedire che certe atrocità si ripetano occorre di più. Occorre mutare nel profondo ciò che apprezziamo e disprezziamo e manifestare tale cambiamento in modo da impedire che determinati valori negativi — la forza in luogo della ragione — si impongano come appetibili per chi desidera grandezza: altrimenti il ciclo continuerà a ripetersi.
Purtroppo, frasi come quelle che ho appena scritto diventano subito solenni, inutili ovvietà se a esse non seguono gesti concreti. Servono molta fatica e molto lavoro, sia a livello individuale che comunitario — fatica e lavoro che ben pochi sono disposti a sobbarcarsi, anche e soprattutto a sinistra.
Bisognerebbe ad esempio smettere di considerare il discorso pubblico come un agone dove affermarsi a ogni costo, anche a scapito della verità. O che le persone con ruoli di responsabilità riconoscano i propri errori, per impedire che la superbia e la pretesa infallibilità diventino uno stile di comportamento. O ancora ragionare sul proprio potere e sugli abusi che anche involontariamente compiamo; dirigere altrove la propria rabbia e soprattutto mutare l’idea comune di grandezza.
Si può ritenere “un grande” Mussolini oppure Matteotti; pensare che il riconoscimento di sé passi per il dominio sugli altri oppure per l’impegno sociale. A giudizio di Weil è necessario innanzitutto sostituire la logica dei diritti con la logica dei doveri — una ricetta che farà inorridire molti. Ma non la si scambi per un ritorno all’austerità o a politiche che negano la sofferenza delle classi subalterne, imponendo loro soltanto sacrifici. Il lessico del diritto resta intatto: tuttavia per la filosofa sono i doveri a legare davvero gli esseri umani, creando un tessuto di relazioni sociali fondato su un ordine “tale che nessuno sia costretto a violare obblighi rigorosi per adempierne altri”.
Ne esce una visione sociale fondata sulla priorità dei bisogni altrui: e ne esce anche, malgrado la tragicità e l’emotività della figura di Weil stessa, l’ideale di una grandezza diversa, alquanto più sobria. Una grandezza minore, vorrei dire, che non renda virtù l’esibizione di forza, il disprezzo, il risentimento; e che sappia diventare modello di una vita più felice, non soltanto più giusta.
Questo mi pare un punto su cui insistere: rovesciare l’idea che la mitezza sia da imbecilli che si lasciano fregare invece di aggredire per primi, da deboli che vivono una vita inerme. Ma la mitezza non è debolezza. Tutta la “retorica dell’uomo forte” diventa assai concreta quando si parla con qualcuno che stima davvero l’uomo forte per semplici motivi: perché dà un senso alla sua infelicità e gli fornisce ottime ragioni per accanirsi su chi sta peggio — pensando che in fondo stia meglio.
La difficoltà di praticare un modello radicalmente altro è dovuta in parte alla natura umana, ed è bene non farsi troppe illusioni al riguardo. Ma è ancor più importante non cedere alla tentazione opposta. Il grande storico Edward Hallett Carr vedeva nel pessimismo una forma di elitarismo, il prodotto di gruppi privilegiati che si vedono intaccati dalla crisi: non è una reazione più efficace del risentimento; appare solo meno volgare, perché se lo può permettere.
La via che passa fra queste due alternative è terribilmente stretta, e la sua assenza dice molto dell’immaginario politico contemporaneo, della sua incapacità di incidere nei desideri della gente. “Soltanto Hitler ha finora colpito l’immaginazione delle masse”, ammoniva Weil: “Ora bisognerebbe colpire più forte di lui”.