Una delle più gravi crisi a Cuba dalla rivoluzione castrista
Mancano cibo, elettricità e materie prime, il turismo non si riprende e un'intera generazione di giovani sta emigrando all'estero
Da almeno due anni Cuba sta attraversando una delle crisi più gravi e profonde dal 1959, anno della rivoluzione guidata da Fidel Castro che instaurò nel paese un regime comunista. Dall’estero l’effetto più visibile della crisi è un flusso migratorio dall’isola senza precedenti: i giovani istruiti in assenza di prospettive stanno lasciando in massa il paese, emigrando soprattutto verso gli Stati Uniti.
A Cuba invece non si parla della crisi sui giornali e in televisione, perché non esiste una stampa libera e il dissenso è represso con durezza. La popolazione però ne ha una percezione quotidiana, nella difficoltà di reperire beni di prima necessità, nell’inflazione enorme che rende i salari anche di alto livello non sufficienti per una vita dignitosa, nella paralisi delle attività produttive.
Le cause di una crisi così profonda sono numerose. La più evidente e recente è la pandemia, che ha di fatto azzerato i flussi turistici per almeno un paio d’anni, privando l’isola della sua fonte principale di guadagno. Per questo il governo negli ultimi anni ha investito molto in un piano di rilancio e riqualificazione delle strutture ricettive, con la speranza di rilanciare il turismo dopo la pandemia, ma senza grandi risultati. Il risultato è stato che molte risorse sono state sottratte ad altro, come la semplice manutenzione delle infrastrutture, diventate nel frattempo obsolete e in molti casi non funzionanti: nell’ultimo anno gravi problemi alla rete elettrica hanno provocato frequenti e prolungati blackout.
Gli effetti della pandemia si sono poi sommati a decenni di politiche sbagliate su industria e agricoltura, che non solo non hanno promosso lo sviluppo economico di Cuba, ma nei fatti l’hanno fatta regredire.
La fragilissima economia cubana si regge inoltre su un sistema di pagamenti cronicamente inefficace, basato su una dipendenza estrema dalla valuta straniera a causa della storica debolezza di quella locale, il peso cubano. Tutti i tentativi di riforma monetaria si sono infine dimostrati un fallimento.
Altri due fattori hanno poi aggravato la situazione economica del paese: da una parte, l’inasprimento delle misure collegate all’embargo statunitense volute dall’ex presidente Donald Trump per alcuni anni hanno reso impossibili gli ingressi dei visitatori statunitensi e le rimesse degli emigrati (ossia i soldi che i cubani che vivono e lavorano all’estero mandano nel paese); dall’altro, il crescente aumento del debito pubblico, che è ormai diventato insostenibile e che il governo cubano ha smesso in parte di pagare, causando così l’interruzione del credito che gli facevano molti paesi esteri, anche considerati amici.
Queste cause – contingenti, per così dire – si sono aggiunte a quelle consolidate di un’economia ancora legata al modello del socialismo sovietico, basato su interventi statali centralizzati che si sono dimostrati nel tempo poco efficaci.
La fine del turismo e la cronica dipendenza dal dollaro
Fra le cause più recenti di questa crisi, la pandemia è stata quella dagli effetti più dirompenti perché ha azzerato il turismo, il settore che garantiva i principali guadagni e che soprattutto portava sull’isola valuta straniera.
La dipendenza prima dal dollaro, poi dalla valuta straniera in generale, è un problema di Cuba da decenni e condiviso con molti paesi emergenti e in via di sviluppo. Il legame di questi paesi con il dollaro è da sempre un grosso ostacolo al loro sviluppo economico. Semplificando molto, le valute sono lo specchio delle economie che rappresentano: economie forti hanno monete forti e stabili, come il dollaro per gli Stati Uniti o l’euro per l’Eurozona; economie deboli e instabili hanno monete deboli e altrettanto instabili, che possono perdere rapidamente valore.
Per questo motivo i paesi emergenti, e anche Cuba, usano tantissimo il dollaro – o le valute forti in generale – e ne sono spesso totalmente dipendenti. Consumatori e aziende fanno molti pagamenti in dollari, anche per i piccoli acquisti quotidiani, perché spesso la valuta locale non è accettata. In più, detengono parte della loro ricchezza in dollari, consapevoli del fatto che è una moneta che non potrà mai perdere valore, a differenza di quelle locali, e proteggono così il loro potere di acquisto. Anche gran parte del debito pubblico è in dollari. La valuta straniera serve poi per le importazioni di beni dall’estero, che a Cuba garantiscono quasi la totalità dei prodotti.
Il peso cubano è da sempre una moneta debolissima, soggetta a una svalutazione molto rapida. Attualmente l’inflazione nel paese è al 130 per cento su base annua: il che significa che mediamente i prezzi più che raddoppiano ogni anno. Per alcuni prodotti di uso comune gli aumenti sono stati anche superiori: una bottiglia di olio è passata da 50 a 1000 pesos, due chili di pollo possono valere 1600 pesos, a fronte di uno stipendio medio da 3800 pesos (lo stipendio di un medico o di un architetto arriva al massimo a 5500, le pensioni minime sono di 1500).
Tutto ciò accade a due anni di distanza da una grande riforma economica e monetaria, chiamata “Tarea ordenamiento” (lavori per fare ordine), che comprendeva un adeguamento dei salari al consistente aumento dei prezzi che c’era stato: in due anni, però, i prezzi sono aumentati ancora e di sette volte di più rispetto ai salari (secondo i dati ufficiali).
La riforma prevedeva anche l’abolizione della doppia valuta, un sistema complicato e inefficiente su cui si reggeva tutto il sistema dei pagamenti cubano. Dal 1 gennaio 2021 non esiste più il peso convertible (CUC), cioè la valuta il cui valore era ancorato a quello del dollaro e fissato a 24 pesos cubani (CUP): il governo aveva deciso di eliminarlo per evitare ulteriori distorsioni nei conti dello stato e per cercare di superare il problema dell’avere due tassi di cambio.
L’abolizione non ha però funzionato. Sia lo stato che i cittadini ambiscono sempre a possedere più valuta straniera possibile – per le transazioni quotidiani e per proteggere i loro risparmi dall’inflazione – e così esistono oggi tre tassi di cambio: uno con cui lo stato compra valuta straniera (24 pesos per un euro), uno con cui la vende (110-120) con molte limitazioni, uno a cui l’euro viene cambiato al mercato nero (170-180, in aumento).
Quelli che se ne vanno
La valuta straniera è fondamentale anche per emigrare. Il fenomeno ha assunto dimensioni senza precedenti nella storia cubana, che pure aveva registrato due diverse grandi migrazioni, fra gli anni Ottanta e i Novanta. Si stima che solo nel 2022 sia partito il 2 per cento della popolazione, che rappresenta anche il 4 per cento di quella attiva nel mercato del lavoro: anche se non esistono cifre ufficiali complessive, potrebbero aver lasciato l’isola 300.000 persone in un anno.
L’80-90 per cento di chi parte sceglie gli Stati Uniti (seguono Spagna, Brasile e Italia), dove l’ottenimento della cittadinanza per chi proviene da Cuba è più facile, rispetto agli altri immigrati. Secondo dati ufficiali del governo americano (U.S. Customs and Border Protection) i cubani entrati negli Stati Uniti sono stati oltre 224.000 in un anno (ottobre 2021-settembre 2022).
L’esodo è frutto anche di scelte che il governo cubano fece dopo le proteste del luglio 2021, le più importanti della storia post-rivoluzionaria, che arrivarono a mettere in discussione lo stesso regime. Il presidente Miguel Díaz-Canel scelse una politica repressiva (1400 manifestanti arrestati, condanne anche a pene dure, fino a 30 anni di carcere), poi firmò col presidente nicaraguense Daniel Ortega un accordo per eliminare da dicembre 2021 i visti fra i due paesi. Iniziò quindi un esodo verso il paese centroamericano, base di partenza per successivi viaggi illegali via terra verso gli Stati Uniti. Oggi questa rotta è percorsa soprattutto dai cubani più giovani: l’età media della popolazione rimasta nel paese si è quindi ulteriormente alzata, la forza lavoro a disposizione ridotta.
Per emigrare, come detto, serve molta valuta straniera: 4.000 dollari per un volo fino a Managua (i prezzi sono saliti molto negli ultimi due anni), 6.000 per i successivi attraversamenti di frontiere: 10.000 dollari in media, che moltiplicati per i numeri enormi di emigranti rappresentano anche una “fuga” importante di capitali e contribuiscono ad aumentare la richiesta di valute spendibili all’estero.
L’importanza delle rimesse e l’embargo
Nel tempo gli emigrati sono diventati una risorsa fondamentale per l’economia cubana, che si regge in una parte consistente sulle rimesse delle persone che vivono all’estero, ossia dei soldi in valuta forte che i cubani che lavorano all’estero mandano sull’isola. Gli emigrati cubani sono più di due milioni, fra il 15 e il 20 per cento del totale della popolazione; le rimesse valgono il 6 per cento del prodotto interno lordo e sono valutate fra i 2 e i 3 miliardi di dollari ogni anno: la sopravvivenza di almeno un quarto delle famiglie cubane dipende oggi dai soldi e dai beni inviati da parenti residenti all’estero e in particolare dagli Stati Uniti.
Le politiche statunitensi sull’invio di denaro a Cuba, però, sono sempre state legate alle norme relative all’embargo. L’embargo commerciale fu istituito dal presidente americano John Fitzgerald Kennedy quasi due anni dopo che la rivoluzione castrista aveva rovesciato il dittatore Fulgencio Batista, quando il nuovo regime di Cuba aveva iniziato a nazionalizzare alcune grosse industrie che operavano in territorio cubano e che erano di proprietà degli Stati Uniti. Nel 1962 l’embargo fu esteso a quasi tutte le esportazioni cubane. Fu un colpo per l’economia cubana, anche perché prima della rivoluzione gli Stati Uniti erano il principale partner commerciale di Cuba: compravano il 74 per cento dei beni esportati dall’isola e fornivano il 65 per cento di quelli importati.
Il bloqueo, come lo chiamano a Cuba, non solo vietava ogni commercio con l’isola, ma prevedeva che le navi cargo che avevano attraccato in porti cubani non potessero approdare negli Stati Uniti per i successivi sei mesi.
L’eliminazione dell’embargo è sembrata essere possibile durante la presidenza di Barack Obama, che aveva aperto alle rimesse e ai viaggi turistici (non esisteva al Congresso una maggioranza pronta a sostenere l’abolizione totale dell’embargo), ma Donald Trump era poi andato in direzione totalmente opposta, introducendo 243 nuove misure che avevano ridotto di molto gli arrivi dei turisti statunitensi. Il suo successore, Joe Biden, ha reso più semplice l’invio di denaro e di beni e sembra voler procedere con una politica di alleggerimento delle misure, che potrebbero però incontrare le resistenze dei Repubblicani.
– Leggi anche: Poi qualcosa non è andata come doveva andare, a Cuba – Roberto Alajmo
La difficile arte di sostenersi
L’embargo è una delle ragioni, o la principale, della storica difficoltà di trovare beni di consumo sull’isola. Nel corso dei decenni Cuba aveva trovato partner commerciali differenti, ma negli ultimi anni i mancati pagamenti dei debiti da parte dello stato hanno interrotto molte linee di approvvigionamento, anche dei beni di uso comune, necessari per la vita quotidiana.
I modi per comprare cibo e prodotti per l’igiene come dentifricio o carta igienica a Cuba sono vari. Il più economico è quello delle bodegas, negozi convenzionati di proprietà dello stato che funzionano con tessere di razionamento di ispirazione sovietica. Fino a qualche decennio fa ci si trovavano tutti gli alimenti necessari, compresi alcuni extra come birra, rum o dolci, oggi sono per lo più riservati ai prodotti essenziali, come zucchero, riso, grani, latte in polvere, sapone, in misura minore carne. Il governo di mese in mese rende pubblico il programma di distribuzione della merce, ma sempre più spesso gli scaffali restano vuoti, o le tessere permettono l’acquisto di quantità molto ridotte. I prodotti arrivano con cadenza casuale, bisogna fare lunghe code e accontentarsi del poco che c’è, che non basta quasi mai.
Un altro canale di distribuzione è quello delle catene di negozi, sempre di proprietà dello stato, in cui gli acquisti si possono effettuare solo con la MLC (Moneta liberamente convertibile), una valuta virtuale da caricare su particolari carte di credito dopo aver depositato valuta straniera in banca (una di queste, che si vede in quasi tutte le città dell’isola, si chiama Panamericana). I cubani devono quindi procurarsi valuta straniera, versarla nella banca statale (che così prova a ovviare alla continua mancanza di valuta stabile e spendibile all’estero) e ottenere un’identica quantità di MLC da utilizzare nei negozi. Qui i prezzi sono più alti, l’inflazione è alta, ma si trovano più cose: in origine questo genere di negozi era riservato a elettrodomestici e ricambi di auto, ora tratta anche alimentari.
Anche per questa via, però, molte cose non si trovano: bisogna allora rivolgersi ai pochi negozi privati (con prezzi ancora più alti) o al mercato nero, dove dollari e euro sono preferiti dai venditori.
Il mercato nero e la compravendita di beni sono fra i mezzi più diffusi per sostenersi, anche per chi ha un lavoro nel settore pubblico, i cui stipendi non bastano più. I più giovani stanno rinunciando alle carriere universitarie, perché il lavoro che troverebbero non sarà abbastanza retribuito, i dipendenti pubblici hanno spesso uno o più lavori part-time. Altre vie per ottenere entrate extra sono i viaggi all’estero verso altri paesi centroamericani (per chi può) con importazione di merci da rivendere, o i furti (piuttosto comuni e diffusi) nelle aziende e negli uffici pubblici.
Farmacie, fabbriche e case
Le carenze riguardano anche altri settori: in uno in precedenza fra i più sviluppati e autosufficienti del paese, quello farmaceutico, le aziende cubane non hanno a disposizione gli ingredienti di base per sostenere la produzione, tanto che sull’isola si sta verificando un aumento dei ricorsi alla cosiddetta “medicina alternativa”. Un fenomeno paradossale per un paese che “esporta” medici, una delle principali risorse economiche.
Un professore universitario dell’Avana sentito dal Post, che preferisce rimanere anonimo, dice: «Nel mio distretto il novanta per cento delle aziende è fermo per assenza di materie prime».
Cuba non è mai stata una potenza agricola o industriale, anche per un passato in cui la sua economia è stata condizionata da politiche colonialiste o post-colonialiste (da parte di Spagna, Stati Uniti e poi Unione Sovietica), ma il caso degli zuccherifici è esemplare per raccontare gli errori delle politiche economiche centralizzate, soprattutto negli ultimi vent’anni. Negli anni Ottanta, Cuba produceva 8 milioni di tonnellate di zucchero l’anno (dalla canna da zucchero), nel 2022 ha fatto segnare il record negativo non arrivando nemmeno alle 400.000 tonnellate. Lo smantellamento dell’industria del settore iniziò nel 2002 con un progetto di rinnovamento voluto da Fidel Castro, nell’intento di rendere il settore più efficiente.
Anche la semplice manutenzione delle strutture esistenti oggi risulta impossibile. Il problema è molto evidente nel settore edilizio: le vecchie e malandate case dell’Avana, senza ristrutturazioni, stanno rapidamente diventando inagibili (anche per il succedersi di eventi atmosferici estremi) e non possono essere riparate, creando un’inedita emergenza abitativa sull’isola: nel 2022 sono state costruite solo il 58 per cento delle case programmate, mentre gli sfollati, ufficialmente non proprietari delle case, non hanno diritto ad alcun indennizzo in caso di crollo o inagibilità. Secondo i dati ufficiali solo nella provincia dell’Avana sono oltre 185.000 le abitazioni in condizioni precarie.
Dove mancano gli investimenti
Sulla questione influisce anche la scelta del governo di compiere i maggiori investimenti nel settore del turismo: negli ultimi 4 anni sono stati stanziati 1,5 miliardi di dollari nella costruzione di hotel e strutture turistiche, soprattutto di fascia alta, pari a circa il 55 per cento del budget dello stato. Un piano centralizzato che mirava ad attirare turisti e capitali stranieri, soprattutto statunitensi, ma che si è scontrato prima con la pandemia poi con le nuove misure relative all’embargo del presidente Trump.
Gli hotel già aperti hanno un tasso di occupazione del 10-20 per cento, lo stato non è rientrato dei grandi investimenti e non si vede quando potrà farlo.
Le grosse spese nell’edilizia turistica sono andate a discapito dei budget per l’istruzione, per la sanità e per le spese sociali. Il cortocircuito economico ha reso difficili o impossibili gli investimenti per sviluppare, o anche solo salvaguardare, le infrastrutture. Gli effetti maggiori si vedono sulla rete elettrica, che ormai ciclicamente non regge alla richiesta di energia, soprattutto nei mesi estivi. I danni causati dall’uragano Ian hanno portato a ottobre 2022 a blackout prolungati durati per settimane, anche per 10 ore al giorno. Oggi l’assenza di corrente, per periodi di tempo più limitati (intorno alle tre ore di media) è un’eventualità con cui tutti i cubani devono fare i conti, specialmente fuori dalla capitale.
Il ministro dell’Energia ha ammesso che i blackout dureranno ancora per alcuni mesi, almeno: non c’entra solo l’uragano, ma anche l’obsolescenza delle strutture e l’uso di petrolio locale non raffinato nelle centrali termoelettriche, con danneggiamento delle strutture.
L’iniziativa privata, complessa e non risolutiva
La rivoluzione castrista nel 1959 aveva abolito la proprietà privata sull’isola. Poi a partire dal 1998 il regime aveva iniziato a fare alcune aperture, permettendo ai cubani di avviare piccole attività private per vendere beni o offrire servizi. L’iniziativa privata comunque fu inizialmente “tollerata” dal regime, che non la legalizzò fino al 2011, quando fu permessa dalla legge l’apertura di attività come piccoli ristoranti, i paladar, e negozi di barbiere. Dopo alcune correzioni avvenute nel 2014, la vera apertura alle aziende private è avvenuta dal 2021: da allora ne sono state registrate circa 7.000, ma limitazioni e burocrazia sono notevoli.
Ancora oggi, comunque, alcuni settori restano una prerogativa del pubblico, le dimensioni delle imprese devono essere medio-piccole, il numero dei lavoratori assunti non può superare i tre (per gli altri bisogna rivolgersi allo stato). I sistemi di finanziamento sono molto instabili, le imprese non hanno personalità giuridica (i proprietari devono rispondere quindi in prima persona di eventuali perdite, con i propri beni) e anche al livello di forniture devono usare lo stato come intermediario: se ad esempio producono vernice, devono comprare dallo stato le latte per contenerla, che possono non arrivare per mesi, bloccando la produzione. Limitazioni e problemi hanno fatto sì che l’apertura all’iniziativa privata non abbia cambiato granché nel panorama economico del paese.
Il professore sentito dal Post dice: «Non vediamo prospettive, non si capisce come potremmo uscire da questo circolo vizioso di crisi, a cui seguono riforme sbagliate e poi abolizione delle riforme, che ci riporta al principio».
Anche restando solo al contesto economico, e senza considerare l’assenza di libertà e democrazia, l’attuale regime cubano non sembra in grado di invertire la tendenza che ha visto un costante e radicale peggioramento delle condizioni di vita della popolazione nell’ultimo decennio. E l’imponente emigrazione delle generazioni più giovani rende il futuro a lungo termine ancora più complesso. La ripresa del turismo potrebbe far segnare un parziale miglioramento delle condizioni economiche, ma nel 2022 i visitatori stranieri sono stati circa un terzo (37 per cento) di quelli del 2019, mentre gli altri paesi dell’area hanno già recuperato i livelli pre-pandemia. I molti problemi di vita quotidiana dell’isola colpiscono soprattutto i cubani, ma hanno effetti anche sui turisti: rendere Cuba una meta attraente così diventa più complesso.