Il grande passato e il precario futuro dello sci di velocità
Conosciuto anche come chilometro lanciato, in cui gli umani vanno più veloci che in ogni altro sport privo di motori
di Gabriele Gargantini
Lo sci di velocità è la disciplina terrestre in cui, senza un motore, gli esseri umani vanno più veloce. Da questa settimana ha un nuovo record. A Vars, in Francia, il francese Simon Billy ha raggiunto una velocità di 255,5 chilometri orari. In precedenza il record era stato per anni una faccenda italiana e perfino familiare, perché i detentori erano stati Simone Origone, arrivato secondo a Vars, e il fratello Ivan. Resta invece italiano il record mondiale femminile di Valentina Greggio, che nel 2016 raggiunse i 247,083 chilometri orari.
L’Italia ha una lunga tradizione nello sci di velocità: uno sport essenziale ed estremo, che esiste da oltre un secolo e che nel 1992 si affacciò perfino alle Olimpiadi invernali. Fu popolare e mondano ma da qualche anno è sempre più precario e marginale. Uno sport che deve fare i conti con tutte le questioni che stanno complicando la vita a molti altri sport invernali, con ancora meno soldi e poche piste a disposizione: quest’anno Vars è stata e sarà sede di ogni prova di Coppa del Mondo, oltre che del Mondiale, perché in altre tre località previste come sedi non c’erano le giuste condizioni.
Almeno fino a qualche anno fa, lo sci di velocità era noto soprattutto con un altro nome: chilometro lanciato. Il nome è tuttavia sempre stato improprio, così come lo è parlare di “velocità massima” raggiunta da un atleta. Le velocità cui si fa riferimento in questa disciplina sono infatti le velocità medie con cui sciatrici e sciatori attraversano uno specifico segmento del percorso, che è lungo 100 metri ed è scelto in quanto è il più veloce della discesa, che spesso è sì lunga più o meno un chilometro, ma la cui effettiva lunghezza complessiva è del tutto ininfluente nel calcolo di risultati ed eventuali record.
È possibile, perfino probabile, che Billy, Greggio o i fratelli Origone abbiano toccato, in una qualche loro discesa lanciata, velocità superiori a quelle dei loro record, ma ciò di cui si tiene conto è la velocità media in uno specifico tratto. Per certi versi gli sciatori di velocità si confrontano, scendendo uno per volta e prendendo il maggior slancio possibile, sui 100 metri. La distanza che Usain Bolt percorse correndo in 9 secondi e 58 centesimi, Billy l’ha attraversata, sciando, in meno di un secondo e mezzo.
Ogni singola discesa dura in tutto una ventina di secondi, e gli sciatori ne impiegano poco più di cinque per passare da 0 a 200 chilometri orari di velocità. In fase di lancio e nei 100 metri decisivi, lo scopo è sfruttare al massimo la forza di gravità e minimizzare ogni possibile attrito, dello sci sulla neve o dell’aria sul corpo. Una volta superati quei 100 metri si deve rallentare, con ai piedi sci che sono stati pensati per far tutto tranne che curvare bene e dovendosi rialzare con una certa cautela, perché altrimenti l’improvviso spostamento del corpo avrebbe serie conseguenze. La visibilità è minima, i margini di errore praticamente assenti.
È difficile trovare sport che richiedano di tenere il corpo così fermo: sono richiesti piccoli e precisissimi movimenti, grandi muscoli e ottima flessibilità. I 255 chilometri orari sono vicini alla velocità media, per giro, di un’auto di Formula 1 e superiori alla velocità che si raggiunge in caduta libera prima di aprire un paracadute. Solo nello speed skydiving, il paracadutismo di velocità, si va più veloce pur senza usare un motore.
Gli sci sono più larghi, lunghi e rigidi di quelli da discesa; gli scarponi sono modificati per poter permettere posizioni estreme; dietro ai polpacci ci sono grandi spoiler e le tute sono rivestite in polipropilene per diminuire la resistenza dell’aria. I caschi “alla Darth Vader” sono molto grandi, profilati e tanto importanti quanto gli sci.
Le gare di sci di velocità cambiano un po’ a seconda che si tratti di prove di Coppa del Mondo, di Mondiali o di prove specifiche per tentare nuovi record (che quest’anno sono state associate ai Mondiali). Esistono inoltre due macro-categorie: una in cui si gareggia con caschi tute, sci, scarponi e accorgimenti pensati apposta per lo sci di velocità e un’altra in cui si scia invece con normali attrezzature usate per le gare di discesa libera, quelle di Sofia Goggia e Dominik Paris, che hanno porte e curve e in cui è raro che si tocchino velocità istantanee superiori ai 150 chilometri orari. Negli ultimi anni, tuttavia, lo sci di velocità si è concentrato sempre più sulle gare con attrezzature specifiche; mentre quelle con attrezzature di serie sono ormai considerate di categoria inferiore.
La storia dello sci di velocità iniziò a metà Ottocento in un luogo in cui di solito non iniziano le storie di sci: la California. Lorenzo Proverbio, autore – in collaborazione con Mario Cravetto – di due libri sulla storia del chilometro lanciato, da lui definita «una delle più grandi e sconosciute epopee sportive di tutti i tempi», racconta che nell’Ottocento in California c’erano molti minatori originari del Nord Europa e quindi legati alla tradizione degli sci. In inverno, quando i lavori in miniera si fermavano per la molta neve, alcuni minatori iniziarono quindi «a sfidarsi per soldi, scendendo insieme dalle stesse discese, in gare folli a chi andava più veloce». Un primo record di velocità «cronometrato in modo primitivo» fu di 79 chilometri orari, e fu fatto da una donna. Erano però gare a chi arrivava primo, e quindi a metà tra discese molto libere e sci di velocità.
«Una volta finita l’epopea dei minatori», racconta Proverbio, negli anni Trenta del Novecento una forma più codificata dello sci di velocità fu introdotta in Svizzera, a Mürren e St. Moritz, dove si iniziò a parlare di Kilomètre Lancé (motivo per cui ancora oggi, anche in italiano, si usa spesso “Kilometro Lanciato”, con la K). Il chilometro lanciato (o KL) «era spettacolare, era nuovo, aveva il gusto del proibito e la morte dietro l’angolo», spiega Proverbio, e per di più arrivava «in un periodo di effervescenza» degli sport invernali, in cui fu visto come «futurista», come un modo per testare, ancor più che sulle automobili, le leggi dell’aerodinamica e materiali di ogni genere.
All’inizio erano «omaccioni che scendevano coperti da attrezzature improbabili e spesso appesantiti dal piombo, perché si credeva che più pesante volesse dire più veloce», col tempo gli approcci furono però sempre più affinati, fino a diventare – cosa fondamentale per il futuro successo del KL – «un laboratorio» per lo sci alpino, un contesto in cui sperimentare innovazioni tecniche da applicare altrove.
Il primo record novecentesco fu dell’austriaco Leo Gasperl, grande personaggio dello sci (non solo di velocità e nemmeno solo alpino) di inizio Novecento, che negli anni Trenta arrivò a 136 chilometri orari. Negli anni Cinquanta, sulla pista di Cervinia-Plateau Rosà, sciatori con sci in legno e maglioni di lana, che scendevano senza casco, portarono il record oltre i 150 chilometri orari. Tra gli altri, un record lo fece anche l’italiano Zeno Colò, che nel 1950 vinse l’oro olimpico nella discesa libera.
Un altro italiano, Luigi Di Marco, si fece notare negli anni Sessanta per i suoi record ottenuti grazie a posizioni aerodinamiche, studiate in galleria del vento, per le quali, nonostante le velocità raggiunte (oltre 170 chilometri), fu chiamato “l’uomo tartaruga”.
Intanto il KL cresceva: si cercarono e trovarono nuove piste, alcune parecchio pericolose ma velocissime, arrivarono i giapponesi e gli statunitensi e, spiega Proverbio, la disciplina divenne «una vetrina indispensabile per un mercato in pienissima espansione», con marchi che «facevano a gara per accaparrarsi i grandi specialisti» così da poter eventualmente promuovere i loro prodotti come “i più veloci al mondo”, e con l’evento di Cervinia che iniziò a interessare anche il “bel mondo”, a essere frequentato cioè da personaggi esterni al mondo dello sci, così come succede oggi con la Formula 1.
Nel 1978 Steve McKinney – un gran personaggio, che affrontava lo sci di velocità con approccio assai gioioso e spensierato – superò a Portillo, sulle Ande cilene, il muro dei 200 chilometri orari. Negli anni Ottanta, mentre il KL diventava un circuito di gare annuali e mentre “il muro dei 200” fu superato anche a livello femminile, altri record maschili arrivarono grazie alle velocità raggiunte sulla pista francese di Les Arcs.
Nel 1992, alle Olimpiadi invernali di Albertville, ci fu quello che avrebbe potuto essere un grande punto di svolta in positivo per lo sci di velocità, e che invece lo fu in negativo. La disciplina, che intanto era uscita e rientrata nella FIS, la Federazione internazionale dello sci, al contempo interessata dalle prospettive commerciali ma frenata da quanto stava diventando estrema la pratica, arrivò alle Olimpiadi, dove fu disciplina dimostrativa insieme a curling e sci acrobatico, di cui faceva parte il balletto con gli sci.
In televisione le gare di sci di velocità, organizzate sulla pista di Les Arcs, furono tra le più viste, ma il destino olimpico della disciplina fu segnato dalla morte del francese Nicholas Bochatay. Avvenne in una discesa di allenamento, a circa 110 chilometri orari di velocità, dopo uno scontro con un gatto delle nevi. Non fu un incidente particolarmente legato alle peculiarità della disciplina, ma aumentò i dubbi che già molti, nell’ambiente olimpico, avevano verso la pratica, peraltro complessa da organizzare, perché ci sono molte località, anche grandi località alpine, che sono parecchio lontane dalle piste lunghe, ripide e perlopiù dritte su cui si può pensare di fare gare simili.
A proposito di pericolosità: lo sci di velocità lo è senza dubbio, ma molto meno rispetto al passato, quando già prima di Albertville c’era chi era morto praticandolo.
Le piste sono ora ampie e pensate per garantire la sicurezza in caso di caduta; Proverbio dice che «nonostante la sua fama di gara mortale, il chilometro lanciato ha prodotto pochissime tragedie rispetto alla discesa libera» (in cui però ci sono state molte più gare). Le cadute non mancano: nel 2017, a Vars, capitò a Billy, e spesso chi cade percorre centinaia di metri in pochi secondi. Il fatto è che, se non ci sono ostacoli, chi cade scivola via: più che le fratture (ci sono anche quelle) si hanno quindi abrasioni.
La ricerca del record, da sempre il grande stimolo dello sci di velocità, proseguì anche senza Olimpiadi. Nel 1997 Philippe Billy, padre di Simon, arrivò vicino ai 250 chilometri orari, un nuovo “muro” che fu poi superato nel 2002 da Philippe Goitschel.
Negli ultimi vent’anni sono arrivati i record, sempre a Vars – su una pista che inizia con una pendenza del 98 per cento – dei fratelli Origone. Nel marzo del 2016, in un solo giorno, grazie a condizioni particolarmente favorevoli, ci furono un record di Simon Billy, uno di Simone Origone (che è per distacco l’atleta più vincente nella storia dello sci di velocità, oltre che il suo principale innovatore negli ultimi anni) e poi ancora uno di Ivan Origone, seguiti poi dal record dell’allora venticinquenne Valentina Greggio, che migliorò di cinque chilometri orari un record che resisteva da dieci anni.
Come è comune a chi fa sci di velocità, Greggio arriva dallo sci alpino e iniziò a fare “chilometro lanciato” una decina di anni fa, prima nella categoria con materiali di serie (di cui è detentrice del record mondiale, con una velocità superiore ai 200 chilometri all’ora) e poi in quella speciale, in cui ha vinto tre Mondiali e cinque Coppe del Mondo.
Quest’anno Greggio è arrivata seconda al Mondiale e farà poco più di dieci discese in tutto, tutte a Vars. Nel frattempo lavora come insegnante di scienze motorie. Le trasferte sono pagate dalla FISI, la Federazione italiana degli sport invernali; per il resto si arrangia. Greggio è più leggera rispetto agli uomini ma anche rispetto a molte avversarie: «Io non posso pensare di copiare la posizione degli uomini», spiega, «perché non ho la struttura fisica per assumerla e tenerla, e perché sarebbe interessante studiare cosa posso fare io con le mie caratteristiche». In galleria del vento andò però una sola volta, nel 2017, dopo il record.
Greggio parla del fatto che nonostante la grande tradizione del chilometro lanciato, il movimento italiano sia ora «un pochettino indietro» rispetto ad altri paesi per quanto riguarda la ricerca. In generale, comunque, solo un paio di marchi fanno sci per chi fa velocità pura, senza ricevere in cambio un particolare ritorno economico.
Per il resto, la ricerca e la preparazione restano spesso, anche all’estero, qualcosa di molto artigianale, oltre che familiare. Dopo il suo nuovo record, il trentunenne Simon Billy ha raccontato che la sua «prestazione individuale» è stata frutto di un «lavoro di squadra e di famiglia». Solo il giorno prima del record, per esempio, ha scelto di passare al vecchio casco, che però era rotto: per ripararlo è servito che la nonna uscisse a comprare certi pezzi e che il padre Philippe restasse a rimodellarlo fino alle quattro del mattino. Simone Origone ha detto, dopo il suo secondo posto: «Io che mi faccio gli sci da solo, oggi ho toppato nel preparare gli attrezzi». Greggio dice che «più che soldi, sarebbe bello avere un team per fare ricerca e sviluppo, così come uno skiman in grado di preparare al meglio gli sci».
Un po’ come accade negli sport motoristici, vista la personalizzazione di scelte e materiali, anche chi fa sci di velocità tiene spesso nascosto quel che fa, per poi presentarsi con qualcosa di nuovo solo per tentare un record o vincere un Mondiale.
Nonostante le difficoltà – economiche, tecniche e climatiche – e le prospettive tutt’altro che rosee, chi fa sci di velocità parla della possibilità di spingere ancora oltre gli attuali record. I record ormai si tentano non più di una volta all’anno, verso marzo e aprile, quando la neve è più adatta e può capitare, come ha detto Billy, che «tutti i pianeti si allineino». Nelle altre gare si parte più in basso, così da raggiungere velocità massime meno estreme. Si gareggia insomma per chi, in un determinato tratto e con uno specifico slancio, riesce ad andare più veloce.
Non è detto però che l’anno prossimo, o quello dopo ancora, si ripresenteranno condizioni adeguate. Già quest’anno, dice Greggio, se non fosse nevicato circa una settimana prima, a Vars non si sarebbe potuti partire dal punto più in alto possibile. E partire dall’alto, da un punto di solito riservato allo sci estremo, è complesso, perché anzitutto bisogna trovare il modo di preparare la pista: «Servono supporti per mettere il verricello e far salire il gatto delle nevi, e nel tratto in cima ci arriva solo un gattista parecchio in gamba», spiega Greggio.
Per il futuro, non ci sono grandi speranze sul fatto che riapra la pista di Les Arcs, chiusa dopo alcuni incidenti e potenzialmente in grado di consentire nuovi primati. Per i record resta quindi solo Vars, e in aggiunta la possibilità di allungare qualche pista attuale mettendo in cima apposite rampe, simili a quelle usate nel salto con gli sci, uno sport per molti versi affine allo sci di velocità, oltre che altrettanto estremo, e che è Olimpico da oltre un secolo. L’aggiunta di ripide rampe di partenza in cima alle discese aumenterebbe però i costi, oltre che i problemi logistici e di sostenibilità.
«Non so dove andremo a finire» dice Greggio, ma «sicuramente i record si batteranno». La sua opinione è condivisa: Billy ha parlato dei 260 chilometri orari e qualche anno fa in Francia si parlò, in termini piuttosto vaghi, di un «progetto 300». È tuttavia probabile che la ricerca di un record prenderà sempre più il sopravvento su questo sport.
– Leggi anche: Mario Fantin, documentarista e documentatore