La misteriosa origine del coronavirus, tre anni dopo
Continuiamo a non sapere come tutto ebbe inizio, ma una nuova ricerca ipotizza c'entrino i cani procione e il mercato di Wuhan
Nel marzo del 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dichiarò la pandemia da coronavirus, tra le critiche di chi riteneva che la dichiarazione dovesse essere effettuata prima considerati i numerosi casi di infezione riscontrati in molte aree del mondo. Nonostante siano passati tre anni e la situazione sia sensibilmente migliorata, non sappiamo ancora quali furono le origini del coronavirus e come iniziò a diffondersi tra gli esseri umani. Le teorie e le ipotesi non mancano, ma non ci sono prove chiare e secondo i più scettici non sapremo mai dove tutto sia cominciato. Scoprirlo potrebbe però essere molto utile per ridurre il rischio che si verifichino in futuro nuove pandemie causate da altri virus, con le pesanti conseguenze che abbiamo sperimentato in termini di morti e di cambiamenti di abitudini di vita in questi anni.
Per provare a fare chiarezza, o per lo meno per rendere più trasparente il lavoro di ricerca intorno alle origini del SARS-CoV-2, lunedì il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha firmato una legge che richiede alle agenzie di intelligence statunitensi di rendere pubblico quanto più materiale possibile sulle indagini intorno alla pandemia. La documentazione riguarda in particolare le analisi sulle attività svolte presso l’Istituto di virologia di Wuhan, la città cinese da cui sarebbe poi iniziata la pandemia, e i sospetti circa un accidentale contagio tra le persone che ne frequentavano i laboratori, con una conseguente diffusione del coronavirus tra la popolazione.
L’ipotesi di un errore di laboratorio è stata valutata da numerose agenzie di intelligence, non solo negli Stati Uniti, ma non ha portato a conclusioni certe. Alle difficoltà tecniche nella ricostruzione dei primi focolai si aggiungono le reticenze del governo della Cina, che non ha collaborato alle indagini e in alcuni casi le ha ostacolate non fornendo dati importanti su ciò che avvenne a Wuhan tra la fine del 2019 e i primi mesi del 2020.
La scarsa collaborazione della Cina si è resa di nuovo evidente negli ultimi giorni, dopo la segnalazione da parte di un gruppo di ricerca di alcuni dati finora passati inosservati su un archivio online e in seguito rimossi dalle autorità cinesi. Secondo l’analisi dei ricercatori, anticipata all’OMS la scorsa settimana e pubblicata lunedì in una versione preliminare, i dati offrono nuovi elementi a sostegno dell’ipotesi su un primo focolaio di SARS-CoV-2 avvenuto in un mercato di Wuhan, dove si erano già concentrate le indagini all’inizio della pandemia.
Florence Débarre, del Centre nationale de la recherche scientifique (CNRS) in Francia, lo scorso 4 marzo aveva notato con alcuni colleghi la presenza di alcune informazioni genetiche, pubblicate da ricercatori cinesi su GISAID, uno dei principali archivi online per la virologia.
I dati derivavano dalla raccolta di campioni effettuata presso il mercato del pesce Huanan, dove erano stati identificati i primi casi di COVID-19. Oltre alla vendita del pescato, alcune bancarelle vendevano varie specie di mammiferi, spesso vivi e tenuti a stretto contatto in gabbie facilmente accessibili dai clienti. Qualche giorno dopo la segnalazione della scoperta da parte di Débarre, i dati erano stati rimossi da GISAID su richiesta della fonte cinese che li aveva inizialmente pubblicati.
Débarre e colleghi avevano comunque fatto in tempo a salvare una copia dei dati, potendoli quindi analizzare. La decisione di rimuoverli aveva però fatto sollevare qualche perplessità nei confronti dei ricercatori cinesi che li avevano pubblicati, a cominciare da George Gao, il responsabile del Centro cinese per la prevenzione e il controllo delle malattie. Interpellato dal sito della rivista scientifica Science, Gao ha risposto che quei dati non erano «nulla di nuovo» e che si sapeva già da tempo che ci fosse una vendita illecita di alcuni tipi di animali al mercato, circostanza che aveva poi portato alla sua chiusura.
I dati pubblicati e poi rimossi risalgono ai primi giorni del 2020, quando Gao e colleghi avevano effettuato numerosi prelievi di campioni dalle superfici dei banchi del mercato. Secondo le loro analisi, alcuni campioni erano risultati positivi al SARS-CoV-2 e avevano materiale genetico riconducibile agli esseri umani, mentre non erano state trovate relazioni tra il DNA di alcuni animali e la presenza del coronavirus. In uno studio preliminare pubblicato a febbraio, il gruppo di ricerca cinese aveva concluso che i dati raccolti suggerissero «fortemente» l’ipotesi che il virus fosse stato portato al mercato da qualche persona già contagiata, e non viceversa.
Le conclusioni avevano suscitato perplessità, soprattutto in Occidente, perché sembravano voler sollevare la Cina da ogni responsabilità sull’origine del coronavirus, che sarebbe potuto arrivare dall’estero come sostengono da tempo alcuni funzionari del governo cinese. Lo studio offriva inoltre nuovi elementi a sostegno delle ipotesi, altrettanto difficili da dimostrare, circa l’origine in laboratorio del coronavirus e non al mercato di Wuhan.
La nuova ricerca condotta da Débarre, e anticipata al gruppo di lavoro dell’OMS che si occupa di indagare le origini di nuovi patogeni (virus o batteri, per esempio), segnala che alcuni campioni risultati poi positivi al SARS-CoV-2 sono compatibili con materiale genetico riconducibile a cani procione, zibetti e altri animali che ormai sappiamo essere particolarmente esposti al contagio da coronavirus.
Anche se si chiamano così, i cani procione non sono imparentati con i procioni. Sono semmai imparentati con volpi e cani, ma vengono definiti in quel modo per la loro apparenza che ricorda in effetti quella dei procioni. Mangiano di tutto e ne esistono diverse specie, originarie per esempio di alcune zone della Cina, delle Coree e del Giappone. Se ne trovano anche in Europa, dove hanno iniziato a invadere alcuni ecosistemi a danno delle specie che li popolano.
I cani procione vengono da tempo allevati in Cina per sfruttare la loro pelliccia, ma sono talvolta venduti anche nei mercati di animali vivi per il consumo delle loro carni. Ci sono testimonianze e prove sul fatto che fossero venduti al mercato Huanan alla fine del 2019, quindi a ridosso del periodo in cui iniziarono a emergere i primi casi di infezioni da SARS-CoV-2.
Al momento non è comunque chiaro se i cani procione possano avere diffuso il coronavirus. Dai test di laboratorio sappiamo che questi animali sono esposti alle infezioni e sono in grado di trasmetterle, ma non significa che costituiscano la riserva naturale per il coronavirus. Una possibilità è che alcuni cani procione al mercato fossero stati contagiati da un altro mammifero infetto, come i pipistrelli (noti per fare da riserva ai coronavirus), e che in seguito avessero infettato alcuni frequentatori del mercato vista la stretta vicinanza tra esseri umani e animali in quel contesto.
Per lungo tempo le autorità cinesi avevano negato che al mercato fossero venduti animali vivi. Solo nell’estate del 2021 una ricerca aveva confermato che la pratica era alquanto diffusa e risaliva ad almeno un paio di anni prima dell’inizio della pandemia. Questa circostanza, unita ai nuovi dati analizzati da Débarre, porta elementi per rivalutare l’ipotesi del mercato rispetto a quella di un errore di laboratorio.
Sulla base delle anticipazioni dello studio preliminare pubblicato ieri, la scorsa settimana il direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, aveva criticato la scarsa collaborazione della Cina dicendo: «Quei dati potevano essere – e dovevano essere – condivisi tre anni fa», invitando inoltre le autorità cinesi a fornire i dati alla comunità internazionale «immediatamente». Il gruppo di ricerca spera che la pubblicazione dello studio preliminare induca la Cina a condividere più informazioni e le sequenze complete raccolte all’inizio del 2020, ma ci sono forti dubbi.
È opinione sempre più diffusa che la possibilità di scoprire davvero come ebbe origine il coronavirus dipenda esclusivamente dal governo cinese, che dopo un’iniziale collaborazione nei primi mesi del 2020 ha via via limitato la circolazione di informazioni anche tra i gruppi di ricerca internazionali. Per scoprire l’origine della SARS, altra malattia causata da un coronavirus, furono necessari circa 14 anni con indagini che portarono infine a identificare una caverna nello Yunnan, sempre in Cina, dove vivevano alcuni pipistrelli infetti. Per altri virus, la vera origine non è stata mai ricostruita, come nel caso di Ebola, identificato per la prima volta negli esseri umani a metà degli anni Settanta.
All’inizio del 2003, il governo della Cina aveva limitato fortemente la circolazione delle informazioni sui primi casi di SARS. Solo quando i contagi raggiunsero Hong Kong, all’epoca soggetta a un minore controllo da parte del governo centrale cinese, divenne sempre più difficile nascondere l’estensione del problema. Quella vicenda avrebbe portato la Cina a dotarsi di maggiori strumenti per tenere sotto controllo la diffusione di nuove malattie, ma non cambiò alcuni approcci, a cominciare da quelli per evitare circostanze che mettano in cattiva luce il governo cinese.
Nel caso del SARS-CoV-2 la scarsa collaborazione da parte della Cina ha impedito di fare progressi significativi nei tre anni di pandemia, con il mancato accesso a dati importanti o la negazione di fatti, come l’effettivo commercio di animali vivi nel mercato Huanan. In mancanza di una maggiore apertura da parte del governo della Cina, o di informazioni riservate passate da qualche ricercatore in Cina con tutti i rischi cui sarebbe esposto, difficilmente si potranno avere nuovi elementi per ricostruire le circostanze che tre anni fa causarono la più grande e grave pandemia degli ultimi tempi.