Il grande falso che diede inizio alla guerra in Iraq, vent’anni fa
Nel 2003 il governo di George W. Bush invase l'Iraq accusando Saddam Hussein di avere armi di distruzione di massa: non era vero
Il 20 marzo del 2003 l’esercito degli Stati Uniti entrò in Iraq, dando inizio a una guerra che a tutt’oggi è considerata catastrofica e uno dei peggiori errori della politica estera americana recente. La guerra, che terminò ufficialmente nel 2011, otto anni dopo, continua ad avere effetti dannosi negli Stati Uniti e soprattutto in Iraq, dove sono morte centinaia di migliaia di persone.
A contribuire alla sensazione che fu un terribile errore, agli occhi sia dell’opinione pubblica sia della stragrande maggioranza degli analisti, c’è il fatto che le motivazioni che l’amministrazione americana del presidente George W. Bush diede per giustificare la guerra si basavano su presupposti falsi.
In particolare, l’amministrazione Bush sostenne che l’allora presidente iracheno, Saddam Hussein, avesse un arsenale di armi chimiche, biologiche e forse nucleari (definite complessivamente “armi di distruzione di massa”) e che fosse pronto a usarle in accordo con gruppi terroristici come al Qaida. Ma le armi di distruzione di massa non furono mai trovate, e ancora oggi si discute se la guerra sia cominciata a causa di un errore dell’intelligence americana, oppure se l’amministrazione Bush abbia mentito sapendo fin da subito che le armi di distruzione di massa non c’erano.
Per capire i presupposti della guerra bisogna probabilmente ricostruire il contesto in cui avvenne, cioè quello della “guerra al terrore” cominciata dagli Stati Uniti dopo gli attacchi terroristici compiuti da al Qaida l’11 settembre del 2001 alle Torri Gemelle di New York e al Pentagono di Washington, in cui morirono 2.977 civili.
Immediatamente dopo l’attacco terroristico fu chiaro che il principale obiettivo della risposta americana sarebbe stato l’Afghanistan, dove il regime dei talebani ospitava e sosteneva il gruppo terroristico al Qaida e il suo capo, Osama bin Laden. Era anche chiaro che, davanti all’enorme gravità di quello che era successo a New York, la risposta sarebbe stata estesa e dura.
Ma in quel momento la necessità di rispondere agli attacchi subiti andò a coincidere con il fatto che, dentro all’amministrazione Bush, diverse figure centrali – come il vicepresidente Dick Cheney e il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld – ritenevano già da tempo che gli Stati Uniti dovessero assumere un atteggiamento più bellicoso e interventista a livello internazionale, secondo una corrente del pensiero conservatore allora molto in voga e associata ai neocon, cioè i neoconservatori.
Come ha ricordato George Packer sull’Atlantic, secondo gli appunti presi da un collaboratore poche ore dopo l’attacco dell’11 settembre Donald Rumsfeld già sosteneva: «Capire se è il caso di colpire anche S.H. [Saddam Hussein] allo stesso tempo. Non solo UBL [Osama bin Laden]». In seguito, si legge nelle note: «Fare le cose in grande. Spazzare via tutto. Quello che c’entra e quello che non c’entra».
Gli Stati Uniti invasero l’Afghanistan meno di un mese dopo gli attacchi dell’11 settembre, il 7 ottobre del 2001, potendo godere del sostegno del grosso della comunità internazionale: era ritenuto evidente che il regime dei talebani che governava allora l’Afghanistan aveva dato protezione e sostegno ai terroristi di al Qaida, e per questo l’attacco fu ritenuto giustificato.
Ma quando, nel corso del 2002, l’amministrazione Bush cominciò a far circolare tra gli alleati l’idea di invadere anche l’Iraq, trovò un’accoglienza molto più fredda. In una recente ricostruzione della BBC, un funzionario della CIA, l’intelligence americana, ha ricordato che quando disse per la prima volta ai suoi colleghi britannici che gli Stati Uniti stavano progettando di invadere l’Iraq «ho pensato che avrebbero avuto un infarto lì, al tavolo delle riunioni. Se non fossero stati dei gentiluomini, si sarebbero allungati dall’altra parte del tavolo per schiaffeggiarmi».
Al contrario dell’Afghanistan dei talebani, non era chiaro cosa c’entrasse con gli attacchi dell’11 settembre 2001 l’Iraq di Saddam Hussein. Al tempo l’Iraq era un paese dittatoriale che metteva in atto una politica estera molto antiamericana e molto aggressiva. Dieci anni prima, tra il 1990 e il 1991, Saddam aveva invaso il vicino Kuwait e soltanto l’intervento armato di una coalizione di paesi era riuscita a ricacciarlo entro i suoi confini, in quella che oggi è ricordata come la Prima guerra del Golfo (la seconda sarà quella del 2003).
Prima del 1991, l’Iraq aveva sviluppato armi chimiche (cioè che sprigionano agenti chimici tossici o letali, come il cloro o il nervino) e armi biologiche (cioè che usano virus, batteri o tossine per contagiare o contaminare le persone che vengono colpite), e aveva anche un arretrato programma nucleare. Al tempo Saddam aveva certamente usato armi chimiche in combattimento, per esempio contro la popolazione curda.
Ma dopo la sconfitta nella Prima guerra del Golfo nel 1991, l’Iraq era praticamente uno stato fallito e molti analisti ritenevano che il regime di Saddam costituisse una minaccia relativamente blanda per la sicurezza del mondo. Per questo, sia la comunità internazionale sia l’opinione pubblica mondiale reagirono con enorme scetticismo alla possibilità che gli Stati Uniti invadessero l’Iraq.
In risposta, l’amministrazione Bush mise in atto una strategia di convincimento che si basava principalmente su due elementi: sostenne che Saddam fosse complice di al Qaida e di altri gruppi terroristici e soprattutto sostenne che dopo la sconfitta del 1991 l’Iraq avesse ricostituito i suoi laboratori chimici, batteriologici e forse nucleari, e che avesse ammassato armi di distruzione di massa pericolose per la sicurezza e la stabilità di tutto il mondo.
Comprendendo che la questione delle armi di distruzione di massa era decisamente la più convincente, l’amministrazione Bush si concentrò soprattutto su quella, e cercò di portare le prove della pericolosità di Saddam per convincere anzitutto i cittadini americani, e poi i paesi alleati e l’opinione pubblica mondiale. Contribuì a dare credibilità alle accuse anche il fatto che nel 2001 gli Stati Uniti erano stati colpiti da una serie di piccoli attentati in cui alcuni senatori e varie altre persone avevano ricevuto per posta buste contenenti spore di antrace, una sostanza tossica: cinque persone morirono e 17 risultarono avvelenate. Anni dopo l’FBI disse di aver raccolto abbastanza prove per poter sostenere che il colpevole era Bruce E. Ivins, un microbiologo che lavorava per il governo, che non fu mai processato perché si uccise poche settimane prima dell’annuncio.
In questo clima molto teso, l’intelligence americana condivise con i giornali moltissimo materiale che sembrava dimostrare piuttosto chiaramente come Saddam Hussein avesse a disposizione grandi quantità di armi chimiche e biologiche, e stesse lavorando alla costruzione di un’arma nucleare. L’amministrazione, dal lato politico, cercò di convincere gli alleati soprattutto europei a partecipare all’operazione militare.
Il regime di Saddam negò fino all’ultimo di avere ancora armi di distruzione di massa, e presentò all’ONU documentazione e offerte di ispezioni internazionali, ma invano.
Il momento probabilmente più celebre della campagna dell’amministrazione Bush sulle armi di distruzione di massa avvenne il 5 febbraio del 2003, un mese e mezzo prima dell’invasione, quando l’allora segretario di Stato Colin Powell si presentò davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite con una fialetta piena di un liquido giallastro in mano e disse che gli Stati Uniti avevano le prove che l’Iraq avesse armi di distruzione di massa. Privatamente, all’interno dell’amministrazione Bush, Powell era il più scettico sull’opportunità di invadere l’Iraq. Forse anche per questo era il membro dell’amministrazione che godeva di maggior rispetto internazionale, e fu chiesto a lui di andare all’ONU. Disse:
«Colleghi, ogni cosa che dirò oggi è sostenuta dalle fonti, da fonti solide. Queste non sono dichiarazioni. Quello che vi stiamo dando sono fatti e conclusioni basati su intelligence attendibile». «Saddam Hussein ha armi chimiche. Saddam Hussein ha usato queste armi. E Saddam Hussein non si fa scrupoli a usarle ancora, contro i suoi vicini e contro il suo stesso popolo»
Powell ripeté 17 volte la locuzione «armi di distruzione di massa» nel suo discorso.
Anni dopo, Powell disse che quel celebre discorso – presumibilmente il più importante della sua vita politica – fu una «macchia» nella sua carriera, e disse che «rimpiangeva» di averlo pronunciato.
Nonostante le certezze presentate da Powell all’ONU, l’invasione dell’Iraq rimase comunque controversa. Molti paesi, compresi alcuni alleati stretti come la Francia e la Germania, criticarono apertamente gli Stati Uniti, che alla fine furono sostenuti nella loro operazione militare soltanto dagli alleati più vicini a Bush come il Regno Unito di Tony Blair e, poco dopo, l’Italia di Silvio Berlusconi, assieme ad altri. La guerra in Iraq provocò inoltre enormi manifestazioni pacifiste in tutta Europa, che da allora non si sono più viste con la stessa forza e la stessa partecipazione.
L’esercito degli Stati Uniti assieme agli alleati britannici attraversò i confini dell’Iraq alle prime ore del 20 marzo del 2003, e in pochissimo tempo l’esercito iracheno e tutto lo stato collassarono: in tre settimane appena gli americani erano a Baghdad, la capitale. A quel punto, anche a causa di una serie di errori strategici, l’esercito americano in Iraq cominciò a impantanarsi, e per quasi un decennio non fu in grado di pacificare l’Iraq: la guerra si trasformò ben presto in una situazione caotica e violenta, da cui l’esercito americano non riuscì più a districarsi.
Soprattutto, una volta in Iraq gli americani non trovarono traccia delle armi di distruzione di massa.
Furono rinvenuti soltanto alcuni vecchi depositi che contenevano poche armi chimiche, ma fu rapidamente stabilito che risalivano al periodo precedente al 1991. A parte questo, divenne chiaro che le armi di distruzione di massa in Iraq non c’erano. Già a un anno dall’invasione, nel 2004, cominciarono a essere pubblicati i primi rapporti ufficiali sia negli Stati Uniti sia nel Regno Unito che mostravano come l’assoluta certezza dei governi americano e britannico sulle armi di distruzione di massa era mal riposta, e come i leader di quei paesi avessero fuorviato l’opinione pubblica.
Anche l’altro argomento dell’amministrazione Bush, quello secondo cui Saddam aveva legami con organizzazioni terroristiche come al Qaida, si rivelò ben presto falso.
A quel punto cominciò un dibattito, mai davvero del tutto concluso, tra chi riteneva che la questione delle armi di distruzione di massa fosse stata un errore dell’intelligence, che aveva interpretato male i dati a sua disposizione, e chi riteneva che l’amministrazione Bush sapesse fin dall’inizio che le prove della presenza di armi erano molto deboli, e avesse mentito sapendo di mentire.
È probabile che sia avvenuto un insieme delle due cose. È vero che non soltanto l’intelligence americana ma tutta l’intelligence occidentale ritenne che dopo il 1991 Saddam avesse quanto meno tentato di ricostituire il suo arsenale chimico. Nella sua autobiografia, pubblicata nel 2010, Bush scrisse: «L’idea che Saddam avesse le armi di distruzione di massa era condivisa praticamente da tutti. Il mio predecessore [Bill Clinton, ndr] ci credeva. I Repubblicani e i Democratici al Congresso ci credevano. Le agenzie d’intelligence di Germania, Francia, Regno Unito, Russia, Cina ed Egitto ci credevano».
Dall’altro lato, le indagini negli anni successivi al 2003 mostrarono che l’intelligence americana non aveva certezze assolute, e che anzi molti suoi importanti esponenti avevano espresso seri dubbi sulla pericolosità effettiva del regime di Saddam. Ma l’amministrazione Bush non diede ascolto a questi dubbi, e anzi si diede da fare piuttosto attivamente per nasconderli e offuscarli, e per presentare la questione delle armi di distruzione di massa come una certezza consolidata.
È probabile che la maggior parte dei membri dell’amministrazione Bush – come per esempio il vicepresidente Dick Cheney e il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld – sapesse che le prove delle armi di distruzione di massa erano quanto meno deboli, e abbia deciso di andare avanti lo stesso con l’invasione. Colin Powell, in un’intervista del 2016, parlò di un «grande fallimento dell’intelligence», e disse che le agenzie d’intelligence americane cominciarono a mostrare dubbi sulle armi soltanto quando ormai l’invasione dell’Iraq era già stata decisa.
Ari Fleischer, che allora era il portavoce della Casa Bianca, scrisse nel 2019 che né lui né il presidente Bush avevano mai mentito alla popolazione, e che avevano sempre riportato fedelmente al pubblico americano le conclusioni dell’intelligence. Secondo Fleischer, il presidente Bush non ha mai mentito sulle armi di distruzione di massa.