Quanto è complicata la vita delle famiglie non tradizionali in Italia
Dal riconoscimento del legame coi figli alle diciture sui documenti: tutti problemi che sembrano destinati a restare
Nell’ultima settimana il governo di Giorgia Meloni ha messo in atto alcuni provvedimenti che vorrebbero ostacolare il riconoscimento delle famiglie non tradizionali in Italia. Il ministero dell’Interno ha chiesto che tutti i sindaci smettano di trascrivere i certificati di nascita dei figli nati all’estero con la gestazione per altri (la GPA, quando la gravidanza viene portata avanti da una persona esterna alla coppia: è una tecnica usata sia da coppie eterosessuali che omosessuali), richiesta estesa a Milano anche per le coppie di donne che ricorrono alla fecondazione assistita all’estero. La commissione del Senato che si occupa di politiche europee ha poi espresso un parere negativo su una proposta di regolamento europeo che puntava a uniformare le procedure di riconoscimento dei figli in tutti gli stati dell’Unione, eliminando molte discriminazioni che interessano per primi gli stessi figli.
Di per sé, queste due azioni hanno una portata abbastanza limitata, soprattutto nel secondo caso, perché si parla di una proposta europea ancora lontana dall’approvazione, ma hanno un significato politico importante. Soprattutto, esplicitano le intenzioni del governo per quanto riguarda i diritti di famiglie che già oggi hanno a che fare quotidianamente con problemi anche molto concreti, come non poter firmare un permesso ai figli per una gita scolastica o aver bisogno di una delega per andarli a prendere a scuola.
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Questi problemi sono dovuti soprattutto alla mancanza di una legge sul riconoscimento del legame di parentela tra figli e genitore non biologico, cioè la madre che non ha partorito o l’uomo che non ha donato il seme per la nascita (per esempio nel caso della GPA fatta da due uomini). In questi casi in Italia, di base, l’unico genitore riconosciuto è quello biologico, mentre l’altro è considerato un estraneo. Significa concretamente che può aver bisogno di una delega per poter andare a prendere i suoi figli a scuola o per prendere altri tipi di decisione: firmare un permesso per una gita scolastica, un modulo per fare un vaccino, o magari iscriverlo in piscina, ma anche fare un viaggio insieme, almeno fino a quando non si ottenga una qualche forma di riconoscimento, cosa che può richiedere anni.
Da anni molte famiglie non tradizionali raccontano le complicazioni e i paradossi di una situazione in cui agli occhi dello stato sono considerati degli estranei nei confronti di figli che hanno fatto nascere e che hanno cresciuto. Raccontano inoltre il disagio di dovere spiegare la situazione ai figli, magari dopo le domande di compagni di scuola i cui genitori non devono affrontare tutti questi problemi.
La mancanza di una legge sul riconoscimento è una diretta conseguenza dei divieti sulla procreazione assistita, che permette di avere figli a chi non può averli in modo naturale, come le coppie di donne o di uomini. Per avere figli, queste coppie devono ricorrere rispettivamente alla fecondazione eterologa, cioè alla donazione esterna di gameti (le cellule sessuali, in questo caso di spermatozoi), o alla GPA. Ma la legge di riferimento sulla procreazione assistita, la legge 40 del 2004, permette di ricorrere all’eterologa solo alle coppie eterosessuali sposate o conviventi e vieta in qualsiasi forma, quindi anche per le coppie eterosessuali, il ricorso alla GPA, con pene che vanno da centinaia di migliaia di euro di multa fino a due anni di reclusione.
Per avere figli, queste coppie devono quindi andare all’estero, con percorsi spesso costosi, dopodiché il genitore non biologico deve chiedere il riconoscimento del proprio legame di parentela in Italia. Ma siccome i modi con cui hanno avuto figli non sono riconosciuti dalla legge italiana, non è regolata nemmeno la trascrizione nei registri di stato civile del loro legame di parentela. Per ottenere il riconoscimento ci sono sostanzialmente due possibilità.
La prima, ormai sempre meno praticabile, è stata gestita finora a discrezione delle amministrazioni locali. Prevede che i genitori chiedano il riconoscimento alla nascita nel proprio comune di residenza. Significa andare all’ufficio di stato civile dopo la nascita del bambino o della bambina a firmare il suo certificato di nascita, o a trascriverlo se il bambino è nato all’estero (come nel caso della GPA), riportando i nomi di entrambi i genitori.
C’è stato un momento storico – la cosiddetta “primavera dei sindaci”, intorno al 2018 – in cui questa via era più percorribile, e in cui molti sindaci usavano i propri poteri per permettere il riconoscimento anche in assenza di una legge. Negli ultimi anni, anche a seguito di alcune sentenze della Corte di Cassazione, sempre più amministrazioni locali hanno smesso di riconoscere i figli di coppie omosessuali o nati da GPA alla nascita. A farlo erano rimaste pochissime città, tra cui proprio Milano: il sindaco Beppe Sala ha però detto che smetterà di farlo, dopo la circolare del ministero.
Va detto però che senza una legge specifica gli atti di riconoscimento restano comunque impugnabili dalle procure. Proprio in questi giorni, a seguito della circolare del ministero dell’Interno, solo a Milano sono stati impugnati quattro riconoscimenti: i genitori di questi figli dovranno intraprendere una battaglia legale per vedersi nuovamente riconosciuti come tali.
Ci sono stati anche casi in cui le famiglie si sono viste negare il riconoscimento dei propri figli dagli ufficiali di stato civile dei singoli comuni. In questi casi hanno dovuto impugnare i dinieghi coi propri avvocati e iniziare lunghi iter giudiziari – economicamente costosi e psicologicamente faticosi – per veder riconosciuto il proprio legame coi figli.
Nei (molti) casi in cui i giudici hanno infine riconosciuto il legame, lo hanno fatto prediligendo il principio dell’interesse superiore del minore, valorizzando cioè il rapporto affettivo esistente tra il genitore non biologico e il figlio. Stefania Santilli, avvocata e membro del gruppo legale di Famiglie Arcobaleno, l’associazione di riferimento per i genitori omosessuali in Italia, spiega che «il riconoscimento da parte di un giudice è ad oggi il risultato più solido a cui si può arrivare», ma che l’unico mezzo reale sarebbe avere una legge.
Un secondo modo per ottenere il riconoscimento, quello ad oggi più usato, è chiedere l’adozione del proprio stesso figlio, con tempi molto lunghi. È la cosiddetta stepchild adoption, cioè l’adozione permessa in casi particolari al genitore non biologico: la misura originariamente inclusa nella legge sulle unioni civili del 2016, da cui fu rimossa con un compromesso molto contestato.
Questa strada presenta una serie di problemi: «I tempi sono generalmente molto lunghi per l’adozione, che potrebbe prestarsi a qualsiasi scenario nel momento in cui ci sia, per esempio, una crisi di coppia e il genitore biologico decida di ostacolare il processo di riconoscimento: ipotesi che a volte si verifica», dice Santilli.
Soprattutto, alla stepchild adoption si arriva con una sentenza di un giudice, dovendo dimostrare di essere una famiglia ad assistenti sociali e con pile di documenti di ogni tipo: «siamo famiglie di carta: conservi sempre tutto, i biglietti dei viaggi, le scartoffie, le bollette, per poter dimostrare che il progetto di fare figli è stato fatto insieme», ha detto Francesco Zaccagnini, membro di Famiglie Arcobaleno.
Il rapporto con gli avvocati, dell’attesa delle udienze, dei giudici, dei colloqui con gli assistenti sociali, sono elementi comuni nel racconto della vita di molte famiglie non tradizionali italiane, che si lamentano dell’assurdità di dover dimostrare di essere ciò che si è già: una famiglia.
Non solo: tutto un altro ordine di problemi, altrettanto concreti, riguarda documenti, moduli, iscrizioni a scuola, in palestra o in piscina in cui semplicemente non è contemplata l’esistenza di due madri o due padri. È una questione che riguarda nello specifico le coppie di genitori omosessuali, spesso costrette a vedersi comunque inserite come “padre” e “madre”. Per fare un esempio concreto: significa che ci sono famiglie in cui la carta d’identità di un bambino o di una bambina riporta diciture come (nomi inventati): “madre: Virginia Rossi, padre: Giulia Neri”.
Quello della dicitura sui documenti è un tema di cui si discute ciclicamente, spesso strumentalizzato dai politici che protestano contro la cosiddetta dicitura “genitore 1, genitore 2”. Nei fatti, nessuno ha mai realmente proposto di inserire “genitore 1 e 2”, ma semplicemente “genitore”, in modo da far sì che i documenti rispecchiassero la realtà oggettiva delle famiglie a cui si riferiscono.
Sempre facendo leva su questo discorso, nel 2019 l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, della Lega, approvò un decreto in cui imponeva la dicitura “madre” e “padre” per la carta di identità dei figli e delle figlie minorenni al posto di “genitori”. Il decreto, tuttora in vigore, è ampiamente contestato semplicemente perché in moltissimi casi non corrispondente al vero: anche il Garante per la protezione dei dati personali l’aveva ritenuto problematico, soprattutto per ragioni burocratiche e amministrative.
Lo scorso novembre, con una sentenza importante, il tribunale di Roma ha dato ragione a una coppia di mamme che, seguite da diverse associazioni che si occupano di diritti civili, avevano chiesto nel 2020 l’inapplicabilità del decreto nel loro singolo caso.
Ma per una famiglia che fa ricorso e intraprende una vicenda giudiziaria ce ne sono moltissime che, per scelta o per mancanza di risorse, vivono senza che la loro esistenza, con diritti e doveri correlati, sia riconosciuta dallo stato. Le esortazioni a estendere anche a loro le tutele previste dalla legge per le altre famiglie sono arrivate negli anni da associazioni, società civile e anche dalla Corte Costituzionale, che con la sentenza 32 del 2021 aveva definito non «più tollerabile» il «vuoto di tutela» per i nati da procreazione assistita praticata all’estero da coppie dello stesso sesso.
È difficile prevedere gli effetti che avrà la circolare con cui il ministero dell’Interno ha chiesto ai prefetti di verificare che i sindaci non trascrivano gli atti di nascita dei nati da GPA all’estero. Da un lato i sindaci che trascrivevano i certificati erano rimasti comunque pochissimi. Dall’altro potrebbero continuare a farlo basandosi su altre norme esistenti.
Filomena Gallo, avvocata e segretaria nazionale dell’associazione Luca Coscioni, che segue molti casi di coppie che per avere figli devono andare all’estero, ha citato un decreto del presidente della Repubblica del 2000 in cui si dice che le dichiarazioni di nascita di cittadini nati all’estero devono essere fatte secondo «la legge del luogo» in cui sono state registrate, cioè trascritte in modo fedele. Significa che se un certificato di nascita straniero dice che due donne sono madri di un figlio, la sua trascrizione italiana deve dire lo stesso.
Gallo cita inoltre una norma del Massimario per l’Ufficiale di Stato Civile, in cui si dice che «non compete all’ufficiale di stato civile entrare nel merito dello status del neonato ed esprimere valutazioni contrastanti con quanto risulta nella documentazione presentata»: cioè, di nuovo, non compete all’ufficiale di stato civile trascrivere qualcosa di diverso da quanto presente nel certificato originale.
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