Cosa si sa della riforma del fisco del governo Meloni
Il governo ha promesso una revisione dell'IRPEF con l'obiettivo finale della flat tax, ma è ancora tutto molto vago
Giovedì il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge delega per la riforma del sistema fiscale, insieme al decreto-legge sulla costruzione del ponte sullo Stretto. La riforma del sistema fiscale e la generale riduzione delle tasse sono state tra le promesse su cui la maggioranza che compone il governo ha puntato moltissimo nella scorsa campagna elettorale.
La riforma proposta è ancora piuttosto vaga e non si sa con quali soldi sarà fatta. È in una fase estremamente preliminare e non entrerà in vigore a breve, perché la riforma del sistema fiscale è al momento una legge delega: dovrà essere approvata dal Parlamento che darà così al governo il compito (la delega, appunto) di approvare i decreti legislativi con cui attuarla. A quel punto il governo avrà due anni per farlo. Semplificando, la legge delega contiene l’indirizzo generale della riforma, i cui dettagli saranno poi definiti nei decreti legislativi.
Il ministero dell’Economia ha dichiarato che le nuove regole «vanno nella direzione di semplificare e ridurre la pressione fiscale, favorire investimenti e assunzioni» e ha aggiunto che la lotta all’evasione fiscale «diventa preventiva e non più repressiva».
La proposta del governo per la riforma del sistema fiscale prevede una generale riduzione delle imposte, una questione molto cara al governo di destra. Il disegno di legge prevede di ridurre l’aliquota IRES (l’imposta pagata sugli utili delle società) per chi investe o assume, e di eliminare gradualmente l’IRAP, l’Imposta Regionale sulle Attività Produttive, che è da anni una delle imposte più criticate dalle aziende.
La legge delega prevede inoltre un alleggerimento delle sanzioni amministrative e penali nel caso di evasori che non possano pagare quanto dovuto e di imprese collaborative nelle operazioni di accertamento fiscale.
La riforma più complessa e costosa – oltre che quella che riguarda la maggior parte dei cittadini – è però quella dell’IRPEF, ossia l’Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche, che lo stato esige da chiunque percepisca un reddito sopra una certa soglia.
La riforma dell’IRPEF
La legge delega ribadisce che l’obiettivo finale della riforma è arrivare infine alla “flat tax”, ossia a un’imposta unica che dovrebbe sostituire il meccanismo attuale a scaglioni. La flat tax è stata al centro della campagna elettorale della coalizione di destra ed era quindi ampiamente atteso che nella legge delega fosse inserita: è però un obiettivo piuttosto vago e indefinito, sia nel disegno che nelle coperture di bilancio.
La flat tax attualmente esiste già per i lavoratori autonomi – i cosiddetti lavoratori in partita IVA – che pagano il 15 per cento se hanno un reddito annuale entro gli 85 mila euro.
Nel frattempo ci sarà però una fase intermedia, di cui si sapranno i dettagli più avanti quando usciranno i decreti attuativi. La maggioranza parla da tempo di un regime intermedio tra l’attuale sistema e quello della flat tax: prevederebbe il passaggio da quattro a tre aliquote, il cui valore sarà poi stabilito nei decreti attuativi. Le aliquote, che si associano a diversi scaglioni di reddito, si erano già ridotte da cinque a quattro durante il governo di Mario Draghi e oggi sono queste: del 23 per cento per i redditi fino a 15 mila euro, del 25 per i redditi da 15 a 28 mila euro, del 35 per quelli da 28 a 50 mila euro, e del 43 per cento per quelli oltre i 50 mila euro.
Una persona che per esempio ha un reddito di 30 mila euro paga il 23 per cento di tasse sui primi 15 mila, il 25 da 15 mila a 28 mila, e il 35 da 28 a 30 mila.
Il problema dell’attuale schema, ma che in realtà c’è da sempre e c’era anche con il sistema a cinque aliquote, è il cosiddetto “scalone” che c’è tra i redditi considerati bassi, quelli fino ai 28 mila euro, e quelli considerati medi, da 28 a 50 mila euro. Tra i due scaglioni la differenza nell’aliquota è del 10 per cento, che molti percepiscono come troppo alta e che disincentiverebbe le persone a cercare aumenti di reddito. Molti sostengono che ridurre ulteriormente il numero di aliquote non farebbe che accentuare questo problema, che si era già posto anche quando la stessa cosa la fece il governo Draghi, che però riuscì a smussare lo scalone tramite alcuni interventi su deduzioni e le detrazioni.
Le aliquote e gli scaglioni sono infatti solo la facciata del sistema fiscale: per ottenere l’effetto complessivo dell’IRPEF vanno combinate con le detrazioni e le deduzioni fiscali. Bisognerà dunque aspettare i decreti attuativi per capire come il governo Meloni interverrà per smussare lo scalone. Molti però sostengono che, a differenza di quando era in carica il governo Draghi, oggi ci sono molti meno soldi a disposizione per farlo: il rischio è quindi quello di creare ancora più iniquità con l’obiettivo di voler razionalizzare il sistema.
Le deduzioni e le detrazioni, chiamate anche spese fiscali, sono gli strumenti con cui viene garantita la progressività dell’imposta, insieme al fatto che l’aliquota IRPEF sale all’aumentare del reddito. Ne esistono tantissime: per esempio le deduzioni per la previdenza complementare e le detrazioni per i figli a carico (che ora in realtà sono confluite nell’assegno unico) e le spese sanitarie. Ma accanto a queste ne esistono alcune più marginali, che riguardano un ristretto numero di beneficiari e spesso sono ritenute piuttosto inique: oggi costano allo stato oltre 80 miliardi all’anno.
Ogni governo che si sussegue promette di mettere mano al complesso di deduzioni e detrazioni, che molti definiscono “una giungla” perché – oltre a essere molto costoso – rende il sistema molto complicato perché prevede numerose eccezioni, talvolta anche poco comprensibili. Tuttavia, è politicamente molto difficile toglierle perché si tratterebbe di ridurre un trattamento di favore che per anni è stato invece garantito.
Bisognerà attendere i dettagli su aliquote e spese fiscali per riuscire a stimare il costo della riforma. Tuttavia, molti analisti fanno notare che gli interventi sull’IRPEF sono generalmente molto costosi, soprattutto se l’obiettivo finale è la flat tax che secondo la maggior parte delle stime potrebbe arrivare a costare allo stato decine di miliardi l’anno. Il che si scontra con il principio di generale prudenza sui conti che il governo Meloni ha sempre detto di voler perseguire.
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Dati alla mano, le modalità con cui la destra ha finora pensato di finanziare la flat tax sono irrealistiche: il recupero delle tasse evase, che secondo la destra ci sarebbe con una tassazione più favorevole, non basterebbe neanche nella più favorevole delle ipotesi che emerga tutto il sommerso, e la crescita economica che servirebbe è praticamente impossibile da ottenere in breve tempo.
L’idea generale di abbassare l’IRPEF senza indicare con quali soldi si intende farlo, ossia le coperture di bilancio, preoccupa molto alcuni analisti perché i proventi di questa imposta servono a finanziare i servizi generali dello stato: il 20 per cento serve a finanziare la sanità, il 21 la previdenza, l’11 l’istruzione e l’8,9 la difesa, l’ordine pubblico e la sicurezza.
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