La casalinga di Voghera che aveva il gusto per l’horror
Era Carolina Invernizio, autrice di romanzi d'appendice di fine Ottocento, che Vera Gheno ha inserito in una nuova antologia di scrittrici
Negli ultimi anni, sia in Italia che in altri paesi, le case editrici hanno ripreso a pubblicare romanzi di scrittrici del Novecento i cui libri si facevano fatica a trovare. Questa tendenza editoriale è stata suscitata da un nuovo interesse per la letteratura prodotta dalle donne legato ai più recenti discorsi femministi, e potrebbe portare a un cambiamento in quello che comunemente è considerato il “canone letterario”, cioè quell’insieme di opere studiate a scuola e conosciute anche solo per sentito dire da un gran numero di persone: comprende soprattutto testi scritti da uomini, anche a causa delle storiche discriminazioni nei confronti delle donne, artiste e letterate comprese.
Tra le iniziative editoriali che hanno l’obiettivo di far conoscere quelle che sono state dimenticate c’è Parole d’altro genere, l’ultimo libro curato dalla sociolinguista e divulgatrice Vera Gheno: è un’antologia di racconti e poesie di 42 scrittrici del mondo e della storia, tutte introdotte da una parola «che ha un legame speciale con i testi o la vita di quell’autrice», attorno a cui Gheno ha costruito un breve ragionamento. Una delle scrittrici che ha scelto è l’italiana Carolina Invernizio (1851-1916), autrice di romanzi d’appendice molto popolari ai suoi tempi, in alcuni casi tendenti al poliziesco, in altri all’horror. Quest’ultimo è il caso del racconto “La sposa sepolta viva” che pubblichiamo insieme all’introduzione di Gheno.
Gheno parlerà di Parole d’altro genere domenica alle 18:30, insieme a Giulia Siviero del Post, in occasione della nuova edizione di Pensavo Peccioli, il festival culturale ospitato nel borgo toscano di Peccioli, in provincia di Pisa, curato dal peraltro direttore Luca Sofri insieme alla fondazione Peccioliper. Il programma di quest’anno è costruito intorno all’ambizione di «capire cosa sta succedendo, a noi e al mondo», grazie a sguardi originali del dibattito culturale italiano.
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CASALINGA: (1895, in Romanzo autobiografico di Cesare Cantù) derivato dell’aggettivo casalingo, a sua volta derivato da casale, dal latino medievale casale(m), dal tardo casalis, relativo alla proprietà agricola, da casa capanna, casa rustica; “donna che si dedica esclusivamente alle faccende domestiche, senza esercitare altro mestiere o professione”.
Secondo le rilevazioni ISTAT, le casalinghe in Italia nel 2016 sono 7 milioni e 338.000. La loro età media è di 65 anni; il 74,5% possiede, come titolo di studio, la sola licenza di scuola media inferiore. Poco più della metà delle casalinghe italiane non ha mai svolto un lavoro retribuito nel corso della propria vita. Nella fascia tra i 15 e i 34 anni, le casalinghe non cercano lavoro nel 73% dei casi per motivi familiari. Più del 60% di loro abita al Centro-Sud. Quasi il 10% di loro vive nella povertà assoluta. Il numero medio di ore di lavoro non retribuito svolte in un anno è di 2539 per le casalinghe, 1507 per le occupate e 826 per gli uomini (occupati e non occupati).
Sulle casalinghe grava uno stigma sociale piuttosto pesante, che identifica nei lavori di casa qualcosa di umile, avvilente, poco soddisfacente; e se è pur vero che è difficile considerare i lavori domestici o la cura di anziani e infanti come una vera e propria “carriera”, più del 35% delle casalinghe del campione si dice soddisfatto della propria condizione di vita. Non sono tutte “casalinghe disperate”, tanto per citare il titolo di una serie tv che, qualche anno fa, ha riscosso grande successo. Ciononostante, ancora oggi il termine “casalinga” è spesso usato come un mezzo insulto, per sminuire le competenze, le capacità, la preparazione di una donna.
Ed ecco Carolina Invernizio (1851-1916), prolifica scrittrice a lungo considerata poco rilevante nel panorama letterario in quanto autrice di cosiddetti “romanzi d’appendice” o feuilleton: romanzoni a tinte forti, talvolta sconfinanti nell’horror, ben lontani dai canoni della letteratura impegnata. Per questo, la critica la apostrofò con epiteti poco simpatici: da “onesta gallina della letteratura popolare” (definizione data nientepopodimenoche da Antonio Gramsci!) a “Carolina di servizio” – giocando sul cognome – fino all’immortale, ahinoi, “casalinga di Voghera”, con riferimento alla sua città natale.
Oggi, la sterminata produzione della “casalinga di Voghera” sta venendo rivalutata non solo, o non tanto, come fenomeno letterario: Invernizio, dopo essersi legata all’editore Salani, scrisse almeno un libro, quando non più di uno, all’anno, per tutta la sua vita, arrivando a pubblicare circa centotrenta opere, che il suo pubblico, quasi esclusivamente femminile e di estrazione proletaria e piccoloborghese, attendeva con ansia. Dunque, possiamo dire che l’opera di Carolina Invernizio rappresenta un sicuro caso editoriale: uno dei primi esempi di scrittrici “di mestiere”, votate alla soddisfazione dei loro lettori più che a quello della critica. Se ci liberiamo quindi del pregiudizio legato, soprattutto in Italia, alla letteratura di genere, possiamo leggere La sposa sepolta viva, brano tratto da uno dei suoi romanzi più famosi, Il bacio di una morta (1886), come un pezzo di intrattenimento paragonabile a quello che, in tempi più recenti, rappresentano le telenovelas importate dal Brasile, che continuano a incollare milioni di persone davanti agli schermi. Una prosa espressiva, volutamente sopra le righe, quella di Invernizio, che crea assuefazione e che ha spinto le sue lettrici ad attendere avidamente l’appuntamento con ogni suo nuovo libro.
È arrivata, forse, l’ora non solo di togliere qualsiasi connotazione negativa alla parola “casalinga”, ma anche di imparare ad affiancarle in modo del tutto naturale quella di “casalingo”.
Lettura consigliata: Graziella Priulla, Parole tossiche. Cronache di ordinario sessismo, Settenove, Cagli 2014, perché decostruisce molti altri termini usati tradizionalmente per stereotipizzare le donne.
La sposa sepolta viva (1886)
Non è raro il caso che una persona venga seppellita come morta, mentre di morta non ha che l’apparenza. Avrei molti e molti esempi da citare, ma ne basti uno solo a dimostrare che non bisogna aver troppa furia nel seppellire i cadaveri, specialmente quando la loro morte è avvenuta improvvisamente, non bastando talvolta la constatazione del medico. Quanti medici, ed anche celebri, si sono ingannati ed hanno fatto seppellire dei morti ancora vivi! Oh! se tutte le tombe potessero dischiudersi,… se potessero parlare! Ma le tombe sono mute, e la terra ricopre i più orribili misteri.
In una città d’Italia era morta improvvisamente per sincope una giovane bellissima, sposa da un anno ad un ricchissimo industriale, che l’amava perdutamente.
Egli stesso volle comporre la cara spoglia nella cassa mortuaria, e nel vedere quelle sembianze così serene, così pure, che la morte non aveva alterate, pareva non sapesse staccarsene e diceva che era impossibile che quella bella, splendida creatura, la quale due giorni prima era tuttora piena di vita e di salute, fosse ridotta in poche ore cadavere.
Ma i medici avevano constatata la morte, ne avevano autorizzata la sepoltura. Il marito aveva vegliato per le intere quarantotto ore regolamentari vicino al corpo della defunta, illudendosi sempre, persuaso che ella dovesse da un momento all’altro svegliarsi. Ma quando giunsero gli amici, i parenti che erano venuti per accompagnare il feretro ed egli fu tratto fuori dalla stanza mortuaria, comprese pur troppo che tutto era finito, e per sempre.
La madre della giovine defunta si trovava allora in viaggio: al suo ritorno seppe della morte improvvisa della figlia, e per poco non perdette la ragione.
Calmata alquanto, non ebbe più che un pensiero: rivedere una volta ancora il cadavere della figlia adorata, che non aveva potuto abbracciar viva. Il desiderio della povera madre fu condiviso dal marito della defunta. Ma per ottenere il consenso di rivedere la povera morta, bisognava un cambiamento di sepoltura. L’industriale acquistò una cappella apposita onde far esumare il corpo della moglie.
Prima di trasportare un morto da una tomba all’altra, bisogna farne la ricognizione in presenza dei membri della famiglia e di un funzionario, destinato a tal uopo dal Comune. Giunse il giorno stabilito per l’esumazione, e nel cimitero si trovarono raccolti la povera madre, lo sventurato genero ed alcuni parenti, che avevano voluto seguirli.
Appena giunsero alla tomba della giovane sposa, il custode ne aveva già levati i vasi di rose, di giacinti e di viole, di cui il marito l’aveva fatta circondare. Amava tanto i fiori la povera morta! Anche la lastra di marmo era stata sollevata, ma la terra non era ancora scavata.
Quando i becchini si misero all’opera, la povera madre si strinse involontariamente al braccio dell’industriale che non era meno pallido e tremante di lei.
D’improvviso una zappa batté contro il legno della cassa. A quel sordo rumore, la madre stette per svenire: gli amici la sostennero e vollero trarla di là.
«No… no, lasciatemi…» diss’ella «lasciatemi… voglio vederla.» L’industriale, benché commosso profondamente, cercava di mostrarsi calmo: un leggiero tremito nelle guance e nelle labbra erano i soli segni visibili della sua commozione.
Finalmente la cassa fu scoperta e sollevata dalla fossa; il funzionario si era avvicinato.
«Aprite» disse ai becchini.
L’umidità della terra aveva arrugginite alquanto le viti e non senza sforzi essi poterono sollevare il coperchio della cassa.
Ma allora un grido di orrore uscì da tutte le bocche.
La giovine sposa era stata sepolta viva!
Si vedevano ancora le tracce della lotta della sventurata, che svegliatasi nella cassa e sentendosi soffocare, aveva tentato con sforzi orribili di sollevarsi, ed uscire.
Lo spettacolo era orrendo a vedersi: terribile a narrarsi. Figuratevi quale doveva essere stata la disperazione, il terrore della povera donna, a trovarsi sepolta viva: ella avrà sofferto mille morti per una sola. Quante grida, quanti gemiti non avrà mandato, ma che la terra, che pesava inesorabile su di lei, non trasmetteva ai viventi!
Il volto del cadavere portava le tracce di tutte le torture, di tutte le sofferenze provate dalla disgraziata; in una mano aveva ancora stretta una ciocca di capelli, strappata in un dolore supremo; l’altra mano vicino alle labbra, era per metà morsicata.
La madre della morta a quell’orribile spettacolo cadde fulminata. Le vennero prestati pronti soccorsi, ma furono inutili, perché essa avea cessato di vivere!
L’industriale divenne pazzo, e nella sua pazzia si vedeva sempre davanti agli occhi il cadavere della moglie che sembrava minacciarlo, che sembrava dirgli: «Perché mi hai lasciata seppellir viva?».
E chiudeva gli occhi, si turava le orecchie, ma quel fantasma lo perseguitava anche nelle tenebre; egli lo vedeva sempre dinanzi a sé, lo sentiva, ed allora mandava grida furiose, suoni rauchi, inarticolati; si dibatteva, si contorceva, tanto che erano costretti a mettergli la camicia di forza.
E questo caso di sepolti vivi non è il solo conosciuto, il solo venuto alla luce; chi sa quanti la terra ne ricopre!
(2023) Mondadori Libri S.p.A, Milano