Cosa sono le gabbie salariali, spiegato
Cioè la differenziazione dei salari tra Nord e Sud, in base al costo della vita: nel dopoguerra non funzionò, ma se n'è tornati a discutere
Alcune dichiarazioni del ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara sull’idea di differenziare gli stipendi degli insegnanti su base regionale – e quindi di legarli indirettamente al costo della vita – hanno generato un dibattito molto ideologico e piuttosto antico: quello sulle cosiddette “gabbie salariali”, un sistema che non esiste più dagli anni Settanta e che garantiva retribuzioni diverse tra le regioni sulla base del costo della vita.
Fu abolito dopo fortissime proteste sindacali: un operaio del Nord Italia poteva guadagnare discretamente di più di uno del Sud, e questo a livello sociale aveva creato tensioni e una percezione diffusa di ingiustizia tra lavoratori che avevano paghe diverse anche se facevano lo stesso lavoro. Il dibattito ciclicamente ritorna ed è tuttora molto polarizzato: da una parte ci sono i lavoratori che non vogliono tornare a un sistema percepito come ingiusto; dall’altra ci sono le aziende che preferirebbero pagare di meno i lavoratori dove il costo della vita è più basso, in modo da avvantaggiarsi di costi inferiori e provare così a crescere e svilupparsi, per poter poi assumere anche più lavoratori. Dal punto di vista economico non c’è un consenso sugli effetti di una misura di questo tipo e gli economisti sono piuttosto divisi.
Da una parte riconoscono il problema della differenza del costo della vita, non solo tra Nord e Sud, ma anche tra grandi città e provincia: per esempio in termini reali con lo stesso stipendio si ha uno stile di vita molto diverso a Milano, più povero, o a Canicattì, più ricco, ma c’è una notevole differenza anche tra una grande città come Bologna e un piccolo centro come Castelfranco Emilia. Tuttavia, alcuni studi sugli effetti delle gabbie salariali del dopoguerra hanno mostrato che non hanno mai aiutato più di tanto ad aumentare il livello di occupazione.
Come funzionavano le gabbie salariali
Durante una conferenza Valditara ha solo accennato all’idea di provare a differenziare gli stipendi degli insegnanti su base regionale e non ha esplicitamente richiamato il sistema delle gabbie salariali, che invece è stato poi rievocato dalla maggior parte dei commentatori e dei politici.
Il meccanismo era stato introdotto nel 1945 con un accordo tra Confindustria e la CGIL, che era l’unico sindacato di allora, con l’obiettivo di frenare l’aumento generale del costo della vita dovuto all’inflazione. La lira si stava notevolmente svalutando dopo la Seconda guerra mondiale, il che stava causando aumenti massicci dei prezzi e un’inflazione generalizzata. Le aziende erano state costrette a corrispondere paghe sempre più alte ai dipendenti, che dovevano far fronte a un sempre più alto costo della vita. In questo modo però alimentavano quella che gli economisti chiamano la spirale prezzi-salari-prezzi: le aziende dovevano compensare gli aumenti salariali con nuovi aumenti dei prezzi, facendo così aumentare nuovamente l’inflazione e annullando il beneficio per i lavoratori che dopo poco perdevano di nuovo potere di acquisto.
L’accordo sulle gabbie salariali – che non si chiamavano inizialmente così e il nome è stato dato da chi all’epoca le criticava – prevedeva che gli stipendi si adeguassero su base territoriale a seconda di quanto aumentava effettivamente il costo della vita e niente di più. Inizialmente era previsto solo per il Nord e poi fu esteso l’anno dopo a tutta l’Italia: dopo vari aggiustamenti all’inizio degli anni Sessanta il paese era diviso in sette “zone salariali”, tre al Nord e quattro al Sud.
Tra le zone le differenze tra salari arrivarono in alcuni momenti anche al 20 per cento. Come ricostruito da Pagella Politica sulla base delle tabelle degli accordi, a Milano un operaio specializzato nel settore metallurgico guadagnava 21 lire orarie, mentre a Reggio Calabria solo 18,05.
Questo sistema aveva generato un senso condiviso d’ingiustizia tra i lavoratori, che venivano pagati diversamente pur svolgendo le stesse mansioni. Negli anni Sessanta ci furono quindi tantissime proteste sindacali, passate alla storia per lo slogan «stessa paga per uguale lavoro». Queste proteste si inserirono in un clima già molto teso di lotta sindacale per maggiori diritti sul lavoro: nel corso di quello che passò alla storia come “l’autunno caldo” del 1969, le proteste di operai e lavoratori si saldarono con quelle del movimento studentesco. Quell’anno oltre 250 milioni di ore di lavoro vennero perse negli scioperi: un record mai più raggiunto.
Alla fine le gabbie salariali furono abolite nel 1969 e sparirono definitivamente solo nel 1972.
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Al di là del senso di ingiustizia sociale, gli effetti positivi sul mercato del lavoro delle gabbie salariali furono oltretutto trascurabili a livello economico. La teoria suggerisce che nei luoghi dove i salari erano più bassi ci sarebbe dovuto essere un effetto positivo sul numero di persone occupate, perché le aziende erano in grado di assumerne di più. Uno studio del 2014 proprio sugli effetti occupazionali delle gabbie salariali ha però dimostrato che questi sono stati tutto sommato molto limitati.
I pro e i contro
Dagli anni Settanta non è sostanzialmente mai stato possibile discutere nuovamente della possibilità di configurare differenziazioni dei salari su base territoriale senza che fosse fatto riferimento allo strumento delle gabbie salariali introdotte nel secondo dopoguerra, con tutte le rigidità e le iniquità che queste avevano. Il dibattito si è quindi molto polarizzato ed è diventato estremamente ideologico. Negli anni è stato molto difficile sollevare questo tema senza polemiche, come è successo anche nel caso delle dichiarazioni di Valditara.
Il risultato è che il tema delle differenze del costo della vita tra Nord e Sud e tra grandi città e periferie resta un problema irrisolto per i cittadini, che a parità di stipendio sono più o meno poveri a seconda di dove abitano. E questo nonostante la forte inflazione dell’ultimo anno abbia portato nuovamente in luce la questione irrisolta dell’alto costo della vita.
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Le posizioni politiche su questo tema si possono ricondurre grossomodo alla contrapposizione tra sindacati e aziende: i sindacati hanno ancora le stesse posizioni degli anni Sessanta, secondo cui diversificare i salari per i lavoratori che svolgono le stesse mansioni sia ingiusto, iniquo e non faccia altro che aumentare le differenze tra Nord e Sud, tra grandi centri urbani e periferie; le aziende invece ritengono che potendosi avvantaggiare di un più basso costo del lavoro potrebbero svilupparsi anche nelle aree territoriali che a livello produttivo sono più arretrate. Secondo i sindacati lo sviluppo economico delle zone più arretrate potrebbe essere incentivato con salari maggiori e quindi maggiori consumi; secondo le imprese, con salari più bassi e quindi costi minori, potrebbero assumere di più e quindi migliorare il tenore di vita di più persone.
In Italia oggi quasi la totalità dei dipendenti è assunta con l’applicazione di un contratto collettivo del lavoro, ossia contratti standard negoziati a livello nazionale dai sindacati, le organizzazioni che rappresentano i lavoratori, e dalle associazioni datoriali, che rappresentano le aziende. Questi contratti stabiliscono le condizioni di base del rapporto di lavoro, come gli orari, le ferie e anche la retribuzione minima per ogni livello contrattuale, che normalmente varia a seconda del ruolo e dell’esperienza richiesta.
Gli stipendi di base sono quindi uguali da Nord a Sud e tra città e provincia, seppur con qualche piccolo aggiustamento dovuto alla negoziazione dei singoli lavoratori con le aziende. Secondo alcuni calcoli di lavoce.info, la differenza salariale media tra il Nord e il Sud in Italia è del 4,2 per cento, mentre il costo della vita varia significativamente sul territorio e cresce all’aumentare, per esempio, della densità urbana, con differenze nel costo della vita che arrivano anche a 30-40 punti percentuali.
Questo impoverisce i lavoratori delle zone più costose in termini reali, ossia sulla base del tenore di vita che possono davvero permettersi. Secondo uno studio di Tito Boeri, ex presidente dell’INPS e professore di economia all’Università Bocconi, Andrea Ichino, Enrico Moretti e Johanna Posch, la contrattazione nazionale ha creato in questo senso distorsioni notevoli.
Non solo rende mediamente più poveri i lavoratori delle grandi città o in generale del Nord, dove il costo della vita è più alto, ma ha anche effetti molto negativi sul livello della disoccupazione al Sud, ossia nei luoghi dove lo sviluppo industriale è stato meno marcato e dove la produttività, il principale motore della dinamica salariale, è molto più bassa. La produttività dipende da varie cose, come la tecnologia, gli investimenti nella ricerca, l’istruzione e la formazione dei lavoratori, le modalità con cui i lavoratori sono inseriti nelle dinamiche aziendali e così via.
Un’azienda poco produttiva è un’azienda non ricca, che fa fatica a crescere e svilupparsi e che non può aumentare gli stipendi ai propri dipendenti, reinvestire i guadagni per diventare ancora più produttiva oppure creare utili per l’imprenditore. Se un’azienda poco produttiva deve pagare salari uguali a quelli delle aziende molto produttive si genera un corto circuito: potrà assumere solo pochi lavoratori e difficilmente potrà crescere.
Secondo lo studio di Boeri e dei suoi coautori, la contrattazione centralizzata ha quindi generato in Italia uno squilibrio territoriale tale per cui i lavoratori del Sud faticano molto a trovare lavoro, perché di fatto le aziende assumono poco. I fortunati che hanno un lavoro possono avere un tenore di vita migliore dei lavoratori del Nord, ma è più facile che non lo abbiano.
Al di là delle distorsioni che questo studio le attribuisce, è ormai un fatto condiviso che la contrattazione collettiva abbia avuto però il merito di tutelare i lavoratori di bassa professionalità, che non hanno una grande forza contrattuale nei confronti delle aziende: secondo le elaborazioni del sito specialistico Itinerari Previdenziali, i livelli retributivi di fascia inferiore, ossia quelli dei lavori e dei ruoli più modesti, sono piuttosto alti rispetto alla media europea.
La proposta quindi di chi riconosce questa responsabilità alla contrattazione collettiva nazionale non sarebbe di abolirla del tutto, facendo venir meno una grossa fonte di tutela per i lavoratori, ma di spostare la contrattazione dei salari a livello locale o addirittura di azienda, in modo che tenga conto delle differenze in termini di produttività, a fronte del rischio di un minor potere contrattuale.
Altri invece sostengono che non sia da un più basso costo del lavoro che dovrebbe partire il rilancio delle zone più arretrate, ma dagli investimenti, sia pubblici che privati. Lo sostiene per esempio l’attuale presidente dell’INPS Pasquale Tridico.
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