Ci sarà un nuovo processo per Iwao Hakamada
È l’uomo giapponese che ha passato 35 anni nel braccio della morte per un'accusa di omicidio, di cui si dichiara da sempre innocente
Lunedì l’Alta Corte di Tokyo ha stabilito che ci sarà un nuovo processo per il caso di Iwao Hakamada, un uomo giapponese di 87 anni condannato a morte per la prima volta nel 1968 e poi definitivamente nel 1980. Hakamada fu condannato per un quadruplo omicidio avvenuto nel 1966, ma quasi da subito si dichiarò innocente: la decisione della Corte arriva dopo più di cinquant’anni dalla sua prima condanna, dopo vari ricorsi e soprattutto dopo che Hakamada aveva trascorso 35 anni nel braccio della morte, aspettandosi da un giorno all’altro di poter essere ucciso.
Fino a qualche anno fa Hakamada era considerato il detenuto rimasto più a lungo al mondo in attesa dell’esecuzione della propria condanna a morte, considerando la sentenza del 1968 come inizio della sua detenzione. La sua vicenda è considerata un esempio delle storture del sistema giudiziario in Giappone, e la notizia della revisione del processo comporta la possibilità che venga prosciolto dopo decenni da quella che molti ritengono una condanna ingiusta. «Ho atteso questo giorno per 57 anni e alla fine è arrivato», ha detto fuori dal tribunale la sorella di Hakamada, Hideko.
Hakamada fu giudicato colpevole dell’omicidio dell’intera famiglia di quello che allora era il suo capo: il 30 giugno del 1966 il dirigente di una fabbrica di Shizuoka, sua moglie e i due loro figli furono accoltellati prima che la loro casa venisse incendiata. Come ha scritto il Japan Times, gli elementi chiave nella riapertura del caso sono alcune macchie di sangue riscontrate su cinque indumenti trovati più di un anno dopo in una cisterna di miso (un condimento a base di soia fermentata) nella fabbrica.
Ex pugile, divorziato, Hakamada attirò subito le attenzioni della polizia, che dopo un primo interrogatorio lo rilasciò, non trovando prove o possibili moventi. Un mese dopo tuttavia gli investigatori lo arrestarono di nuovo sulla base di alcune tracce di benzina e sangue trovate sul suo pigiama. Inizialmente l’uomo negò tutte le accuse: ammise tuttavia di aver ucciso la famiglia dopo 20 giorni di custodia cautelare e interrogatori quotidiani che in base alle denunce dei suoi avvocati e di alcune ong erano durati anche di 15 ore di fila, e senza la presenza di avvocati, non prevista per legge.
Nonostante la confessione, durante il primo processo nel novembre del 1966 Hakamada si dichiarò non colpevole degli omicidi, che la polizia aveva imputato prima a una sua presunta relazione con la moglie del dirigente dell’azienda, e poi a un tentativo di furto di denaro (80mila yen dell’epoca, l’equivalente di circa 2.300 euro odierni). Nell’agosto del 1967, 14 mesi dopo l’omicidio, furono poi trovati gli indumenti insanguinati nella cisterna di miso, che la procura ritenne suoi. Hakamada fu condannato a morte nel settembre del 1968 malgrado le accuse fossero piene di incongruenze, e senza che fossero mai indagate altre persone.
La condanna fu ratificata in secondo grado dall’Alta Corte di Tokyo e infine dalla Corte Suprema nel 1980. Subito dopo la sentenza definitiva, Hakamada fu trasferito nel braccio della morte, dove rimase per circa 35 anni, fino al 2014.
Secondo l’accusa, gli indumenti trovati nella cisterna di miso nel 1967 appartenevano alla persona che aveva ucciso la famiglia: gli avvocati di Hakamada tuttavia ritengono che queste prove non siano attendibili. La procura giapponese disse che le macchie di sangue sui vestiti erano di color rosso scuro, ma la difesa ritiene che dopo essere state immerse per oltre un anno nella cisterna ne sarebbero uscite scolorite. Inoltre, alcuni di questi vestiti erano più piccoli della taglia indossata da Hakamada: l’accusa disse però che si erano ristretti proprio perché immersi nel liquido della cisterna.
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Subito dopo la condanna definitiva, Hakamata cominciò la battaglia legale per ottenere un nuovo processo, sostenendo di essere stato torturato e obbligato a firmare una confessione. A poco a poco, negli anni Duemila, il suo caso cominciò ad attirare attenzione anche al di fuori del Giappone. Nel 2008 i suoi legali ottennero che il sangue presente sugli indumenti trovati nella cisterna fosse sottoposto a un test del DNA: il sangue risultò non compatibile sia con quello del condannato che con quello delle vittime, e nel 2014 Hakamada fu scarcerato in attesa di un nuovo processo, dopo quasi cinquant’anni di detenzione e 35 passati nel braccio della morte.
Nel 2018 l’Alta Corte di Tokyo tuttavia dichiarò il test del DNA non ammissibile e il caso finì alla Corte Suprema del Giappone, che accolse l’appello della difesa nel 2020: la Corte Suprema rimandò così il caso all’Alta Corte di Tokyo, invitandola a valutare se la condanna alla pena di morte dovesse essere considerata valida, e quindi eseguibile, o se celebrare un nuovo processo, come ha infine stabilito lunedì.
Il caso di Hakamada è considerato un esempio di come sia piuttosto complicato cercare di far riaprire un processo o ribaltare condanne ritenute ingiuste in Giappone, un paese con un tasso di criminalità molto basso e un tasso di condanne vicino al 99 per cento. Generalmente in Giappone vengono portati in aula quasi solo casi in cui il colpevole sia piuttosto chiaro: l’abitudine culturale a considerare gli imputati quasi certamente colpevoli, inoltre, provoca enormi storture nel sistema giudiziario nazionale, che peraltro prevede che l’esecuzione della condanna a morte possa avvenire anche con poche ore di preavviso.
Per decenni insomma per Hakamada ogni giorno poteva essere l’ultimo, cosa che con ogni probabilità ha contribuito al deterioramento delle sue condizioni.
Oggi Hakamada ha 87 anni ed è affetto da problemi mentali causati da una detenzione solitaria durata per quasi mezzo secolo. Non è più in grado di esprimersi né pare comprendere dove si trovi, e vive con la sorella Hideko, novantenne. Viste le sue condizioni di salute, gli era stato permesso di attendere il verdetto dell’Alta Corte in libertà.
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