«C’è chi nasce nel corpo sbagliato»
Luca Zaia lo ha detto difendendo la delibera per l'istituzione di un Centro regionale per i disturbi dell’identità di genere in Veneto, la regione che governa
Martedì 7 marzo una delibera regionale approvata dalla giunta del presidente del Veneto Luca Zaia, della Lega, ha individuato l’Azienda ospedaliera di Padova come Centro regionale per i disturbi dell’identità di genere. Ora la direzione generale dovrà decidere quali specialisti coinvolgere e dove insediare il nuovo reparto: l’ospedale dovrà elaborare un progetto di diagnosi e presa in carico dei pazienti decisi a intraprendere il percorso di transizione. Il piano dovrà poi essere inviato alla Regione per la valutazione e poi approvato dal direttore generale dell’area Sanità e Sociale.
Commentando la delibera in un’intervista al Corriere della Sera, Zaia ha detto che non si tratta di «una gentile concessione», ma di un fatto dovuto: «Il cambio di sesso è un LEA, un livello essenziale di assistenza prescritto dalla legge».
Le leggi statali e regionali stabiliscono infatti che diagnosi, consulenza, percorso psicologico, terapie ormonali ed eventuale intervento chirurgico di conferma di genere – che in Italia è definito dalla legge intervento di Riattribuzione Chirurgica di Sesso (RCS) – siano erogate dal Servizio sanitario nazionale, rendendo quindi necessario individuare le strutture pubbliche in grado di garantirli.
Zaia ha aggiunto che i pazienti che ogni anno avviano un percorso di transizione in Veneto sono pochi, e che il loro è un «percorso impervio, al termine del quale, però, matura il diritto all’intervento e al percorso sanitario. […] Non ho fatto altro che garantire quel diritto». Ha infine detto che, quando si parla di persone trans, «non è che tutti sappiano davvero di che cosa stiamo parlando». Quando l’intervistatore gli ha chiesto di spiegarsi meglio, Zaia ha risposto:
La determinazione del sesso avviene in fase embrionale. Può accadere che per una serie di dinamiche ormonali e genetiche ci siano malformazioni di diverse entità. Si pensi, solo a titolo di esempio, all’ermafroditismo. E poi, c’è chi nasce nel corpo sbagliato. E noi abbiamo il dovere di rispettare questi casi.
L’iter di transizione in Italia (ma non solo) è un percorso complesso e lungo che intreccia e incastra tra loro vari livelli: non solo quello personale, ma anche quello psicologico, medico, chirurgico per chi lo desidera, e giudiziario. Chi vuole che la propria identità sia riconosciuta dalle istituzioni deve dunque obbligatoriamente intraprendere un percorso che prevede l’intervento di diverse figure professionali e di un giudice.
La legge che in Italia regola la transizione è la 164 del 1982: “Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”: stabilisce che deve essere un tribunale (quello di residenza) a prendere la decisione sul cambiamento anagrafico di sesso della persona che ne fa richiesta. La legge dice anche che il tribunale autorizza «quando risulta necessario» un «adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico chirurgico». Insomma: nel caso si scelga l’intervento chirurgico, è comunque sempre un tribunale a doverlo autorizzare.
Il percorso di transizione, di cui l’iter in tribunale è solo una parte, in Italia è regolato da linee guida che prevedono tappe necessarie e tempi obbligatori, adottati per prassi. Quelle più applicate dal Servizio sanitario nazionale sono dell’ONIG (Osservatorio Nazionale Identità di Genere) e sono in fase di revisione. Semplificando: la prima fase prevede che la persona, a seguito dell’esperienza di disagio provata per il genere che le è stato assegnato, cominci a “formalizzare” le domande su di sé e sulla propria identità e prenda dunque contatto con dei professionisti. Il percorso psicologico, durante il quale viene riconosciuta la disforia di genere e viene dato il nulla osta per la terapia ormonale, per prassi dura almeno sei mesi.
La terapia ormonale, supervisionata da un endocrinologo, proseguirà per tutta la vita: serve a modificare alcuni caratteri sessuali e a inibire manifestazioni fisiche proprie del sesso biologico assegnato. Nel 2020 l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) ha inserito i farmaci ormonali usati per le transizioni nell’elenco dei medicinali erogabili a totale carico del Servizio sanitario nazionale.
I protocolli ONIG prevedono che dopo il percorso psicologico e ormonale ci sia il cosiddetto “test di vita reale” (RLT, Real Life Test), che per prassi dura da 10 a 12 mesi: la persona inizia cioè a “vivere” nel mondo come persona del genere a cui sente di appartenere (anche se spesso già lo fa). Solo a quel punto viene fatta la relazione diagnostica da presentare in tribunale, accompagnata dalla perizia endocrinologica.
L’iter legale non è un procedimento di routine e non è possibile poterne prevedere la durata (ogni tribunale ha tempi differenti, e può anche richiedere una CTU, una consulenza tecnica d’ufficio e quindi un’ulteriore relazione fatta da periti imposti, a pagamento, con allungamento dei tempi e dei costi).
Nel caso la persona interessata lo voglia, è sempre al tribunale che deve richiedere la riattribuzione chirurgica di sesso, che la concede con una sentenza. La fase chirurgica prevede l’asportazione degli organi genitali primari e secondari e la ricostruzione, in gradi diversi, di strutture fisiche somiglianti il più possibile agli organi sessuali secondari desiderati (neo-vagina, neo-pene).
La riattribuzione chirurgica di sesso può essere fatta in un ospedale pubblico (per esempio a Bari, Bologna, Milano, Napoli, Roma, Torino) oppure privatamente.