Modelli e modelle sono di nuovo tutti magri?
Dopo anni in cui si erano visti sforzi per una maggior varietà e inclusività, alle ultime sfilate le persone in passerella avevano un aspetto molto canonico e omogeneo
di Chiara Lanzavecchia
Quando guardiamo una sfilata o una pubblicità di moda, i protagonisti di quelle immagini sono spesso modelli. La scelta di quei modelli (che con uno dei molti anglicismi del linguaggio della moda si chiama casting) è un processo complicato che passa attraverso agenzie, casting director, direttori creativi e case di produzione.
Tutto inizia proprio da un casting director: la persona che si occupa di trovare e selezionare i modelli che incarnano – letteralmente – al meglio la richiesta di un cliente per un certo lavoro. Il casting director interpreta più o meno liberamente le richieste e cerca, attraverso le agenzie di modelli, le persone che più corrispondono alle indicazioni ricevute, tenendo conto dell’identità e le caratteristiche del brand per cui lavora. I clienti di un casting director possono essere direttamente i brand o le case di produzione che svolgono alcuni servizi per conto dei brand.
Anche le agenzie di modelli possono assumere la funzione di casting director e occuparsi in quel caso di tutto il processo di ricerca e selezione, all’interno e all’esterno del gruppo di modelli da loro rappresentati. Le agenzie si occupano a priori dello scouting, ovvero della ricerca di modelle e modelli interessanti da poter rappresentare, e poi della formazione, della ricerca di lavoro e delle questioni legate ai diritti di immagine e al compenso economico dei modelli, che dipendono da vari fattori, tra cui l’uso che verrà fatto del prodotto commerciale per cui poseranno o sfileranno.
I criteri di selezione dei modelli dipendono dall’identità del brand — che raramente cambia nel tempo e che rimane quindi un punto di riferimento fisso — e dalle tendenze del momento. La piattaforma Tagwalk, che analizza i trend della moda ogni stagione, ha riportato che le modelle cosiddette curvy ad aver sfilato durante la settimana della moda di Milano sono state il 77 per cento in meno di quelle presenti alla fashion week di Londra. Nonostante sia controverso parlare di trend in riferimento a specifiche caratteristiche fisiche, nella moda, di fatto, esistono tendenze che a rotazione ne celebrano ed elevano alcune più di altre.
Lo scorso ottobre la rivista The Cut si chiedeva se la magrezza stesse tornando di moda e l’edizione inglese di Vogue si interrogava su quando la smetteremo di trattare le tipologie di corpo femminile come mode passeggere, facendo riferimento ai recenti cambiamenti fisici dell’influencer e imprenditrice statunitense Kim Kardashian e delle sue sorelle. Per anni le donne della famiglia Kardashian sono state le più famose rappresentanti di un modello di bellezza caratterizzato da molto seno, vita sottile, fianchi larghi e soprattutto da un sedere grosso, alto e sporgente, rendendo popolare il BBL (o “Brazilian Butt Lift”, una delicata operazione chirurgica mirata ad aumentare il volume dei glutei).
Al Met Gala del 2022, però, Kim Kardashian era apparsa estremamente dimagrita (aveva poi raccontato di averlo fatto di proposito per riuscire a indossare il famoso vestito di Marilyn Monroe del 1962), e nei mesi successivi anche le sue sorelle si erano mostrate molto più magre e con corpi di una forma diversa e più asciutta rispetto a quella che il pubblico si era abituato a vedere.
Negli ultimi mesi, inoltre, negli Stati Uniti è diventato molto popolare l’Ozempic, un farmaco antidiabetico che, tra le altre cose, causa una notevole perdita di peso. L’uso di questo farmaco si sta diffondendo largamente anche tra persone non diabetiche, nonostante i potenziali rischi, e il tema è così noto e discusso che il New York Magazine lo ha scelto per la copertina del primo numero di marzo.
Recentemente altre tra le maggiori pubblicazioni del settore hanno notato un ritorno della magrezza e una diminuzione dell’interesse per la body positivity e per l’inclusione di modelli e modelle non canonicamente magre: ne hanno scritto Vogue Italia, Business of Fashion ma anche l’Independent e il Telegraph, per esempio.
La tendenza che attraversiamo oggi si avvicina molto a quella degli anni ’90 e ’00, caratterizzata da paradigmi (spesso malsani) di magrezza e omologazione. L’idea di bellezza che veniva promossa era la cosiddetta estetica “heroin chic”: modelli e modelle magri ed emaciati, con un aspetto quasi malato.
Tutto questo aveva prodotto, a partire dal decennio successivo, una profonda reazione e un esteso dibattito. Nel 2009 sul Guardian si parlava già di quanto fosse problematica la rappresentazione delle donne nella moda e nella pubblicità seguendo e analizzando uno studio dell’Università di Cambridge sui comportamenti dei consumatori. Ancora, nel 2013 Business of Fashion scriveva «L’industria della moda ha (ancora) un problema di immagine» citando un dato piuttosto significativo: secondo la National Eating Disorders Association intorno al 1993 le modelle pesavano l’8% in meno della media delle donne, mentre nel 2013 le modelle pesavano il 23% in meno.
Nel 2017 due dei maggiori gruppi industriali della moda, Kering e LVMH, avevano addirittura collaborato per produrre un “Model Safety Charter”, ovvero un insieme di regole pensate per proteggere il benessere dei modelli e delle modelle, concordando limiti sulla loro magrezza.
Le conseguenze sono state, negli ultimi anni, un avvicinamento alla body positivity e all’inclusività, e una riflessione sull’appiattimento dei canoni estetici e sulle conseguenze che questi fattori hanno sui singoli individui. La moda — come principale promotrice di canoni estetici, compresi quelli irrealistici e malsani — aveva mostrato una certa apertura a farsi portavoce di principi migliori. Aveva cominciato a diffondersi la convinzione che l’assortimento di modelli e di “tipi di persone” scelti per rappresentare i brand dovesse includere corpi meno magri, promuovere canoni estetici meno rigidi, e in generale fornire una rappresentazione più realistica della varietà umana. In questo senso i brand più attenti alla questione (o semplicemente i brand con un pubblico di riferimento più giovane, con consapevolezze più aggiornate) hanno iniziato a selezionare modelli e modelle dall’aspetto sempre più vario. Alcuni brand, come Gucci, Vivienne Westwood, Collina Strada, Marco Rambaldi e Maryam Nassir Zadeh, hanno portato avanti vere e proprie campagne di diffusione di canoni estetici fuori dal comune.
Business of Fashion scrive che tra la fine del 2018 e l’inizio del 2022 i brand che sceglievano e utilizzavano per sfilate e campagne anche modelli e modelle plus-size sono cresciuti del 347 per cento. Sempre nello stesso periodo, modelle come Paloma Elsesser hanno aumentato la loro presenza sulle passerelle dell’830%.
Sono dati che non sembrano più valere per le tendenze di oggi: Vogue Italia scrive che solo due tra i 232 “nuovi volti” individuati da Tagwalk tra le diverse fashion week hanno un aspetto che devia dai canoni tradizionali. Tra i 20 modelli e modelle che hanno lavorato di più durante le sfilate dell’ultima stagione, inoltre, nessuno porta una taglia superiore alla 38.
Nonostante la volontà di rendere meno dannosi i canoni estetici promossi dall’industria della moda e nonostante negli ultimi anni ci sia stato effettivamente uno sforzo verso una rappresentazione più inclusiva, oggi si assiste a un passo indietro. Lo hanno mostrato le sfilate delle ultime stagioni ma lo confermano anche gli addetti ai lavori.
Enrico Cestaro e Alma Malara, fondatori dell’agenzia Persona, spiegano che negli ultimi mesi questo processo di normalizzazione e inclusione delle diversità si sta arrestando per molti brand; la direzione non è più quella della valorizzazione del “diverso”.
Con il ritorno degli stili della moda anni 2000 sono tornati anche i riferimenti fisici di quel periodo e sono aumentate le richieste di modelli e modelle “tradizionali”.
Secondo Cestaro e Malara, questo è anche il momento in cui è più evidente la differenza tra i brand che hanno sinceramente creduto e investito nell’idea di una maggior inclusività e i brand che ci si sono affacciati solo per motivi di marketing.
Esistono brand come Saint Laurent o Celine che non si sono mai allontanati dai loro paradigmi e canoni estetici, anche se spesso malsani, ed esistono brand che, attraverso i casting, attuano un meccanismo simile a quello del “greenwashing”.
Giulia Smith, casting director freelance, spiega che il lavoro per rendere realmente inclusiva una sfilata deve partire dalla progettazione della collezione, dove il designer deve disegnare un campionario di look per diversi corpi. Quindi, se il campionario include solo taglie standard (solitamente taglia 40 per le collezioni donna), il casting director potrà solo selezionare modelli con taglie standard. Se invece il campionario è vario, il casting potrà includere più corpi, di taglie e forme diverse. Quando però, guardando una sfilata, si nota che il casting è composto principalmente da modelli “canonici” e solo un paio di modelli “non canonici”, la presenza dei modelli “non canonici” è con tutta probabilità una mossa di marketing.
Questo significa che il brand può anche aver richiesto al casting director una selezione inclusiva di modelli, ma che il campionario di vestiti che mette a disposizione è comunque composto da sole taglie standard. In questi casi il casting director lavora con la stylist della sfilata per provare ad adattare alcuni look da campionario a taglie diverse da quella originale, cercando soluzioni inventive o utilizzando capi che non fanno parte di quella collezione per far rientrare corpi diversi nella presentazione della sfilata.
Questa compresenza tra inclusività, rigidi canoni estetici, valorizzazione delle differenze e omologazione è una caratteristica peculiare della moda in questo momento. Sono due i fattori che contribuiscono a spiegare questa situazione: il fatto che le persone che nella moda lavorano dietro le quinte e partecipano ai processi creativi e decisionali appartengono a generazioni diverse e hanno visioni diverse, e la saturazione dell’industria della moda. È infatti difficile pensare e introdurre novità in un mercato così saturo, e questa è la ragione per cui il citazionismo – e quindi il recupero dei vecchi trend – è una delle soluzioni più ricorrenti.