Giappone e Corea del Sud stanno risolvendo i loro problemi?
I due paesi hanno sempre avuto rapporti difficili soprattutto a causa del colonialismo giapponese, ma ora le cose potrebbero cambiare
di Guido Alberto Casanova
A inizio marzo la Corea del Sud ha proposto un piano per risolvere una disputa storica che negli ultimi anni ha complicato notevolmente i rapporti col Giappone, e che riguarda i sudcoreani che furono costretti a lavorare nelle fabbriche giapponesi durante l’occupazione della penisola coreana da parte del Giappone, durata dal 1910 al 1945. I due paesi condividono un passato coloniale piuttosto scomodo e problematico, che da decenni è fonte di dissidi e recriminazioni reciproche. Seppure tra molte cautele, a partire dallo scorso anno però i due governi hanno cominciato a cercare un’intesa per riavvicinarsi.
Per molti versi Corea del Sud e Giappone sono paesi affini. Entrambi possiedono solide istituzioni democratiche mentre dal punto di vista economico sono tra gli stati più sviluppati e ricchi dell’Asia orientale. Anche se in campi diversi, sono all’avanguardia nello sviluppo delle nuove tecnologie e sono alleati degli Stati Uniti. Tuttavia tra le due nazioni c’è una profondissima diffidenza reciproca, che periodicamente riaffiora in ambiti diversi come la politica, la diplomazia, l’economia, la cultura e perfino lo sport e la cucina.
Questa diffidenza ha radici storiche che risalgono a quando l’intera penisola coreana (sia il Sud che il Nord) era sotto dominio giapponese. Tra il 1910 e il 1945 la Corea fu annessa all’impero giapponese e subì una pesante politica coloniale che segnò profondamente la società coreana di allora, le cui conseguenze arrivano fino a oggi. A partire dagli anni Trenta le autorità giapponesi cercarono con sempre maggior convinzione di assimilare la popolazione locale erodendone la cultura: ai sudditi della penisola coreana furono imposti nomi giapponesi e il culto dell’imperatore, fu promossa la religione shintoista a scapito di quelle locali, e gli spazi in cui era consentito parlare in coreano furono via via ristretti.
Nella coscienza collettiva della Corea del Sud questo periodo è ricordato come una specie di “trauma nazionale”.
La memoria storica più dolorosa e partecipata è quella legata alla Seconda guerra mondiale. Durante gli anni del conflitto, le autorità imperiali adottarono politiche disumanizzanti nei confronti dei sudditi coreani: 780 mila tra questi furono trasportati forzatamente in Giappone e obbligati a lavorare nelle fabbriche contro la propria volontà. Ampiamente ricordata in Corea del Sud è anche la vicenda delle cosiddette “donne di conforto” (meglio note come comfort women), ossia circa 150-200 mila giovani ragazze coreane che vennero reclutate a volte con la forza e altre con l’inganno per servire l’esercito giapponese come prostitute.
A distanza di 80 anni per molti sudcoreani queste vittime, alcune delle quali sono ancora in vita, non hanno mai ottenuto giustizia.
Durante il processo di Tokyo del 1946 (l’equivalente asiatico del processo di Norimberga in cui furono giudicati i dirigenti della Germania nazista) gli Alleati condannarono i dirigenti dell’impero giapponese per crimini di guerra ma la questione della responsabilità coloniale nei confronti della Corea, che nel frattempo era stata liberata e divisa in Nord e Sud, non fu affrontata. Venne poi sciolta nel 1965 con un trattato tra Giappone e Corea del Sud. In quell’occasione il governo giapponese si impegnò a chiudere “completamente e definitivamente” i conti con il passato e stanziò 500 milioni di dollari (che oggi hanno un valore di circa 4,75 miliardi) come compensazione per il proprio dominio coloniale, in cambio della quale il governo sudcoreano avrebbe dovuto rinunciare a chiedere nuove riparazioni.
La disputa però è tutt’altro che conclusa. Benché i giapponesi intendessero ripagare individualmente le vittime degli abusi coloniali, l’allora giunta militare che governava la Corea del Sud li convinse invece a fornire la compensazione sotto forma di finanziamenti per la nascente industria del paese. Le vittime non ricevettero niente ma nel clima oppressivo della dittatura sudcoreana non c’era spazio per dissentire col governo. Solo dopo la democratizzazione iniziata negli anni Ottanta le vittime delle violenze del periodo coloniale cominciarono a parlare apertamente della propria esperienza, dopo decenni di silenzio.
La riscoperta dei traumi del colonialismo giapponese e l’elaborazione di quella memoria storica sono quindi un processo molto recente e per moltissimi aspetti ancora in corso.
All’origine della più recente tensione tra Giappone e Corea del Sud c’è una sentenza, emessa nel 2018 dalla Corte suprema di Seul, che condanna due società giapponesi a pagare le riparazioni direttamente ad alcune vittime sudcoreane che furono costrette ai lavori forzati nelle loro fabbriche. Le due società (Mitsubishi Heavy Industries e Nippon Steel) si sono rifiutate di obbedire alla sentenza e, di fronte al rischio di esproprio dei loro asset in Corea, il governo giapponese nel 2019 ha avviato una pesante controffensiva economica per dissuadere le autorità sudcoreane. Le sanzioni adottate dall’allora governo di Shinzo Abe riguardavano la rimozione della Corea dalla lista dei paesi privilegiati con cui intrattenere rapporti commerciali e soprattutto nuovi limiti all’export di alcune componenti chimiche necessarie per la fabbricazione di microchip, uno dei prodotti di punta dell’industria sudcoreana.
Proprio Abe era una delle personalità al centro del dissidio tra i due paesi. L’ex primo ministro aveva profondi legami con la destra giapponese più negazionista, quella per cui il passato imperiale continua a essere un’esperienza storica degna di essere celebrata. Abe è stato uno dei politici che negli ultimi decenni più di altri hanno influenzato il sentimento nazionalista del Giappone. Non solo ha sostenuto attivamente le politiche di riarmo del paese, ma ha anche contribuito a diffondere una lettura revisionista della storia recente. Le sue visite al santuario shintoista di Yasukuni a Tokyo (dove sono commemorati anche numerosi criminali di guerra) hanno sempre suscitato aspre critiche in Corea mentre i libri di storia che minimizzano le atrocità commesse dall’esercito giapponese sono stati diffusi nelle scuole del paese anche grazie al suo sostegno. Per questo motivo le scuse pronunciate nei decenni passati dalla dirigenza giapponese suonano oggi come false a molti sudcoreani.
A dividere Corea del Sud e Giappone ci sono anche altre ragioni, come le rivendicazioni di sovranità contrastanti sugli isolotti di Dokdo, o la controversia legata all’incidente della centrale nucleare di Fukushima. Ancora oggi la Corea vieta l’importazione di prodotti ittici dalle zone che vennero colpite dalla catastrofe del 2011 e il governo di Seul è stato tra i più critici del piano giapponese di sversamento in mare dell’acqua contaminata utilizzata per raffreddare il reattore.
Ma al cuore della diffidenza reciproca ci sono senza dubbio le divergenze sulla memoria storica, che oltre ad aver complicato i rapporti economici hanno anche avuto ricadute in termini di sicurezza visto che nel 2019 il governo sudcoreano decise di sospendere un patto bilaterale sulla condivisione di informazioni dell’intelligence.
Da quando l’anno scorso in Corea del Sud i progressisti dell’ex presidente Moon Jae-in hanno perso le elezioni e il conservatore Yoon Suk-yeol è stato eletto alla presidenza, la Corea del Sud ha cercato di ricucire i rapporti col Giappone. Storicamente i conservatori sono meno ostili dei progressisti nei confronti dell’ex potenza coloniale. Inoltre Yoon ha cercato di distendere i rapporti col Giappone sia per rilanciare le prospettive commerciali e tecnologiche dell’industria sudcoreana sia soprattutto per riconsolidare il fronte delle democrazie davanti ai numerosi problemi della regione, a partire dall’aggressività della Cina nell’area e dalle minacce nucleari e missilistiche della Corea del Nord.
A questo riavvicinamento hanno anche contribuito molto gli Stati Uniti, che vedono nel Giappone e nella Corea del Sud i loro principali alleati nella regione.
Anche per questo a inizio marzo il governo sudcoreano ha reso pubblica una proposta per risolvere la questione dei risarcimenti ai sudcoreani costretti ai lavori forzati dal Giappone colonialista: prevede che i pagamenti alle vittime dei lavori forzati avvengano attraverso una fondazione, verso la quale le società private sia giapponesi che coreane potranno effettuare versamenti volontari. Ma in Corea c’è la netta impressione che Yoon abbia concesso troppo, sacrificando il diritto a una giustizia equa per le vittime, e aumentano le voci che si oppongono a questa proposta di accordo a cui funzionari sudcoreani e giapponesi hanno lavorato per mesi. Il consenso interno in Corea del Sud sarà un elemento fondamentale per capire se i rapporti con il Giappone potranno essere consolidati o meno. Già nel 2018 un accordo siglato con il Giappone tre anni prima sulla compensazione delle comfort women è stato annullato dall’ex presidente progressista Moon, sotto la pressione delle proteste popolari.