Una costellazione / 3
«Una volta che tali connessioni appaiono credibili o semplicemente affascinanti — una volta che vengono irradiate dalla forza del mito o della bellezza — acquisiscono una propria oggettività. Restano con noi, così com'è impossibile non guardare le sette stelle dell'Orsa Maggiore senza collegarle d'istinto in un carro»
Già la presenza di Kerouac mi aveva colpito, ma il tredicesimo punto dell’elenco mi lascia addirittura stupefatto. C’è ancora un margine di incertezza, d’accordo, perché il nome è mozzato e seguono tre punti di sospensione; tuttavia non so completarlo in altra maniera. Che c’entrerà Bukowski con Bernhard? Mistero.
14. Bukowski
Opinione del tutto personale: ho sempre ritenuto che Bukowski non valesse poi molto come scrittore di narrativa, ma fosse un bravo poeta. If we take, stampata da sola come regalo di compleanno per Hal Norse, è la mia preferita: la prima parte elenca ciò che possiamo vedere — tutta una serie di brutture, guerre morte fiori che marciscono e così via; e il distico centrale afferma che esse mostrano come la vita sia retta su presupposti assurdi. Ma, aggiunge la seconda e splendida parte, ci hanno lasciato alcune cose: fra cui un po’ di musica, un libretto di poesie di Rimbaud, una misura di scotch, il vino “e l’estate e l’inverno e l’estate e l’estate / e l’inverno di nuovo”.
Ho annotato di ricopiare questi versi — gli stessi che appaiono sull’invito al funerale di Bukowski — una mattina a Stoccolma, riposando sotto un tiglio dello Skogskyrkogården, il cimitero nel bosco con le sue semplici tombe perse nel verde, sotto un cielo solcato da nuvole vaganti. Giovani donne lavoravano alle aiuole con grazia e pazienza. Inutile dire quanto un simile rapporto con la morte appaia più sano di altri, e soprattutto dello stile monumentale che tuttora affligge il cattolicesimo: i cimiteri dell’Europa meridionale sono città di morti affollate e condannate alle disparità sociali — qui una lapide rotta, là enormi angeli in marmo — insomma una copia della città dei vivi, ma con un sovrappiù di violenza perenne. Più che stimolare il ricordo e l’introspezione, assicurano che la distinzione tra chi fu e chi ancora cammina sulla terra sia la più manifesta possibile.
Non così allo Skogskyrkogården, dove la morte appare, pur nell’inevitabile dolore, un’idea non-violenta, una parte della vita — nient’altro che stagioni: estate e inverno, estate inverno, e così via.
15. Saramago
L’aspetto più convincente di Cecità — e dell’opera di Saramago in generale — è affine a un procedimento tipico di Kafka: la metafora viene cancellata e irregimentata in una realtà piuttosto assurda ma del tutto coerente. Come l’insetto della Metamorfosi non rappresenta nulla, non simboleggia nulla, eppure scatena il nostro senso ermeneutico, così i ciechi di Saramago si muovono realmente senza vista nel loro mondo, e devono far fronte alle immense difficoltà di tale condizione, e si accalcano, e si disperano, e scatenano violenze inaudite, e infine guariscono senza ragione alcuna.
La forza dell’immagine — la sua luminosità — moltiplica e insieme sovrasta ogni lettura, imponendosi da sé, così come la voce che compare all’improvviso nel Vangelo secondo Gesù Cristo, durante la conversazione tra Dio, Gesù e il Diavolo.
Il Signore ha appena ammesso la propria volontà di potere, per la quale è indispensabile il sacrificio del figlio prediletto: non si tratta di mettere in moto la macchina della redenzione quanto di imporsi sull’intera umanità, strappandola agli altri dèi, anche a costo di immani spargimenti di sangue; e come osserverà più avanti ironicamente Satana — che nel romanzo riveste il ruolo opposto del Pastore — “Bisogna proprio essere Dio per amare così tanto il sangue”. A questo punto, però, mentre i tre si interrogano su chi creerà il dio che vorrebbe spodestare l’attuale — Allah? — una voce dalla nebbia li ammonisce: “Forse questo Dio e quello che dovrà venire non sono che eteronimi”. Chi sta parlando?
In un’ottica gnostica, Harold Bloom ha ipotizzato che possa essere il Dio superiore al cinico arconte della Terra: il vero Dio onnipotente e buono. Può darsi, anche se non ne sono convinto; in ogni caso, la grande astuzia di Saramago sta nell’impedire che la voce si levi ancora nel corso del romanzo. Di fatto si limita ad affermare una verità importante ma non così essenziale come altre che restano aperte: più di quel che dice, è cruciale la sua stessa presenza; l’idea, in fondo consolante, che nessun padrone sia impunibile; e che un giorno l’autentico signore del cosmo potrà liberarci da questo demiurgo maligno.
16. Morselli
Nel mio computer c’è la stesura, eternamente provvisoria, di un saggio sulla depressione e la scrittura, con un’attenzione particolare al suicidio. Fra i nomi che vi compaiono ci sono ovviamente Dagerman e anche Guido Morselli (e dovrebbe starci anche Pizarnik, realizzo ora). Nonostante le palesi qualità letterarie e una vita consacrata alla scrittura — benché sulla carta d’identità si definisse “agricoltore” — Morselli fu quasi sempre rifiutato dal sistema editoriale. Nel 1966 un romanzo fu cancellato dal programma di pubblicazione quando era già in bozza; e anche il suo capolavoro, Dissipatio H.G., in cui immagina un mondo privo di esseri umani tranne il protagonista, fu respinto al mittente. Troppo all’avanguardia, troppo diverso, troppo lontano della dinamiche culturali dell’epoca — le spiegazioni sono molteplici e in fondo non spiegano granché.
Nel mio saggio in perenne stesura avanzo l’ipotesi che non esistano relazioni privilegiate tra creazione artistica e pulsione suicidaria. Tuttavia la depressione, una delle cause primarie del suicidio, assomiglia a una sorta di negativo della scrittura letteraria. In altri termini: il depresso, esiliato dal linguaggio eppure ancora padrone di un linguaggio, benché riconosciuto inutile e infranto, è la figura più lontana possibile rispetto alla fiducia nelle parole e nella logica narrativa che deve nutrire uno scrittore.
Come affrontare dunque uno stato del genere, quando si è scrittori? Come esorcizzarlo, se le proprie armi — l’alfabeto e le trame — si rivelano inermi? Mi capitò anni fa, e perdurai in questo stato per molto tempo: fu terribile, mi condannò a una sofferenza incomprensibile ai più e mi rese quanto mai odioso; ma consentì anche di chiarire un punto: fra depressione e scrittura non vige alcun malinteso legame romantico.
Ricordando Foster Wallace ne L’isola più lontana (in Più lontano ancora), Jonathan Franzen disse che “era sprofondato nel pozzo della tristezza infinita, dove le storie non arrivano, e non riuscì più a venirne fuori”. Dove le storie non arrivano, esattamente: la depressione è mostruosa per chiunque, e il fatto di scrivere non la rende né più sopportabile né più nobile; semplicemente, comporta piccolo avvilimento in più: perché la parola si riduce a balbettio insignificante, e il tempo — che la narrazione organizza attraverso una logica — è soltanto lo scorrere di istanti tutti uguali, dolorosi, pesanti e muti come massi.
17. Grotowski (?)
L’unico fra i nomi della mano sconosciuta che non ho letto; né ho mai visto un suo spettacolo. Il punto di domanda mi offre la consueta via d’uscita, ma stavolta decido di non imboccarla: scarico Towards a Poor Theatre e nel travagliato percorso da Amburgo a Bruxelles — due treni cancellati, coincidenze mancate, tredici ore di viaggio — guardo un po’ di video su YouTube, senza riuscire a cogliere l’aura di spettacoli che, mai come in questo caso, mi pare andrebbero visti dal vivo. Arrancando fra Colonia e il confine belga inizio a leggere il saggio e trovo quello che mi interessa.
La povertà rivendicata da Grotowski non è un francescanesimo d’accatto, e non mi sembra essere definita unicamente dalla frugalità scenica, benché certo questo abbia un’importanza capitale. Criticando il teatro contemporaneo come sintesi di discipline differenti, e accusandolo di “cleptomania artistica”, Grotowski ne evidenzia una sorta di complesso d’inferiorità nei confronti del cinema e della televisione. Più queste forme eccellono nelle funzioni meccaniche — ad esempio il montaggio — e più il “Teatro Ricco” tenta di competere usando gli stessi mezzi.
Ma è un errore, perché così facendo ci si allontana dallo spirito più puro del teatro come comunione viva e diretta fra attore e spettatore: da cui il desiderio di eliminare qualsiasi aspetto superfluo per ritrovare tale connessione originaria. Il teatro può espandere quanto vuole le sue risorse meccaniche, scrive Grotowski, ma rimarrà sempre tecnologicamente inferiore a cinema e tv.
La stessa cosa vale, sembra, per il romanzo oggi. Come può il romanzo rivaleggiare all’altezza con altre forme di narrazione? Come può reggere contro la qualità e la diffusione di videogiochi, social media, serie tv, fumetti, film, longform giornalistici, podcast, chatbot?
Se però il romanzo cerca di imitare le pratiche narrative delle altre forme, cui resta tecnicamente inferiore — proprio perché intrinsecamente “povero”, ovvero privo di suoni e immagine — si condanna da solo all’insignificanza; la battaglia è persa in partenza. L’apparente frugalità di mezzi della lingua letteraria è sempre stata la sua più grande risorsa, ed è piuttosto necessario rinnovarla.
18. L’assurdo……
I sei punti di sospensione tracciati dalla mano sconosciuta — gli ultimi tre quasi rannicchiati l’uno sull’altro — non offrono un’immagine di volo e superamento della pagina, anche perché si affossano ben prima del margine. L’assurdo: hai detto niente. Che farne? Beckett? Camus? Ionesco? Gorgia?
Alla fine scelgo Growing up Absurd di Paul Goodman, in italiano La gioventù assurda, presumo molto lontano dalle intenzioni della mano e lontanissimo dal testo di Bernhard — ma l’ho ripreso in mano qualche mese fa, e mi ha lasciato la solita impressione profonda. (È anche stata l’occasione per leggere la sua recensione di Sulla strada).
Goodman argomenta più o meno così: viviamo in un sistema che dà un’attenzione sproporzionata al ruolo, alla funzione, al profitto e ben poca ai bisogni e alle funzioni; non ci vengono dati alloggio ed educazione perché non ci si preoccupa di queste cose; i lavori sono svolti senza amore; e chi è particolarmente capace finisce preda del cinismo o della rassegnazione.
Goodman avanzava queste tesi nel 1960, agli albori di un grande cambiamento sociale, e non è un caso che il libro lo consacrò al successo. Oggi non è così, e il nichilismo circostante non sembra soggetto a grandi scosse; ma le righe di Goodman sembrano ancora più calzanti. Questa ossessione per l’apparenza e i ruoli; questa lingua intessuta di luoghi comuni e che desidera perpetuarsi perché è veicolo di un potere banale ma efficace: talora sembra di vivere in un interminabile ricevimento proustiano dove tutti fingono e tutti hanno paura delle opinioni altrui.
19. Pessoa
Il 6 ottobre 1933 Felicitas (ovvero Gretel Karplus, moglie di Adorno) scrisse a Detlef Holz (ovvero Walter Benjamin) di aver riflettuto sui soprannomi che si erano scelti, “come se fossimo diventati diversi grazie ad essi, ma in modo autentico e non scherzoso come capita coi nomignoli. In essi è contenuta una grande brama, e spesso precisamente l’opposto della reale esistenza”.
Lo stesso si potrebbe dire di Pessoa: il suo gusto per gli eteronimi è un riflesso, o meglio una conseguenza, del suo disperato solipsismo; ma non meno pungente è l’estraneità che il poeta prova nei confronti di se stesso. (Ricordate? Nel Vangelo secondo Gesù Cristo, una voce nella nebbia aveva suggerito che forse il dio attuale e quello a venire sono eteronimi; ebbene, una riga dopo un’altra voce domanda di chi, di cosa, e la risposta è: “Di Pessoa”).
Così il celebre Libro dell’inquietudine è pervaso da un tormento che la perfezione formale non riesce a nascondere. Bernardo Soares è come un Montaigne in cui lo scetticismo, uscito dai binari, ha divorato ogni amabilità, sostituendola con una ricognizione logorante del proprio io: “autobiografia senza fatti”, nella celebre definizione. Ogni pagina trabocca invece di descrizioni: cieli, figure, pioggia, sole, scrivanie, libri, scorci urbani che il narratore rimira senza che possano guarirlo. Tutto è transitorio. Tutto si dissolve nell’istante.
“Per comprendere, mi sono distrutto”, scrive Soares. “Comprendere è dimenticare di amare”. Nella sua luminosa assenza di speranza, il Libro dell’inquietudine è fenomenologia molto più che introspezione psicologica: “Vivere non vale la pena. Solo guardare vale la pena”. Purtroppo, come viene osservato poco dopo, le due cose non sono separabili.
Creando personaggi ed eteronimi, Pessoa popolò a modo suo una solitudine invincibile: il meno che si possa dire — godendo della sua prosa così esatta — è che essi lo ripagarono creando a loro volta mondi, e altre solitudini, e altre malinconie, in un gioco di specchi senza termine.
20. Veramente?
Ho riconsegnato Gelo in biblioteca un pomeriggio di fine agosto.
Quale costellazione emerge dai nomi sopra cui ho giocato, accumulando citazioni e frammenti? È una figura riconoscibile o un mero scarabocchio?
Per Walter Benjamin “le idee stanno alle cose come le costellazioni alle stelle”. Il concetto racchiude; la possibilità di immaginare relazioni inaspettate attraverso un’operazione intellettuale che tuttavia si basa su oggetti reali — le stelle, appunto. E una volta che tali connessioni appaiono credibili o semplicemente affascinanti — una volta che vengono irradiate dalla forza del mito o della bellezza — acquisiscono una propria oggettività. Restano con noi, così com’è impossibile non guardare le sette stelle dell’Orsa Maggiore senza collegarle d’istinto in un carro.
“Esistono naturalmente delle costellazioni che proibiscono la vita”, è scritto in Gelo; ma credo esistano anche costellazioni che la riempiono di nuovo sangue. “Comprensione delle cose?”, è scritto ancora, più avanti. “No. Mi limito a guardarle. Perché non mi uccidano”.
Nel suo Diario fenomenologico Enzo Paci spiegava l’esercizio dell’epoché, la messa fra parentesi del mondo naturale, attraverso un gesto molto concreto: la sospensione del giudizio è anche disporsi a osservare le cose con rinnovato stupore: “Non soltanto come se fosse la prima volta che le vedo. È un’esperienza più forte, più profonda. L’albero non vive più nell’aria, si è cristallizzato, e con l’albero tutto. Attende. Esiste nell’attesa. Non ha più un significato ovvio, quotidiano. Il suo significato devo darglielo io”.
Quest’ultimo punto è essenziale. Guardare bene implica anche donare nuovo senso — creare una costellazione — e assumersene la responsabilità, contro l’ottuso muro dell’ovvietà. (Ribellarsi all’ovvio: così potremmo intendere una retta etica intellettuale). Siamo affamati di significato, anche dove la realtà ci restituisce caso o silenzio.
Certo, la pressione delle nostre interpretazioni potrebbe facilmente ingannarci e trasformare la richiesta di senso in dietrologia. Purtroppo l’alternativa è altrettanto desolante, e forse molto più diffusa: le letture banalizzanti. Essere sordi alle sollecitazioni del caso, alla bellezza lampeggiante di una connessione, significa divenire un semplice consumatore (di merci, tempo, suolo): ovvero, vivere una vita senza significato.
E ora è un mattino d’inverno. Mentre finisco questo saggio mi accorgo che sotto di esso vibra anche una preghiera. Dalla rete della storia si salvano alcuni frammenti, brandelli di persone che furono o sono ancora, vicinissime o lontane, di cui ignoriamo tutto salvo quelle poche parole. Ma anche il più lacero appunto, oltre a testimoniare l’esistenza di una vita, di desideri soddisfatti o inappagati, di dolori inaccessibili, è esso stesso una vera presenza, per usare liberamente l’espressione di George Steiner.
Nella famosissima pagina della Prigioniera sulla morte di Bergotte davanti a un quadro di Vermeer, Proust identifica la possibilità e insieme la speranza di un aldilà completamente laico ma non per questo meno radioso: l’oltremondo di norme che nulla ci obbliga a osservare e che pure rispettiamo, quando siamo degni di noi stessi: esse
“sembrano appartenere a un mondo diverso, fondato sulla bontà, lo scrupolo, il sacrificio, un mondo totalmente diverso da questo, e dal quale usciamo per nascere a questa terra prima forse di tornarvi a rivivere sotto il dominio di quelle leggi sconosciute cui abbiamo obbedito perché ne portavamo l’insegnamento dentro di noi senza sapere chi ve le avesse tracciate — quelle leggi cui ci avvicina ogni lavoro profondo dell’intelligenza e che rimangono invisibili soltanto (e chissà, poi?) agli sciocchi”.
Non ci è dato decidere cosa rimarrà di noi. La pretesa di controllo sulla nostra biografia, così importante per questa società, è risibile; il desiderio di garantire un’immagine coerente e linda è un ideale irraggiungibile, a volte patetico.
Eppure qualche volta, inspiegabilmente, una presenza risorge e un contatto si crea: attraverso il gioco e la finzione, così come con la letteratura, esercitiamo la nostra libertà e restituiamo al superfluo la dignità del necessario, non fosse che per qualche pagina.
Fine
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