Comparare i sistemi pensionistici di paesi diversi ha poco senso
Perché le variabili sono troppe: se ne parla per le grosse proteste in corso in Francia contro la riforma delle pensioni
Da quando il governo francese ha presentato una proposta di legge per riformare il sistema pensionistico, nel paese sono state organizzate proteste e giornate di sciopero a cui hanno partecipato milioni di lavoratori e lavoratrici di vari settori, dai trasporti alla scuola. Nel dibattito in corso sia per giustificare la riforma che per criticarla vengono spesso fatti confronti con i sistemi pensionistici di altri paesi europei.
Il blog di data journalism e factchecking di Le Monde, Les Décodeurs, ha spiegato però che fare questa comparazione tenendo conto di un solo indicatore, come quello dell’età pensionabile ad esempio, non è «saggio» né aiuta a trarre conclusioni significative e particolarmente utili a prendere posizione nel dibattito in corso: le differenze tra i vari sistemi pensionistici sono tante, troppe, così come le variabili che si possono combinare tra loro.
La riforma francese, e perché
La riforma delle pensioni era stata presentata a gennaio. Dopo una prima discussione all’Assemblea Nazionale (la Camera bassa) si trova ora al Senato. Proseguirà il proprio iter parlamentare fino al 26 marzo; e se entro quella data non sarà approvata, il governo potrà ricorrere all’art. 49 comma 3 della Costituzione, una procedura legislativa che permette di approvare una proposta senza passare dal voto del parlamento. Per le prossime settimane, i sindacati e le opposizioni hanno già annunciato nuove mobilitazioni.
La riforma francese prevede anzitutto l’innalzamento graduale dell’età pensionabile da 62 a 64 anni. Prevede inoltre di anticipare dal 2035 al 2027 l’applicazione della cosiddetta riforma Touraine, che aumenta di un anno il periodo per cui è necessario versare contributi per andare in pensione; stabilisce infine l’abolizione di alcuni regimi pensionistici speciali, oltre a una serie di altre misure.
Il sistema pensionistico francese è stato messo in piedi dopo la Seconda guerra mondiale e si basa sul fatto che i lavoratori attivi paghino le pensioni degli ex lavoratori. Ma secondo il governo e il presidente Emmanuel Macron, che aveva già provato a riformare le pensioni nel 2019, non è più un sistema efficiente proprio perché pensato in un momento in cui l’aspettativa di vita era più bassa e la forza lavoro attiva era maggiore. Oggi è diventato troppo costoso.
Nel 2020 il sistema pensionistico è costato l’equivalente del 14,5 per cento del PIL, in proporzione meno di quello italiano (che nel 2021 ha raggiunto il 17,6 per cento del PIL), ma comunque più che in quasi tutti i paesi europei. Alcune stime dicono che potrebbe non reggere più sul lungo periodo e dunque cambiarlo sarebbe, secondo il governo, necessario per salvarlo. L’obiettivo della riforma è innanzitutto quello di rendere il sistema più sostenibile per le finanze dello stato, ma per farlo, tra le varie opzioni possibili, si è scelto di alzare l’età pensionabile a 64 anni, ed è il provvedimento che sta causando le maggiori contestazioni: per lo stato significherebbe spendere meno, dato che l’erogazione delle pensioni inizierebbe più tardi e i lavoratori verserebbero contributi per più tempo.
La riforma in discussione in Francia è per certi versi assimilabile alla legge Fornero del 2011 che ha riformato il sistema pensionistico italiano: fu una legge mirata a risanare immediatamente le finanze pubbliche, che impostò un percorso per rendere più sostenibile a livello economico il sistema pensionistico, attraverso un aumento dell’età pensionabile e una rivalutazione più frequente dell’aspettativa di vita, in base alla quale viene calcolato l’importo della pensione. Fu una norma molto dura da far accettare alla popolazione – e infatti nel tempo è stata contestatissima a livello politico e costantemente aggirata – perché di fatto spostava in avanti l’età pensionabile.
Oltre all’aspetto economico e finanziario, un altro argomento usato dal governo francese per difendere la riforma è che alzare l’età pensionabile uniformerebbe la Francia ai sistemi pensionistici di altri paesi europei. «La riforma delle pensioni è essenziale quando ci si confronta con l’Europa», ha detto ad esempio il presidente Emmanuel Macron a fine gennaio.
Fare confronti è utile?
Per Les Décodeurs, mettere a confronto i sistemi pensionistici di vari paesi o alcuni loro specifici meccanismi è però complicato, e forse nemmeno così utile. In generale si può dire che confrontare diversi sistemi pensionistici è come confrontare diversi sistemi di tassazione: riflettono le specificità dei paesi e le caratteristiche dell’economia, quindi i paragoni vanno sempre presi con le dovute cautele.
In più, esattamente come nel caso della tassazione, ogni paese può decidere se e quanto essere “generoso” con le pensioni, sia sulla base del fatto che possa sostenere quella spesa, sia per semplice scelta politica.
È vero però che ci sono alcune tendenze che colpiscono i sistemi pensionistici di tutti i paesi europei (ma non solo) e che li pongono di fronte a problemi comuni: l’aspettativa di vita è aumentata un po’ ovunque e quindi gli stati devono pagare le pensioni per più anni; l’età media della popolazione aumenta e ci sono più persone in pensione, a fronte di un numero complessivo di lavoratori più o meno stabile; anni di mancata crescita (con le dovute differenze tra paesi) hanno comportato carriere discontinue, disoccupazione, salari bassi e quindi sempre meno contributi versati per pagare le pensioni di oggi (che complessivamente invece sono sempre più onerose).
In generale quindi si nota un po’ ovunque la tendenza a rendere i sistemi più sostenibili, e quindi allo stesso tempo meno “generosi”.
Ripartizione o capitalizzazione
Il modello francese è, innanzitutto, un sistema pensionistico a ripartizione, come quello italiano: il pagamento delle pensioni viene fatto utilizzando i contributi correntemente versati dagli attuali lavoratori e dai datori di lavoro, senza che venga fatto alcun accantonamento dei contributi stessi. Nel calcolo della pensione vengono presi in considerazione la durata dell’attività (calcolata in trimestri), il livello di reddito durante la vita lavorativa e tutta una serie di altri fattori, ma la pensione stessa non è pagata direttamente dalle somme che la persona che riceverà la pensione ha versato.
Nei sistemi a capitalizzazione le risorse per il pagamento delle pensioni provengono invece dai contributi versati in passato dai lavoratori e dai datori di lavoro.
L’idea che sta alla base dei sistemi a ripartizione è quella di un’interdipendenza tra lavoratori attivi e ex lavoratori: i primi sostengono e contribuiscono alle pensioni delle generazioni precedenti. Il sistema pensionistico francese funziona dunque come una specie di assicurazione collettiva e si parla infatti di «pot commun», una pentola comune riempita via via dalla popolazione attiva.
I modelli a capitalizzazione implicano invece l’idea di un contributo versato per se stessi e il ritiro di quanto versato al momento del pensionamento.
I due sistemi possono coesistere anche in uno stesso paese, e tutti i paesi europei, spiega Les Décodeurs, hanno di fatto un sistema pensionistico misto in cui ripartizione e capitalizzazione hanno rispettivamente un maggiore o un minore spazio. Il sistema del Regno Unito, ad esempio, è basato in gran parte sul modello a capitalizzazione, mentre in Francia il sistema è basato interamente sulla ripartizione. Anche in Italia il sistema pensionistico è a ripartizione, seppur con alcune eccezioni per chi appartiene a una cassa professionale – come quelle degli avvocati, commercialisti, giornalisti e così via – che talvolta usano un sistema misto tra ripartizione e capitalizzazione.
Il principio della ripartizione non è stato comunque messo in discussione dalla riforma proposta dal governo francese.
Un’altra differenza: nel Regno Unito e nei Paesi Bassi, ad esempio, esiste un importo forfettario di base pagato ai pensionati indipendentemente dal loro livello salariale. In tutti gli altri paesi che legano le pensioni ai salari, i livelli pensionistici variano enormemente: in alcuni corrispondono a un terzo del vecchio salario in altri al 90 per cento. In Italia gli assegni sono calcolati sulla base dei contributi versati e non più sulla base della retribuzione percepita negli ultimi anni prima della pensione – anche se molti ancora le percepiscono sulla base del vecchio sistema e ci vorranno anni prima che tutte le pensioni siano calcolate col metodo cosiddetto contributivo.
– Leggi anche: No, in Italia non si va in pensione più tardi che nel resto d’Europa
L’età pensionabile
Anche comparare l’età pensionabile non è semplice. Intanto esiste “l’età legale” che può però corrispondere a differenti definizioni: nella cosiddetta età legale rientrano l’età alla quale si possono far valere i propri diritti pensionistici (età statutaria), l’età alla quale si percepisce la pensione piena o il pensionamento forzato, spiega l’OCSE, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico che realizza regolarmente dei rapporti comparando i sistemi pensionistici di alcuni paesi in Europa e nel mondo.
L’OCSE dice che è possibile fare una comparazione sensata tra vari paesi considerando l’una o l’altra definizione di età legale. Ma dice anche che utilizzare qualsiasi definizione di età legale non dà conto di ciò che accade davvero. L’età legale è cioè altra cosa dall’età reale o effettiva, cioè il momento in cui i lavoratori o le lavoratrici scelgono di andare in pensione. E qui, le cose si complicano.
Il divario spesso citato nel dibattito sulla riforma francese è tra l’età legale di 62 anni in Francia e quella di 67 in Germania, ma si riduce notevolmente se si confrontano le età pensionabili effettive dei due paesi, ossia quelle in cui in media le persone lasciano davvero il lavoro: 63 e 65 anni. In Germania, Lussemburgo o Austria, la maggior parte dei lavoratori va in pensione prima dell’età pensionabile legale, mentre in Francia, Svezia o Grecia se ne va dopo. Queste scelte sono spesso influenzate dall’esistenza di meccanismi che rimandano l’età in cui si può richiedere la pensione completa e di altri che – al contrario – consentono di andare in pensione prima in virtù di particolari eccezioni alle regole generali. I lavoratori preferiscono quindi o lavorare più a lungo per aumentare il livello della loro futura pensione oppure usufruire delle possibilità che il sistema prevede per andare in pensione prima, anche con un assegno minore.
Se confrontiamo l’età che consente di accedere ai pieni diritti pensionistici, la Francia è agli ultimi posti: 67 anni, dietro alla Germania (65 anni e 11 mesi, nel 2023). Il punto è però che l’età pensionabile completa o un suo equivalente non esiste ovunque. In alcuni paesi, la pensione viene pagata per intero solo se sono soddisfatte altre condizioni: durata dei contributi nel Regno Unito e in Belgio o durata della residenza nei Paesi Bassi, ad esempio.
In Italia, nonostante l’età legale per ricevere la pensione di vecchiaia sia fissata a 67 anni, l’età media effettiva a cui si va in pensione è più bassa: 63,8 anni, a causa di tutta una serie di eccezioni che il sistema prevede (tra cui quota 100 e le quote successive).
Contributi, tassi di sostituzione e regimi speciali
Risulta complicato, spiega Les Décodeurs, anche paragonare gli anni di contribuzione necessari per avere accesso alla pensione. Alcuni sistemi non prevedono infatti un periodo minimo di contributi e in altri casi questi periodi variano enormemente da paese a paese: 35 anni per le donne italiane contro i 45 della Germania. Inoltre non danno accesso alle stesse prestazioni (pensione piena o prepensionamento, ad esempio). Il confronto diventa ancor più azzardato se si tiene conto del fatto che ci sono paesi che penalizzano un lavoratore che smette di lavorare prima dell’età legale o, al contrario, che aumentano il livello della sua pensione se contribuisce più a lungo.
Un altro parametro spesso utilizzato per fare confronti è il tasso di sostituzione, cioè il rapporto in percentuale fra il primo assegno della pensione e l’ultimo stipendio percepito prima di lasciare il lavoro. Anche considerando un caso di prova (carriera completa nel settore privato iniziata all’età di 22 anni) e ipotesi macroeconomiche comuni (un tasso di inflazione fissato arbitrariamente allo stesso livello per tutti i paesi), la disparità dei sistemi pensionistici impedisce qualsiasi confronto rilevante, dice Les Décodeurs. Gli italiani, ad esempio, hanno un tasso di sostituzione superiore all’80 per cento, ma è probabile che questo tasso diminuisca se l’aspettativa di vita aumenta ancora. Ci sono sistemi in cui questo tasso diminuisce se l’aspettativa di vita aumenta o sistemi che rivalutano nel tempo le pensioni per mantenere il potere d’acquisto dei pensionati o, infine, sistemi in cui l’ammontare delle pensioni segue l’evoluzione dei salari.
La nuova riforma del governo francese, con l’obiettivo di semplificare un sistema che ritiene complicato, prevede infine la graduale scomparsa dei cosiddetti regimi pensionistici speciali, regimi vantaggiosi che sono riservati ad alcune categorie di lavoratori o lavoratrici. Nel dibattito attualmente in corso in Francia sta passando l’idea che i regimi pensionistici speciali siano un’eccezione francese. Non è così, spiega Les Décodeurs: «Esistono in quasi tutti gli stati dell’Unione europea». Ma anche in questo caso, è difficile paragonarli tra loro. Variano molto da paese a paese (si va da quelli per i toreri in Spagna a quelli per i giornalisti in Belgio) e molto spesso non coinvolgono specifiche categorie lavorative, ma sono riservati a condizioni di altro tipo: le madri delle famiglie numerose in Lituania o le vittime di Chernobyl in Lettonia. In Italia per esempio c’è Opzione donna, un meccanismo con condizioni di favore specifiche per le sole donne. Condizioni che in altri paesi come la Francia rientrerebbero piuttosto nelle prestazioni sociali legate alla famiglia o alla salute.
In ciascun paese i regimi speciali danno poi accesso a vantaggi differenti tra loro. E infine, come ha fatto notare la Commissione europea in un rapporto del 2021, l’ultimo censimento dei regimi speciali nell’Unione europea è stato fatto su base volontaria: «Risultato: nella maggior parte dei casi, non è disponibile alcuna proiezione dettagliata».