Le crisi dell’Iditarod
In Alaska la famosa gara di slitte trainate da cani deve fare i conti con il clima e l'economia, ma anche con se stessa
Il 5 marzo 33 persone sono partite da Willow, in Alaska, ognuna con una slitta e 12, 13 o 14 cani, per la 51ª edizione dell’Iditarod Trail Sled Dog Race, la più famosa gara di slitte trainate da cani, che finirà tra qualche giorno a Nome, dopo oltre 1.600 chilometri. Presentata dagli organizzatori come “l’ultima grande corsa” al mondo e descritta come “il Super Bowl dell’Alaska”, l’Iditarod percorre la tundra, passa sopra fiumi ghiacciati e supera una catena montuosa, con temperature che vanno ampiamente sotto lo zero.
L’Iditarod è una competizione estrema: per i cani ma anche per i musher, i guidatori delle slitte; una gara con profondi legami con la cultura dei luoghi che attraversa. Ma è anche un evento controverso, che è cambiato molto nel tempo e il cui futuro è sempre più incerto: c’entrano la pandemia e la crisi climatica ma ancora di più l’inflazione, la carenza di sponsor e quel che sembra essere un interesse sempre minore, anzitutto da parte dei musher, che non erano mai stati così pochi come quest’anno. Nel 1973, anno della prima edizione, furono 34 e negli ultimi cinquant’anni la media è stata di 63 partecipanti, con un picco di 96 per quella del 2008. Perfino nel 2021, anno di un’edizione ridotta e parecchio complicata dalla pandemia, c’erano 46 musher al via.
Nel parlare dell’origine dell’Iditarod si cita spesso la storia vera, poi romanzata nel film d’animazione Balto, di quando nel 1925 si organizzò una staffetta di slitte trainate da cani per portare a Nome, una città sulle sponde del Mare di Bering, i medicinali per contrastare un’epidemia di difterite. Nome fu fondata a inizio Novecento, quando finì al centro di una delle tante “febbri dell’oro” di quel periodo, e ancora oggi è abitata da qualche migliaio di persone.
La staffetta, anche nota come “Corsa del siero”, è senz’altro un mito fondativo per l’Iditarod, la cui nascita negli anni Settanta è però legata soprattutto alla volontà di preservare l’antica tradizione del mushing in un periodo in cui i cani da slitta già iniziavano a subire la concorrenza delle motoslitte e dei gatti delle nevi.
L’idea della gara, già vintage alla sua prima edizione, fu di un comitato, guidato da persone non dell’Alaska, che si occupava di studiare e mantenere le tradizioni dell’area. Si chiama così per l’Iditarod Trail, un percorso che prende il nome da un fiume, che a sua volta dava il nome a una piccola “città dell’oro” abbandonata da quasi un secolo.
Negli ultimi anni l’Iditarod è cambiata parecchio. I partecipanti gareggiano con indumenti tecnici spesso forniti dagli sponsor personali e hanno nel curriculum la partecipazione a diverse altre gare simili, anche se su distanze più brevi. La loro posizione lungo le quasi mille miglia di percorso si può seguire via GPS, i partecipanti posso usare i telefoni e sapere che tempo farà o che tattiche stanno usando gli avversari.
La prima Iditarod fu vinta dopo quasi venti giorni di gara, con un musher su tre che si ritirò lungo il percorso; il record di velocità, fatto nel 2017, è di poco più di otto giorni. Il percorso è per la gran parte uguale, ma sono cambiati la sua percorribilità, la preparazione dei musher e anche quella dei cani, spesso allevati apposta per la gara.
Resta tuttavia una gara molto provante, da preparare con estrema cura e durante la quale le difficoltà sono tante. Per arrivare dal golfo dell’Alaska al Mare di Bering si può incorrere infatti in animali selvatici e problemi di vario genere, molti dei quali dovuti al freddo, che spesso è ancora molto intenso nonostante il riscaldamento globale.
In quanto gara, l’Iditarod è semplicissima nelle sue premesse: si parte tutti quanti più o meno insieme e vince il primo che arriva al traguardo finale. Lungo il percorso ci sono punti di passaggio obbligatori ma per il resto i musher (il cui nome deriva da un comando che in genere si dava ai cani per dire loro di partire) sono liberi di gestire come preferiscono tempi e spostamenti. Sono però obbligati a fare almeno una sosta di 24 ore e due soste di 8 ore: per loro (molti hanno parlato di allucinazioni avute durante la gara) ma soprattutto per far riposare i cani.
Nei primi giorni di gara una delle notizie più lette sull’Anchorage Daily News, che all’Iditarod dedica una newsletter quotidiana, riguarda «l’audace mossa» del musher Nicolas Petit che ha fatto le sue 24 ore a Nikolai, quindi a inizio percorso.
Altre regole riguardano le slitte, gli oggetti che ogni musher deve sempre avere con sé (tra le altre cose: un’ascia), cosa fare dopo che, per difesa, si è eventualmente ucciso un alce, un bufalo o un caribù e tutto ciò che riguarda il prendersi cura, anche in situazioni di emergenza, dei cani, che comunque vengono controllati da decine di veterinari lungo il percorso. Sempre ai punti di controllo si possono lasciare i cani che non possono o non si vogliono far proseguire. I cani non possono essere sostituiti e per finire l’Iditarod bisogna arrivare a Nome con almeno cinque cani.
Quest’anno, più che per la gara in sé, l’Iditarod si è fatta notare, prima in Alaska e poi anche altrove, per i tanti problemi, alcuni recenti e altri ormai decennali, gli stessi per cui c’è chi pensa possa essere l’inizio della sua fine.
Il primo problema riguarda la crisi climatica: si corre infatti su un percorso che passa su acqua ghiacciata, che non può quindi prescindere dal freddo. Per carenza di neve, negli ultimi vent’anni la partenza è stata spostata per tre volte di circa 130 chilometri più a nord, una cosa che ci si aspetta accadrà con sempre maggior frequenza.
Nel suo articolo sul transito da uno dei primi passaggi, Alaska Public Media ha raccontato di temperature di un paio di gradi sopra lo zero (quindi insolitamente alte per quel periodo e quelle latitudini), ha parlato con musher che hanno detto di sentire caldo e spiegato che anche la maggior parte dei cani preferisce temperature più rigide. Il podcast Iditapod ha dedicato un episodio ai “dog days” (in inglese sono “i giorni della canicola”), in cui il caldo ha scombussolato i piani di molti musher.
Ci sono poi questioni economiche. In breve: partecipare costa sempre di più. Solo per iscriversi si pagano, a seconda di quando lo si fa, quattromila o ottomila dollari, a cui si aggiungono le spese di viaggio verso la partenza e tutte quelle per sostentare per almeno una settimana se stessi e una dozzina di cani, che secondo certe stime durante l’Iditarod arrivano a bruciare fino a diecimila calorie al giorno.
Alcuni musher – che prima della partenza preparano e spediscono rifornimenti per sé e per i cani verso punti previsti del percorso – parlano di investimenti annuali perfino superiori ai 250mila dollari, peraltro appesantiti dall’inflazione, che per esempio ha fatto crescere parecchio il prezzo del cibo per i cani. C’entra anche la carenza di salmone, spesso usato da molti allevamenti dell’Alaska perché meno caro. A tutti i costi relativi alla gara in sé si aggiungono inoltre quelli legati al sostentamento o all’acquisto, da allevatori appositi, dei cani a cui far trainare la propria slitta.
Nel 2020 Fabio Berlusconi è stato il quinto e per ora ultimo italiano a fare l’Iditarod. Ci arrivò dopo che nel 2011 era finito a lavorare in Svezia con i cani da slitta, pratica a cui si appassionò fin da subito. Berlusconi, che finì la sua gara in poco meno di due settimane e arrivò a Nome insieme a dieci dei quattordici cani con cui era partito, racconta che nel suo caso i costi totali furono di circa 25mila euro, compresi i voli dalla Scandinavia e i mesi passati in Alaska a familiarizzare coi cani e a fare le gare preliminari necessarie a qualificarsi all’Iditarod.
Nel suo caso, come succede a molti musher che arrivano dall’estero, corse con un cosiddetto “team b”, un gruppo di cani giovani, che così come lui erano al debutto all’Iditarod. Da esperto conoscitore di cani da slitta, il suo ruolo consisteva nel partire da venti cani per poi scegliere, nelle settimane prima della gara, con quali fare l’Iditarod; per poi riconsegnarli al padrone. È tuttavia molto facile, spiega Berlusconi, spendere molto più di lui: chi gareggia per vincere può investire in più provviste, migliori pezzi di ricambio e slitte più agili e leggere da usare negli ultimi giorni di gara (ai punti di passaggio l’Iditarod permette infatti di cambiare fino a tre slitte).
In passato molti partecipanti all’Iditarod e ad altre gare di slitte trainate da cani riuscivano ad avere maggiori guadagni dalle loro attività, spesso legate al turismo, mentre adesso devono ancora riprendersi dalle conseguenze della pandemia. L’Iditarod, il cui premio finale per il vincitore è di circa 50mila dollari, raramente veniva corsa per profitto, ma quest’anno sembra che molti musher proprio non siano riusciti a far quadrare i conti anche solo per potersi permettere di correrla per passione.
Da parte sua, nemmeno l’Iditarod – una corsa con costi di organizzazione di almeno un paio di milioni di dollari – sembra avere grandi fondi a disposizione, soprattutto in conseguenza del fatto che molti suoi importanti sponsor del passato (come Coca-Cola, ExxonMobil e Alaska Airlines) negli ultimi anni abbiano smesso di investirci e siano stati rimpiazzati da altri meno noti e presumibilmente meno remunerativi.
Non ci sono evidenze concrete, e l’organizzazione tende a negarlo, ma spesso si associa la rinuncia di certi sponsor con le criticità dovute al legarsi a un evento osteggiato da alcune associazioni animaliste e in particolar modo dalla PETA, un’organizzazione non profit statunitense che si occupa — spesso in modo aggressivo e controverso — dei diritti degli animali. Come sua abitudine, anche quest’anno la PETA (acronimo di People for the Ethical Treatment of Animals) ha comprato intere pagine nei giornali locali per chiedere la cancellazione dell’Iditarod. Di recente ha anche criticato Liberty Media, la società proprietaria della Formula 1, per il supporto economico, quantificabile in poco più di 200mila dollari, che una sua società controllata fornisce all’Iditarod.
La PETA cita stime, non confermate dall’Iditarod, che parlano di circa 150 cani morti nella storia della gara, anche se negli ultimi anni è sempre più raro che succeda. Oltre a prendere maggiori precauzioni per controllare e preservare la salute degli animali, gli organizzatori sostengono peraltro di contribuire a preservare la rilevanza culturale e quindi la sopravvivenza di certi cani selezionati nei secoli appositamente per trainare slitte.
Il fatto che certi cani vengano lasciati ai veterinari dei punti di controllo (e poi riportati all’arrivo) è dovuto talvolta a infortuni, ma anche a scelte dei musher che, soprattutto negli ultimi giorni di gara, preferiscono far trainare la slitta ai cani più in forma.
I cani più usati sono quasi sempre Alaskan husky, tutti selezionati per resistere al freddo e poter correre per ore (ma c’è anche chi fece l’Iditarod con una slitta trainata da cani di razza barbone). Tutti i cani (solo quest’anno alla partenza ce n’erano oltre 300) sono scelti, controllati e trattati con cura e indossano appositi coprizampe e altri accessori per contrastare il freddo. Nella composizione di ogni gruppo sono importanti le posizioni (quelle da capofila sono evidentemente le più importanti) e anche l’esperienza di ognuno di essi: si dà per esempio grande importanza a quanti “veterani” o a quanti “debuttanti” ci sono a tirare ogni slitta, o a come certi cani potrebbero reagire a un determinato trattamento riservato ai compagni di slitta.
Anche all’Iditarod il doping – dei cani – è un grande tema. L’organizzazione fa controlli da anni e a parte un caso nel 2017, di cui si occupò perfino il New York Times e che finì senza condanne, in genere non si trova granché. E forse è proprio questo il problema. Come ha detto a GQ Craig Medred, giornalista che segue la corsa da decenni e che è molto critico verso la strada che ha preso negli ultimi anni, «quando hai da anni un programma antidoping e non ci sono mai casi di positività, c’è qualcosa che non funziona». Sempre a GQ, un ex partecipante ha detto che è «ingenuo» pensare che all’Iditarod non ci sia il doping.
Un altro fattore citato per motivare i pochi musher all’Iditarod di quest’anno ha a che fare con un semplice ricambio generale. Tanti musher partecipano a molte edizioni (nella storia dell’Iditarod i partenti sono stati più di 800, per 24 vincitori) e quest’anno, semplicemente, tanti hanno scelto di prendersi una pausa, senza avere i sostituti.
Il grande assente di quest’anno è per esempio Martin Buser, che non se ne perdeva una dal 1986; ed è anche notevole che non ci sia nemmeno un musher della famiglia Seavey, quasi sempre presente nella storia dell’Iditarod con almeno un suo componente. Dallas Seavey, il più giovane esponente della famiglia, ha vinto cinque edizioni, la prima delle quali quando aveva 25 anni e fu lui che finì al centro del controverso caso di doping canino al termine del quale fu però scagionato.
Oltre a essere quella con meno partecipanti, questa Iditarod è anche quella con meno debuttanti – nove in tutto – e una di quelle con meno persone originarie dell’Alaska. La maggior presenza di partecipanti dai “lower 48” (cioè i 48 inferiori, un termine con cui in Alaska si fa spesso riferimento a tutti gli altri stati degli Stati Uniti d’America) e perfino di altri continenti (quest’anno ci sono un australiano e un sudafricano) è secondo certi critici un altro grande problema dell’Iditarod.
In una recente e parecchio approfondita analisi sulle evoluzioni storiche della corsa, Medred ha individuato negli anni Ottanta – quando peraltro arrivò la prima vittoria di una musher donna – un punto di svolta dell’Iditarod, che crebbe in popolarità e portò alla creazione di diverse corse che provavano a emularne i successi, tra le altre l’Alpirod, una corsa per cani da slitta sulle Alpi, che non si fa più da anni. Secondo Medred la corsa è nata come «una sfida di uomini e cani contro il freddo, il vento e la natura selvaggia e diventata una Formula 1 per cani», una gara sempre più per ricchi e sempre meno per veri appassionati, che non partecipavano per vincere e che in certi casi ci mettevano quasi un intero mese per arrivare al traguardo.
Berlusconi dice che già da qualche anno c’è una netta differenza tra «i primi quindici-venti che fanno l’Iditarod per vincerla» e chi la vive come sfida più personale. A proposito di ricambio generazionale, Berlusconi parla anche di una «vecchia guardia» in disaccordo con un’organizzazione che sta cercando di «svecchiare» l’Iditarod agli occhi di chi vive fuori dall’Alaska, dove continua a essere un evento molto sentito e seguito.
Tuttavia non per forza di cose i pochi partenti sono un problema. Significa centinaia di cani in meno, una logistica più semplice e un racconto probabilmente più efficace. Sempre Medred ricorda però che già esiste, e con un certo seguito, l’Iron Dog, una gara lungo l’Iditarod Trail che si corre con le motoslitte. Sempre in tema di sfide estreme, c’è anche chi quello stesso percorso lo fa a piedi, sugli sci o in bici.
C’è inoltre chi fa notare che in questa stessa stagione non sono diminuiti gli iscritti a gare simili ma meno lunghe, costose e famose, e Berlusconi ricorda che sembra passarsela piuttosto bene anche la norvegese Finnmarksløpet, la più importante gara europea per slitte trainate da cani. È invece in difficoltà l’altra grande rivale dell’Iditarod: la Yukon Quest, da molti considerata perfino più estrema e provante.
Esistono, in altre parole, gare con i cani che non sono l’Iditarod, così come esistono gare come l’Iditarod però senza cani, tutte in qualche modo ispirate alla fama che l’Iditarod si è guadagnata negli ultimi cinquant’anni, ma che non sembra avere ben chiaro cosa deve diventare, o tornare a essere, per poter resistere nei prossimi cinquanta.
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