Alla fine sui migranti non cambierà quasi niente
Il governo ha introdotto nuovi ostacoli per le persone che cercano di arrivare via mare, e nessun vero canale legale di ingresso
Nei giorni scorsi, dopo il grave naufragio di migranti a Cutro, in Calabria, il governo di destra guidato da Giorgia Meloni aveva annunciato nuove misure che a suo dire avrebbero dovuto impedire il ripetersi di naufragi simili. Meloni aveva anticipato che le nuove misure avrebbero riguardato sia l’ampliamento di possibilità per i migranti che intendono trasferirsi in Italia per lavoro, sia un inasprimento delle pene per le persone coinvolte nel traffico di esseri umani verso l’Italia.
Giovedì il Consiglio dei ministri, che eccezionalmente si è riunito a Cutro, ha approvato un decreto-legge quasi interamente dedicato all’immigrazione. Le promesse di Meloni sono state disattese: le misure contenute nel decreto che appartengono alla prima categoria, cioè a un ampliamento delle possibilità per chi vuole trasferirsi in Italia, sono state in realtà poche e di portata ridotta. Gran parte del decreto ha previsto invece misure piuttosto severe, come la creazione di nuovi reati e pene fino a 30 anni di carcere per cercare di impedire che le persone arrivino in Italia irregolarmente via mare, e alcune misure per rendere più complesso rimanere in Italia per chi riesce ad arrivarci.
L’approccio adottato dal governo non è stato insomma nulla di nuovo rispetto a quello seguito negli ultimi anni da tutti i governi, pur con qualche sfumatura.
Nel decreto è stato inserito poco o nulla sull’apertura di canali regolari, giudicati da molti esperti di immigrazione come l’unico modo per ridurre gli arrivi irregolari via mare. Sono state incluse invece diverse misure che sulla carta appaiono assai severe, ma che concretamente sembrano servire a poco; e nuove restrizioni delle garanzie per i migranti e i richiedenti asilo che riescono ad arrivare in Italia, nella speranza che si diffonda la notizia nei paesi di partenza che le condizioni offerte dall’Italia non valgano i rischi del viaggio (una dinamica che finora non sembra essere mai esistita).
Nella sintesi del decreto diffusa dal governo – il testo ufficiale non è ancora stato reso noto – l’allargamento delle possibilità per trasferirsi in Italia è rimasto minimo. Si dice per esempio che il cosiddetto “decreto flussi”, cioè la legge annuale che permette l’ingresso in Italia ad alcune categorie di lavoratori stranieri, sarà valido per tre anni e non uno solo: ma non è chiaro per esempio se la quota annuale verrà aumentata.
Il decreto flussi rimane comunque una misura imperfetta e molto criticata anche dalle aziende dei settori più coinvolti. La trafila burocratica per regolarizzare una persona è tortuosissima, le quote sono sempre inferiori rispetto a quelle chieste dalle aziende, e in più ci sono delle storture storiche mai risolte. In base alla cosiddetta legge “Bossi-Fini” del 2002 possono entrare in Italia soltanto lavoratori stranieri che hanno già ricevuto un’offerta di lavoro da un’azienda. Se un’azienda agricola ha bisogno di dieci braccianti per la stagione estiva, insomma, la Bossi-Fini e il decreto flussi prevedono che debba già sapere chi assumere: per un’azienda è difficile assumere persone “al buio”, così spesso succede che si regolarizzino persone che si trovano già in Italia in nero, perché magari hanno già lavorato in quell’azienda o perché hanno buone referenze di colleghi.
Il decreto del governo Meloni non contiene soluzioni strutturali per questi problemi. Nella sintesi poi si legge di altre misure relative al decreto flussi, come per esempio una corsia preferenziale per i lavoratori provenienti da paesi «che promuovono per i propri cittadini campagne mediatiche sui rischi per l’incolumità personale derivanti dall’inserimento in traffici migratori irregolari». Si parla genericamente anche di ingressi speciali per «stranieri che hanno superato, nel paese di origine, i corsi di formazione riconosciuti dall’Italia».
Già oggi, però, esistono molti di questi corsi: e a volte non vengono riconosciuti per mancanze dello Stato italiano, e non del paese di provenienza. Sui 69mila permessi accordati nel decreto flussi del 2022 i lavoratori entrati regolarmente in Italia sono stati poco più di 50mila. Come per l’ormai famigerata storia dei ritardi nel rilascio di carte di identità e passaporti, i siti specializzati danno la colpa alle lentezze delle prefetture, che in molti casi non hanno fornito i documenti necessari per entrare in Italia a persone che avevano seguito corsi di lingua italiana e di formazione specifica.
Il pezzo più importante del nuovo decreto, su cui Meloni ha insistito molto nella conferenza stampa tenuta a Cutro, riguarda invece la creazione di un nuovo reato per «morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina». Prevede dai 20 ai 30 anni di carcere per naufragi in cui muoiono più persone e dovrebbe riguardare i cosiddetti “scafisti”, cioè le persone che guidano le imbarcazioni su cui arrivano migranti e richiedenti asilo via mare.
Spesso però gli scafisti sono persone che in realtà c’entrano poco o nulla con i gruppi criminali che organizzano i viaggi: negli ultimi anni l’Italia ha arrestato centinaia di scafisti, senza per questo arrivare ai trafficanti veri e propri, che invece non partecipano ai viaggi e vivono in paesi con cui l’Italia non ha grandi rapporti di collaborazione sul contrasto alla criminalità organizzata. Pene piuttosto alte per i cosiddetti scafisti sono già presenti da anni nella legislazione italiana.
Meloni ha anche annunciato che il governo intende perseguire il nuovo reato di «morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina» anche al di fuori del territorio italiano, per esempio nelle acque internazionali: ci sono molti dubbi sul fatto che si possa effettivamente fare.
Infine il decreto prevede un peggioramento delle condizioni per chi riesce ad arrivare in Italia via mare: saranno snellite le procedure per realizzare nuovi centri di permanenza per i rimpatri (CPR), cioè i centri di detenzione per le persone che non hanno un permesso di soggiorno valido per rimanere in Italia. Il governo ha fatto sapere di volerne costruire uno in ogni regione (oggi sono una decina). Ormai da anni i CPR vengono criticati dalle associazioni che si occupano di diritti umani per le condizioni disumane e degradanti in cui vengono ospitati i detenuti. Furono aperti nel 2016 dal ministro dell’Interno Marco Minniti per sostituire i vecchi CIE.
Infine il governo ha annunciato la revoca del permesso di soggiorno per protezione speciale, introdotto nel 2020 dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese per ripristinare un permesso di soggiorno simile a quello per ragioni umanitarie, cancellato da Salvini nel 2018 quando era ministro dell’Interno nel primo governo Conte. Viene garantito a persone che rischiano di essere perseguite per la loro etnia o religione nel paese di provenienza, quindi ha criteri più laschi rispetto alle altre forme di asilo. Nel 2021 l’hanno ottenuta 6.329 persone su un totale di 23.197 che hanno ricevuto una forma di protezione internazionale.
Secondo Maurizio Ambrosini, che insegna Sociologia delle migrazioni all’università Statale di Milano, la protezione speciale «era un’opportunità per tutelare chi, pur non avendo ottenuto il riconoscimento come rifugiato, aveva compiuto dei passi verso l’integrazione sociale, per esempio avendo imparato l’italiano e trovato un lavoro. Ricacciarlo nell’ombra, ossia in mezzo a una strada, sarà un dramma per lui e un problema per tutti». Non è chiaro perché il governo voglia cancellarla: nella conferenza stampa Meloni ha semplicemente detto che si era «allargata a dismisura», cioè forse era stata garantita a numero di persone superiore a quello che il governo ritiene accettabile.