A che punto è il processo per l’omicidio di Giulio Regeni
È tutto fermo perché non si possono notificare gli atti agli imputati, Meloni e Tajani non testimonieranno
La scorsa settimana c’è stata una novità nella vicenda processuale che riguarda l’omicidio di Giulio Regeni, il ricercatore italiano di 28 anni trovato morto al Cairo, in Egitto, il 3 febbraio 2016, nelle vicinanze di una prigione dei servizi segreti egiziani. Era previsto che la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, si presentassero davanti al giudice per l’udienza preliminare (gup) Roberto Ranazzi, ma l’Avvocatura dello Stato, l’organo che rappresenta le amministrazioni statali in tutti i giudizi penali, ha deciso che le testimonianze di Meloni e Tajani non possono avvenire.
Ranazzi sta tentando senza successo di avviare il processo ai quattro agenti dei servizi segreti egiziani sospettati delle torture e dell’omicidio di Regeni. Meloni e Tajani avrebbero dovuto comparire davanti al gip il 3 aprile per spiegare nel merito le rassicurazioni che avrebbero ricevuto dal presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, il quale avrebbe detto a Meloni e Tajani che l’Egitto è disposto a collaborare per la risoluzione del caso. Il motivo per cui il processo è bloccato è che il tribunale italiano non sa dove si trovano i quattro indagati, e senza la notifica degli atti processuali agli imputati il processo non può avvenire. Le autorità del Cairo non hanno mai fornito a quelle italiane le informazioni necessarie per rintracciarli.
Prima di arrivare a questo punto, però, la vicenda giudiziaria ha attraversato un iter piuttosto lungo, iniziato poco tempo dopo la morte di Regeni con le indagini della procura di Roma.
Giulio Regeni fu sequestrato al Cairo il 25 gennaio 2016. Da allora è sempre stato molto complicato ottenere informazioni su quello che realmente accadde, sia per le autorità italiane sia per la famiglia di Regeni. Il suo corpo venne trovato una settimana dopo in una strada alla periferia della capitale egiziana, pieno di abrasioni e contusioni e con varie fratture, anche a tutte le dita delle mani e dei piedi. Aveva inoltre molti segni di bruciature di sigarette e di coltellate, anche sotto la pianta dei piedi.
Le autorità egiziane parlarono prima di un incidente stradale, poi di un omicidio avvenuto nel corso di una relazione omosessuale e infine di un regolamento di conti tra trafficanti di droga. Il 24 marzo 2016, durante una sparatoria, la polizia egiziana uccise quattro uomini che secondo la polizia stessa erano gli assassini di Regeni, appartenenti a una banda specializzata nel rapimento di stranieri. Sul luogo venne trovata anche una borsa con dentro oggetti di proprietà di Regeni.
Tuttavia in seguito fu la stessa procura del Cairo a escludere si trattasse degli assassini di Regeni: dai tabulati telefonici risultava che uno di loro fosse a 100 chilometri dal Cairo nei giorni della scomparsa di Regeni.
Secondo la procura di Roma il depistaggio della borsa e della sparatoria fu inscenato dai servizi segreti egiziani. E sempre secondo la procura Regeni, che si trovava in Egitto per svolgere una ricerca sui sindacati di base egiziani per conto dell’Università di Cambridge, venne torturato e ucciso perché ritenuto una spia. A denunciarlo sarebbe stato Mohamed Abdallah, leader del sindacato degli ambulanti, che Regeni aveva incontrato per una ricerca. Abdallah avrebbe denunciato il ricercatore italiano alla polizia di Giza, una città a circa 20 chilometri dal Cairo, il 6 gennaio, seguendolo poi fino al 22 gennaio, tre giorni prima della scomparsa, e comunicando alla polizia tutti i movimenti del ricercatore.
Senza nessuna collaborazione da parte delle autorità egiziane, le indagini preliminari della procura di Roma si chiusero nel dicembre del 2020. Nel maggio del 2021 vennero rinviati a giudizio quattro ufficiali dei servizi egiziani, il generale Tariq Sabir, i colonnelli Athar Kamel e Usham Helmi, e il maggiore Magdi Sharif. I reati contestati sono sequestro di persona pluriaggravato, concorso in lesioni personali gravissime e omicidio. Non è stato contestato il reato di tortura perché introdotto nel codice penale italiano solo nel 2017, dopo la morte di Regeni.
Il governo egiziano ha sempre sostenuto di non aver fornito nessuna copertura agli indagati, ma non ha mai fornito gli indirizzi dei quattro imputati, bloccando di fatto l’iter processuale.
Infatti sia la Corte d’Assise di Roma sia la Corte di Cassazione hanno stabilito che senza la notifica agli imputati il processo non può svolgersi. La comunicazione del rinvio a giudizio a un imputato è un passaggio formale ma anche sostanziale di un processo: l’imputato, per potersi difendere, deve essere a conoscenza del fatto di essere accusato. Secondo il gup però si può ragionevolmente ritenere che i quattro ufficiali siano al corrente dei procedimenti a loro carico, perché la notorietà del caso si potrebbe considerare già di per sé una notifica. La Corte d’Assise e poi la Cassazione hanno ritenuto diversamente.
Negli anni ci sono stati anche altri tentativi di ostruzionismo da parte delle autorità egiziane, per esempio negando le rogatorie (le richieste di uno Stato a un altro di compiere atti investigativi, come per esempio un interrogatorio) del pubblico ministero e quelle del giudice, e non sono mai serviti a nulla gli interventi del governo italiano.
Il 7 novembre del 2022 al Sisi aveva incontrato prima Giorgia Meloni a Sharm el Sheikh, in occasione della Conferenza internazionale sul clima Cop27, e poi Tajani, al Cairo. Al ritorno dall’Egitto, Tajani aveva detto: «Sia il presidente sia il ministro degli Esteri mi hanno assicurato la volontà dell’Egitto di rimuovere gli ostacoli che possono creare problemi. Non c’è stata, devo dirlo agli italiani, nessuna reticenza da parte egiziana».
E qui arriviamo al punto della testimonianza di Tajani e Meloni davanti al gup, durante la quale avrebbero dovuto dire in cosa consisterebbe in termini concreti la volontà di “rimuovere gli ostacoli” espressa dal governo egiziano. L’intervento dell’Avvocatura dello Stato però ha reso impossibile la possibilità di un chiarimento.
La richiesta di ascoltare in aula Giorgia Meloni e Antonio Tajani in merito alle dichiarazioni di al Sisi era stata fatta da Alessandra Ballerini, legale dei genitori di Giulio Regeni, che aveva detto:
Alla luce delle dichiarazioni rese ai media dalla premier Giorgia Meloni e dal ministro degli Esteri Antonio Tajani circa le rassicurazioni, o addirittura sono state chiamate ‘promesse’, ricevute dal presidente Al Sisi che avrebbe garantito che risolverà la situazione eliminando gli ostacoli che ci impediscono di iniziare questo processo per il sequestro le torture e l’uccisione di Giulio, abbiamo chiesto di sentire la premier Meloni e il ministro degli Esteri per avere ragguagli su tempistiche e modalità di queste soluzioni
Il giudice aveva accolto la richiesta, ma l’Avvocatura dello Stato ha deciso che le testimonianze non possono avvenire perché «la divulgazione dei medesimi contenuti senza il consenso dello stato estero interessato potrebbe incidere sulla credibilità nella comunità internazionale». In pratica, sostiene l’Avvocatura dello Stato, il contenuto dei colloqui tra al Sisi, Meloni e Tajani non può essere divulgato e «il segreto non può essere violato».
Il comunicato dell’Avvocatura dello Stato dice che «il contenuto dei colloqui si inscrive nell’abito delle relazioni di politica internazionale e riguarda quindi l’attività svolta nell’esercizio di una delle più rilevanti prerogative dell’azione di governo, nella sua più specifica accezione di politica estera». Perciò «i contenuti dei colloqui, bilaterali o plurilaterali, fra i rappresentanti di governo non possono essere divulgati se non attraverso comunicati congiunti e condivisi».
La posizione dell’Avvocatura dello Stato è sorprendente anche perché la presidenza del Consiglio e la stessa Avvocatura si sono costituiti parte civile nel processo per l’omicidio Regeni: «L’aver violato la vita, l’integrità psicofisica e delle libertà dei cittadini italiani all’estero, ha leso l’immagine e il prestigio dello Stato italiano nella sua funzione di protezione dei propri cittadini all’estero», venne comunicato nel momento in cui la presidenza del Consiglio si costituì parte civile. È stato anche chiesto un milione di euro di risarcimento al governo egiziano.
Parlando con Repubblica, i genitori di Regeni hanno detto: «Addirittura hanno chiesto un risarcimento per la perdita di nostro figlio. E poi depositano a nostra insaputa una nota che, di fatto, impone al giudice di revocare la decisione di convocare Tajani e Meloni rischiando così di bloccare il processo. Chi aveva detto quindi che avrebbe combattuto al nostro fianco in realtà ci vuole impedire di avere un processo e quindi di avere giustizia. Questo ci addolora molto».
Il processo resta quindi bloccato, nonostante le rassicurazioni del governo sulla presunta collaborazione delle autorità egiziane. In un’intervista televisiva a Diario del giorno, su Rete 4, il ministro della Difesa Guido Crosetto lo scorso gennaio ha detto:
Penso ci sia la volontà dell’Egitto di cooperare al 100 per cento con l’Italia, perché c’è la necessità delle due nazioni di parlarsi […]. Si rendono conto, le autorità egiziane, che il tema Regeni è un tema importante per il governo italiano e per l’Italia, e quindi hanno tutto l’interesse e la volontà a darci risposte chiare, serie, nel tempo più veloce possibile.
I genitori di Regeni, Paola e Claudio Regeni, hanno detto che si aspettano un incontro con Meloni fuori dalle aule di giustizia, per dare le risposte che non ha potuto dare al gup: «È un passaggio necessario per arrivare alla verità sulla morte di Giulio. Ed è quello che ci stanno chiedendo moltissimi cittadini in queste settimane, mostrandoci come al solito la loro vicinanza e solidarietà».