Le proteste in Israele sono una cosa mai vista
Durano da oltre due mesi, coinvolgono settori inconsueti – persino i militari e il Mossad – e hanno complicato il viaggio di Benjamin Netanyahu in Italia
Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu incontrerà venerdì la presidente del Consiglio Giorgia Meloni a Roma, mentre a Tel Aviv e in altre città del paese è in corso la decima settimana consecutiva di proteste per la riforma giudiziaria proposta dal suo governo. Secondo i manifestanti e l’opposizione i progetti di Netanyahu rischiano di indebolire la democrazia israeliana – se non addirittura comprometterla – e le proteste non hanno precedenti per coinvolgimento, forza e durata: è il più grande movimento di contestazione della storia di Israele.
Le manifestazioni hanno coinvolto varie città durante gli ultimi mesi, hanno portato in piazza anche centinaia di migliaia di persone e al momento non sembrano diminuire di intensità. La protesta ha coinvolto settori della popolazione anche molto distanti fra loro: oltre ai più consueti movimenti anti-occupazione dei territori palestinesi, ambientalisti, femministi e per i diritti LGBTQ+, si sono mossi settori che in passato raramente avevano preso una chiara posizione politica o partecipato a manifestazioni. Giovedì hanno manifestato i lavoratori delle imprese dell’alta tecnologia (un settore in grande crescita nel paese) mentre nei giorni scorsi era toccato a economisti, medici e persino militari esprimere il proprio dissenso rispetto alle politiche del governo Netanyahu, formato negli ultimi giorni del 2022 con la coalizione più di destra della storia di Israele.
È stata particolarmente significativa l’adesione alle proteste di alcuni riservisti dell’esercito, fra cui 37 piloti di caccia che si sono astenuti dagli addestramenti dell’aeronautica militare previsti per mercoledì. I riservisti sono una parte importante dell’esercito israeliano: sono spesso chiamati a svolgere compiti militari, anche per due mesi l’anno, anche in tempo di pace. L’adesione alla protesta dei militari, normalmente lontani da dispute politiche e per lo più filo-governativi, è stata considerata senza precedenti; lo stesso vale per i dipendenti senza funzioni di responsabilità del Mossad, il servizio segreto israeliano, che sono stati autorizzati dall’agenzia a unirsi alle manifestazioni.
Le rivendicazioni dei manifestanti sono molte, ma il tema che ha portato alla mobilitazione più massiccia è la riforma degli equilibri fra i poteri dello stato. La legge più contestata riguarda la Corte Suprema, che ha un ruolo eccezionalmente importante nella vita politica del paese: Israele non ha una costituzione (pur avendo una serie di Leggi fondamentali che sanciscono i diritti individuali e le relazioni tra cittadini e stato) e ha relativamente pochi contrappesi al potere del governo in carica. Finora è stata la Corte Suprema a svolgere questo ruolo, con la possibilità di abolire qualunque legge approvata dalla Knesset, cioè il parlamento israeliano, sulla base della cosiddetta “clausola di ragionevolezza”: se i giudici della Corte suprema ritengono che un provvedimento amministrativo sia in qualche modo “irragionevole”, lo possono abolire senza che il parlamento possa fare niente per intervenire.
La riforma, promossa dal governo Netanyahu pochi giorni dopo essere entrato in carica, prevede che il parlamento con un voto a maggioranza semplice possa annullare la sentenza della Corte Suprema, spostando il controllo finale proprio alle forze politiche di governo. La nuova legge prevede inoltre una modifica del metodo di nomina della Corte, affidandola di fatto al potere politico. Il governo giustifica la riforma con la volontà di ridurre il potere eccessivo di giudici non eletti, ma secondo i molti critici il nuovo assetto lascerebbe poteri quasi assoluti alla coalizione di governo e al suo primo ministro, tanto da mettere in discussione la stessa definizione di Israele come una democrazia compiuta.
– Leggi anche: La riforma della giustizia in Israele, spiegata
Altre leggi attualmente in discussione in sede parlamentare prevedono che le condanne per corruzione non siano un ostacolo decisivo all’assunzione di cariche ministeriali e che i poteri del primo ministro non possano essere sospesi se non per motivi di salute. Queste riforme sono secondo i critici ancora più specificatamente pensate per salvaguardare il futuro di Netanyahu, implicato in più di un processo per corruzione.
La mobilitazione in Israele è stata massiccia: i dimostranti hanno ripetutamente bloccato importanti strade delle maggiori città e negli ultimi giorni la polizia ha risposto con granate stordenti e idranti per disperdere la folla. Giovedì i manifestanti hanno bloccato per alcune ore l’accesso all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, dove era previsto un incontro fra Netanyahu, il ministro della Difesa Yoav Gallant e il segretario alla Difesa americano Lloyd Austin; poi sono stati dispersi dalle forze dell’ordine senza particolari scontri (che erano invece avvenuti nel fine settimana) e compiendo 22 arresti. Il primo ministro ha dovuto quindi raggiungere l’aeroporto in elicottero, e da lì è partito per Roma.
Lo stesso viaggio ufficiale in Italia di Netanyahu è stato complicato dalle proteste: oltre 150 piloti della compagnia aerea El Al si sono rifiutati di prendere servizio per partecipare al viaggio, mentre in Italia l’interprete Olga Dalia Padoa, una traduttrice letteraria dall’ebraico, si è rifiutata di accompagnare Netanyahu al Tempio maggiore a Roma come le era stato proposto dall’ambasciata di Israele in Italia. In un post su Facebook ha spiegato così la sua scelta: «Non condivido le idee politiche di Netanyahu e le ritengo altamente pericolose riguardo al benessere e alla salvaguardia della democrazia nello stato d’Israele. (…) Non si collabora con chi promuove principi fascisti e liberticidi, non si fa e basta».
Sempre giovedì altri manifestanti, fra cui un ampio gruppo di riservisti, hanno bloccato l’accesso agli uffici di Gerusalemme del Kohelet Policy Forum, un centro studi conservatore e di destra che ha appoggiato la riforma. Le varie azioni di protesta hanno coinvolto anche il porto di Haifa, bloccato da una numerosa flotta di piccole imbarcazioni (anche semplici kayak) dell’organizzazione “Velisti per salvare la democrazia”.
La forza delle proteste e il possibile indebolimento della democrazia in Israele – da tempo già messa in discussione per via del trattamento dei palestinesi – sono state oggetto di dibattito anche nella comunità ebraica statunitense, che normalmente non prende posizioni nette sulla politica interna del paese: la Federazione ebraica del Nord America ha mandato una lettera aperta alle forze politiche di maggioranza e opposizione esprimendo la sua contrarietà alla riforma e chiedendo l’intervento del presidente israeliano Isaac Herzog.
Non è ancora chiaro quando saranno discusse e votate in aula le riforme contestate, ma i tempi potrebbero anche essere molto brevi: se non interverranno ripensamenti o compromessi, potrebbero passare entro i prossimi dieci-quindici giorni. Secondo Dahlia Scheindlin, editorialista del quotidiano israeliano Haaretz e collaboratrice del britannico Guardian, «Israele ha davanti un bivio: o le forze democratiche e la destra moderata fanno fronte comune con le opposizioni, salvando le istituzioni del paese e la sua collocazione internazionale, o il governo completerà il suo spostamento verso le forme di potere dei famosi amici di Netanyahu, l’ungherese Viktor Orban e i nuovi alleati autoritari nel Medio Oriente».