Una costellazione

«Sul frontespizio una mano sconosciuta aveva scritto, a matita: “dove sei tu vera? veramente?” Sotto e accanto c'era un elenco di parole, alcune con punti di domanda, e una suggestione cerchiata — “poesia!”. Prima dell'ultimo nome, Pessoa, compariva anche un'espressione cui seguivano ben sei punti di sospensione: “l'assurdo”»

Ferrovia tedesca (Tania Madaschi)
Ferrovia tedesca (Tania Madaschi)
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Il 27 luglio 2022 ho preso in biblioteca una copia di Gelo di Thomas Bernhard. Quella sera un temporale si agitava sopra Milano: lampi che spaccavano il cielo, grosse gocce battenti: la sera ideale per leggere. Ho iniziato il romanzo e dopo qualche pagina sono tornato al frontespizio, dove una mano sconosciuta aveva scritto, a matita:

dove sei tu vera?
veramente?

Sotto e accanto a queste parole c’era un elenco di parole, alcune contrassegnate da punti di domanda raccolti tra parentesi, oltre a una suggestione cerchiata — “poesia!”. Prima dell’ultimo nome, Pessoa, compariva anche un’espressione cui seguivano ben sei punti di sospensione: “l’assurdo”.

Con la sorpresa un po’ inquieta che simili coincidenze infondono, mi sono reso conto che molti di quei nomi non solo mi erano cari, ma erano stati oggetto di recente rilettura. Ho preso il taccuino e ho annotato: Costellazione. (Benjamin). Idea per saggio.

Di solito queste mezze idee si esauriscono in fretta, anche perché ho una diffidenza istintiva per le intuizioni serali, e invece nei giorni seguenti ho continuato a pensarci sopra.


1. Dove sei tu vera?

Lo spunto in sé era evidente: la traccia. Lasciamo più tracce di quanto pensiamo o vorremmo — migliaia di parole, vocali, immagini e video sopravvivono a chi le ha condivise. La nostra interiorità (opinioni volatili che un tempo avremmo espresso a voce) acquisisce una stabilità inaudita. Verba manent, spesso in forma di scripta.

Ma che rapporto abbiamo con tutto ciò? Poco tempo fa Massimo Mantellini ha parlato del “riaffermarsi di un’oralità torrenziale”, ponendo significativamente le interfacce come ChatGPT in relazione con essa. Tutto fa parte, osserva Mantellini, di una più generale crisi epistemologica; per cui il rischio principale dei bot è di “alienare la fatica del testo, di alzare una barriera fisica fra noi e il testo”.

Di fronte a tale spaesamento, i meno giovani — fra cui chi scrive, benché a quarantadue anni in Italia sia ancora un “giovane scrittore” — sognano talora un tempo più mite e rispettoso, in cui lasciavamo meno tracce. Comparivano appena su retro di scontrini smarriti, foglietti, angoli di giornale, pacchetti di sigarette, e ovviamente margini e paratesti di un libro.

Ecco, era questo ad attrarmi: la possibilità di maneggiare liberamente un testo di quel tipo, usando però i mezzi che la rete fornisce oggi. (E dopo aver deciso il titolo di questo articolo, lessi in Gelo una frase pronunciata in sogno dal narratore: “Esistono naturalmente delle costellazioni che proibiscono la vita”. Che fare di quest’altra piccola coincidenza? Niente, suppongo. Eppure ho provato un brivido, come se qualcosa fosse destinato a me e a me soltanto).

Certo i nomi elencati dalla mano sconosciuta destano inquietudine: dire qualcosa di sensato su ognuno appare una sfida impossibile. Dunque forse non porterà a molto; ma se non altro rileggere Pascal o Kafka ha offerto, come sempre, la testimonianza della mia pochezza, in un’epoca dove tutto congiura a farci credere più rilevanti di quanto siamo.

Infine, tre questioni di metodo.

Uno: non voglio fare congetture sulla lettrice o il lettore che ha preso appunti su Gelo: continuerò a parlarne con la locuzione “la mano sconosciuta”, poiché mi piace l’idea di un arto impersonale.

Due: qui di seguito riporterò nel nome di ogni capitolo il nome dello scrittore, pensatore o pittore così come la mano sconosciuta l’ha redatto, comprensivo di errori, diminuzioni e punteggiatura.

Tre: le osservazioni sono state scritte seguendo un ordine casuale, per lo più durante un viaggio in Nord Europa ma riviste nei mesi seguenti a Milano. L’idea era farsi sospingere dall’ebbrezza delle coincidenze ma senza smarrire la prudenza e lo studio: tracciare insomma una figura; disegnare una costellazione.

2. Schopenhauer
Più noto per il suo pessimismo radicale, Schopenhauer fu anche un convinto sostenitore dei diritti degli animali. In realtà i due aspetti sono strettamente connessi, e derivano da una profonda riscoperta dell’elemento corporale dopo secoli di astrazione: l’azione della Volontà è intuita attraverso le nostre membra, una sorta di sapere immediato e accessibile a chiunque.

In luogo della ragione disincarnata di Kant, Schopenhauer sembra echeggiare certe pagine di Tommaso Campanella: ecco un mondo tutto connesso, in un certo senso tutto vivo, il cui principio di crescita e lotta è comune ai cristalli come agli esseri umani.

Ma il risultato primario di tale conflitto universale è una quantità immensa di dolore. Pochi hanno avuto l’onestà di rendere manifesta la sofferenza che attraversa il cosmo, e di indicare una soluzione nella liberazione dalla volontà — in radicale opposizione al cristianesimo, il cui lessico è tutto peccato ed espiazione.

Ma la compassione invocata da Schopenhauer si estende anche ai corpi non umani. Come puntualizza ad esempio Sandra Shapshay nel suo recente Reconstructing Schopenhauer’s Ethics, per lui non vi sono distinzioni nette dal punto di vista valoriale ma solo differenze di grado: così gli animali rientrano a pieno titolo nella comunità degli esseri moralmente degni. E in un celebre passo, affermerà che chiunque eserciti crudeltà sugli animali non può essere un buon essere umano.

Sono vegetariano da molti anni e sto cercando di diventare vegano. Il tema del dolore animale si sta facendo strada, lentamente, nel dibattito pubblico; e mi appassiona sempre di più. Tuttavia Schopenhauer è prezioso per un motivo particolare: la sua schiettezza ci preclude il comodo rifugio del moralismo, perché la nostra stessa esistenza è comunque fonte di qualche dolore per gli altri. (Una verità che lo stesso Thomas Bernhard aveva ben presente). E chi si impegna in una lotta giusta può spesso dimenticarne altre, giuste nella stessa misura: conosco vegani totalmente ignari delle diseguaglianze sociali, e attivisti sociali che spregiano la questione animale come secondaria.

Il compito allora è di intendere con Schopenhauer la comune radice della sofferenza e del potere che esercitiamo sugli altri, in più forme. E il pessimismo, qui, funge da correttivo al delirio delle ideologie che sperano di cancellare ogni male e imporre a forza la redenzione. I nostri sforzi sono comunque limitati; ciò non implica che siano indegni.

Nyhavn, Copenhagen. (Tania Madaschi)

3. Pascal
In una breve nota di Inquisizioni, Borges ammette di non trovare nei Pensieri alcun contributo ai problemi che affrontano. Li vede invece come semplici “predicati del soggetto Pascal”: specchio di un uomo estremamente solitario, patetico nel denunciare il disordine dell’umanità e frivolo nel cercare di applicare la probabilità alla teologia. Questa opinione di Borges mi ha sempre sorpreso, e ogni volta ho cercato di confutarla rileggendo qualche pagina dei Pensieri. Anche stavolta ho cavato dallo scaffale la mia edizione; ma anche stavolta devo dare almeno in parte ragione all’argentino.

Un giovane dallo straordinario talento matematico, inviato da Richelieu a calcolare i tributi a Rouen e per questo costretto a ideare e costruire la prima macchina calcolatrice, cristiano di formazione ma non bigotto né, a quanto pare, fervente — un giovane ambizioso che via via sprofonda nel rigorismo giansenista; poi torna alla mondanità; e quindi si chiude a Port-Royal. Com’è accaduto?

Vocazione, certo. Sofferenza, ideale ascetico, sicuramente, e l’estasi conclusiva del 23 novembre 1654, da cui scaturì il Mémorial che cucì nel proprio giustacuore e fu ritrovato da un domestico dopo la sua morte: “Gioia, gioia, gioia, lacrime di gioia”, scrisse. Eppure i Pensieri sono pieni di disperazione. Lo splendido francese di Pascal ha tratti agonizzanti; la teologia è ridotta a un’attestazione di miseria, allo sgomento di fronte a un Deus absconditus e al cosmo infinito rivelato dalle nuove scienze; lo spazio per la letizia è quasi inesistente. Il dubbio iperbolico ha insidiato anche lui; e la contraddizione fra dignità del pensiero quale punto di integrità morale e la sua totale insignificanza traspare in ogni frammento: sorte tragica e paradossale, come la chiamò Cassirer.

Non è un caso allora che Pascal da un lato produca un argomento dal sapore iper-razionalista — meglio scommettere sulla vita eterna e dunque scegliere di credere in Dio, perché “se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla” — e dall’altro, con forza assai maggiore, affondi nel mistero di Gesù. Il suo duro misticismo sembra sconfessare la scommessa, insieme peraltro alla necessità di qualsiasi indagine sul mondo: conta solo l’anima, conta solo Dio. E ciò nonostante, la fiamma della fede non spegne la paura.

Lev Šestov suppose che i Pensieri siano stati trasmessi e siano ancora letti “come se fossero osservazioni inoffensive, fini e acute” perché nessuno crede a Pascal, nessuno può credervi davvero, e lui del resto non offre né indulgenza né consolazione: sceglie l’abisso e propone di vegliare. Sì: l’itinerario che nella modernità traccia Pascal condurrà allo scandalo del cristianesimo di Kierkegaard.

Resta da capire come possa leggerlo davvero una società talmente secolarizzata da scordare quanto sia impastata di lessico teologico; e talmente angosciata da essere sorda alla sincerità di chi la accusa. L’ascetismo di Pascal, la sua bruciante autocritica, non fanno per noi. La civiltà occidentale vede in ciò che resta di Dio solo una possibile fonte di soddisfazione per uno sconfinato egoismo. Lo preghiamo come preghiamo l’uomo forte affinché ci sollevi dalla miseria, ci redima dalla disperazione, ma senza pathos né responsabilità: senza coscienza della miseria stessa. “L’Io è odioso”, si legge nei Pensieri: difficile trovare una frase più inattuale.

(Naturalmente, Pascal è anche l’autore che il pittore protagonista di Gelo tiene sempre con sé).

4. Montaigne
“I difetti di Montaigne sono tanti”, annota Pascal. Dal punto di vista di un giansenista, certamente; ma per un laico, i Saggi sono ancora una delle opere più profonde e gradevoli della tradizione occidentale. La loro prosa gustosa, piacevolmente rapsodica, non dà mai l’impressione di istruire il lettore quanto di considerarlo un compagno di tavola, e la metafora può essere esplorata nel dettaglio: i Saggi sono la testimonianza di una mente onnivora, costantemente affamata, la cui intelligenza non è tuttavia mai priva di umorismo: tutto concorre a definire un’immagine di saggezza profonda ma amichevole.

Stoccolma (Tania Madaschi)

E questo è un problema, perché addomesticare Montaigne rischia di colmare indebitamente l’abisso che ci separa da lui. Per quanta universalità contengano le pagine dei Saggi, per quanto sia stupefacente che ci parlino ancora con tale schiettezza, è bene collocarli in un contesto e non avvicinarci a loro con troppa disinvoltura — una buona norma in generale con i classici.

Ciò detto, un aspetto particolarmente interessante dei Saggi è il rovesciarsi dello scetticismo in un’etica della libertà personale. Una volta liquidati tutti i fondamenti metafisici delle norme umane (quasi sempre assorbite per abitudine, chiarisce Montaigne, e soggette al mutare di confini e tempi), i casi sono due: o ci si getta in una fede disperata come farà Pascal o si riconquista il campo della morale a partire dall’interiorità. E Montaigne affronta quest’ultimo compito proprio attraverso la scrittura. Il suo stile vivace e inconfondibile è pensiero in cammino: non più trattato di metafisica ma avventura intellettuale che si aggiusta strada facendo, con arguzia e autoironia: essai, appunto, tentativo.

Ora, l’etica che emerge da tale percorso ha i tratti dello stoicismo: rinuncia alla partecipazione pubblica (fino ad abbracciare un conservatorismo diciamo preventivo) e culto delle virtù private, fra cui l’amicizia. In effetti i Saggi contengono uno dei più begli elogi mai scritti al riguardo: la storia del rapporto fra La Boétie e Montaigne.

Essendo molto sensibile al tema, una volta tornato a casa toglierò i Saggi dallo scaffale e leggerò il capitolo XXVIII del primo libro, in cui Montaigne dice di voler collocare al centro della sua opera la parte più bella, come un pittore sceglie il centro di ogni parete per collocarvi il quadro migliore: ma in tal caso il quadro non è suo, bensì appunto dell’amico — il famoso Discorso sulla servitù volontaria, un testo decisivo sulla tirannia e la libertà. Rileggerò il passo in cui Montaigne dice che nell’amicizia di cui parla le anime si mescolano e si confondono, e non c’è modo di elencare i motivi che ci hanno spinto a eleggere l’altro; rileggerò come in tale legame non vi sono doveri esteriori, né obblighi, poiché tutto avviene in perfetta armonia.

Ma ora sono sul treno che da Stoccolma porta a Malmö, diretto a Copenhagen, e al finestrino si susseguono foreste, stagni, prati, mucche indolenti, brandelli di nuvole. Scrivo un messaggio al mio migliore amico Matteo, in Italia, alle prese con una malattia della madre, e penso alla fortuna di avere un simile amico — “già molto se la fortuna ci arriva una volta in tre secoli”, come dice Montaigne — e alla lingua privata che questa elezione forgia: un idioletto sconosciuto all’amore o alla generica benevolenza, perché è basato su una comprensione assoluta, che nulla ha incrinato in trent’anni — e nulla incrinerà.

– Leggi anche: Una costellazione / 2
– Leggi anche: Una costellazione / 3

Giorgio Fontana
Giorgio Fontana

È uno scrittore. Il suo ultimo romanzo è Il mago di Riga (Sellerio 2022).

STORIE/IDEE

Da leggere con calma, e da pensarci su