I governi italiani e l’immigrazione via mare
Mare Nostrum, Triton, porti chiusi, accordi con le milizie libiche, codici di condotta: breve storia di una gestione più rivolta a ottenere consensi che a trovare soluzioni
Da una decina d’anni ciascun governo italiano si è trovato a gestire un flusso piuttosto regolare di migranti e richiedenti asilo che cercano di raggiungere l’Italia via mare partendo dalle coste del Nord Africa. È un fenomeno che non si può più definire un’emergenza, dato che ha connotati e dinamiche molto definite che vanno avanti, più o meno nelle stesse forme, dal 2011.
Nessun governo, neanche l’attuale di Giorgia Meloni, è riuscito a ridurre davvero gli arrivi e al contempo a impedire che migliaia di persone morissero nella traversata o nei centri di detenzione per migranti in Libia, il principale paese di partenza di queste imbarcazioni. La causa principale dei flussi illegali è l’assenza di canali legali per trasferirsi in Italia da fuori dall’Unione Europea, sia per motivi di lavoro, di studio o per ragioni legate alla necessità di fuggire da violenze, miseria e persecuzioni. Nessuno ha aperto canali del genere. I governi che si sono succeduti hanno invece sperimentato soluzioni estemporanee, che hanno risposto spesso più a ragioni di consenso, che di efficacia reale.
Il flusso migratorio dal Nord Africa alle coste italiane esiste da secoli: fra la costa occidentale della Sicilia e l’estrema punta nord della Tunisia ci sono meno di 150 chilometri, fra le coste libiche e quelle siciliane poco meno di 500. Fra il 1997 e il 2010 arrivavano ogni anno via mare dal Nord Africa verso l’Italia circa 23mila fra migranti e richiedenti asilo.
Le cose sono cambiate radicalmente nel 2011, quando in Libia iniziò una guerra civile che dura ancora oggi, mentre nel resto del Nord Africa e in Medio Oriente le proteste della cosiddetta “primavera araba” generarono repressioni e instabilità, spingendo molte persone a lasciare il proprio paese (la “primavera araba” è un’espressione usata per indicare l’insieme di proteste che nel 2011 portò alla destituzione di alcuni regimi autoritari in carica da decenni, come quello egiziano di Hosni Mubarak e quello tunisino di Ben Ali).
Fra 2011 e 2013 arrivarono in Italia 118.884 persone via mare. Proprio nel 2013 avvenne quello che ancora oggi è il naufragio di un’imbarcazione di migranti più grave mai avvenuto in Italia in tempi moderni. Il 3 ottobre 2013 un peschereccio con a bordo centinaia di migranti partito da Misurata, in Libia, si rovesciò al largo delle coste di Lampedusa, la piccola isola italiana più vicina alla Tunisia che alla Sicilia. I morti accertati furono 368. Dopo quel naufragio il governo guidato da Enrico Letta avviò un’operazione militare e umanitaria, Mare Nostrum, che segnò un punto fermo e di cui si parla ancora oggi nei dibattiti sul soccorso in mare.
In estrema sintesi con Mare Nostrum il governo italiano dispiegò per circa un anno navi della Marina Militare (la quota maggiore), dell’Aeronautica Militare, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e della Guardia Costiera per soccorrere le decine di migliaia di persone che in quei mesi partivano dalle coste della Libia e della Tunisia per cercare di raggiungere l’Italia. Mare Nostrum soccorse circa 100mila persone, ma le partenze furono talmente tante che morirono in mare anche 3.126 persone, secondo le stime dell’Agenzia ONU per la migrazione (OIM). «Abbiamo evitato che il Mediterraneo divenisse un lago di morte», disse l’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano.
In seguito all’aumento degli arrivi però il clima politico iniziò a cambiare. Roberto Maroni, ministro dell’Interno fino al 2011 e segretario della Lega fino al 2013, disse che Mare Nostrum era «un irresistibile richiamo per i clandestini», usando un’espressione sbagliata e discriminatoria per definire le persone che entrano irregolarmente in Italia. Maurizio Gasparri, allora come oggi influente senatore di Forza Italia, la definì «un’operazione demenziale» che rendeva il governo Letta «di fatto complice dei mercanti di morte».
In un’intervista data a Libero alla fine del 2014 l’attuale presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, chiese al governo di «fermare i flussi migratori fino a che la disoccupazione italiana non scenderà sotto la soglia del 7%». Pochi mesi dopo iniziò ad auspicare, come fece più volte negli anni successivi, un blocco navale di mezzi militari per impedire con la forza alle imbarcazioni di migranti di raggiungere le coste italiane (una misura irrealizzabile e giudicata disumana dagli esperti di diritti umani).
Il governo di Matteo Renzi, che succedette a quello di Enrico Letta, decise di chiudere Mare Nostrum per lasciare spazio a Triton, un’operazione di sicurezza portata avanti dalla controversa agenzia dell’Unione Europea per il controllo delle frontiere, Frontex. Renzi descrisse Triton come «un intervento complessivo dell’Unione Europea». Ma come spiegò da subito anche il direttore esecutivo di Frontex, Gil Arias Fernandez, lo scopo principale di Triton non erano le operazioni di ricerca e soccorso in mare ma quelle di controllo della frontiera, per cercare di arrestare trafficanti e “scafisti”.
Oltre ad avere un mandato diverso e più ristretto, Triton aveva molte meno risorse e fondi di Mare Nostrum. Nel 2015 i morti nel tratto di mare fra la Sicilia e il Nord Africa furono più o meno gli stessi rispetto al 2014, circa 3.100, a fronte di una riduzione delle partenze (molti migranti e richiedenti asilo nel 2015 percorsero la cosiddetta “rotta balcanica” per raggiungere l’Europa occidentale).
La fine di Mare Nostrum spinse diverse ong piccole e grandi a sopperire all’assenza di navi governative che si occupavano esplicitamente di ricerca e soccorso: nacquero così le operazioni delle cosiddette “navi delle ong”. Fra il 2015 e il 2016 furono operative circa una decina di queste organizzazioni. Secondo i dati della Guardia Costiera italiana nel 2016 soccorsero nel Mediterraneo centrale 46.796 persone, il 26,2 per cento di quelle soccorse e sbarcate in Italia, che quell’anno furono 178.415.
– Leggi anche: Come funziona il soccorso in mare dei migranti
In quegli anni, parallelamente all’operazione Triton, il governo Renzi e poi il suo successore, quello guidato da Paolo Gentiloni, chiesero all’Unione Europea un aiuto per accogliere i molti migranti e richiedenti asilo che comunque riuscivano ad arrivare via mare in Italia, e che lì dovevano rimanere. Infatti il Regolamento di Dublino, la norma europea che regola il diritto d’asilo, costringe ogni richiedente asilo a fare domanda allo stato di primo ingresso, ed è lo stato di primo ingresso a farsi carico della domanda di protezione e dell’accoglienza del richiedente asilo.
Nell’autunno del 2015 la Commissione Europea guidata da Jean-Claude Juncker approvò un meccanismo di “relocation” volontaria tramite cui i paesi europei potevano accogliere una parte dei richiedenti asilo arrivati in Italia e in Grecia.
Il piano fu un fallimento: doveva riguardare circa 160mila richiedenti asilo ma riuscì a trasferirne solo 34.700. Un grosso pezzo della responsabilità fu dei paesi dell’Est Europa a guida semi-autoritaria come Ungheria e Polonia, tradizionalmente molto ostili alla migrazione dal Nord Africa e dal Medio Oriente per motivi storico-sociali. Polonia e Ungheria in particolare si opposero anche a una riforma del Regolamento di Dublino che avrebbe previsto un meccanismo di “relocation” automatica dai paesi di primo ingresso (quindi obbligatorio, non più volontaria).
Nel 2017 il Parlamento Europeo approvò la riforma ma i governi dei paesi dell’Est si opposero in sede di Consiglio dell’Unione Europea, l’organo dove siedono i rappresentanti dei governi nazionali, in cui per approvare le decisioni più importanti serve l’unanimità.
Fra il 2016 e il 2017 divenne evidente che gli sforzi europei per gestire i flussi migratori verso l’Italia sarebbero stati vani. L’espansione dell’ISIS in Medio Oriente e gli attentati compiuti da alcuni suoi sostenitori in Europa crearono ulteriori paure e diffidenze nell’opinione pubblica italiana, alimentate da una fortissima retorica di giornali e partiti di destra contro i migranti che arrivavano via mare.
Il segretario della Lega Matteo Salvini descriveva una «invasione programmata», «in particolare dei clandestini islamici, che vengono qui non per integrarsi ma per imporre», e pubblicava giornalmente tweet e post su Facebook con notizie false o esagerate su stranieri e migranti. Nel 2016 il Giornale titolò in prima pagina senza alcun fondamento che l’ISIS era «sbarcato a Lampedusa». Il 20 settembre 2016 uscì in edicola il primo numero della Verità, un nuovo quotidiano fondato da Maurizio Belpietro: fin dal primo numero, come in molte edizioni successive, si poteva trovare in prima pagina una notizia falsa sui migranti e i richiedenti asilo: cioè che 6 su 10 fra quelli che arrivavano in Italia fossero «finti rifugiati».
Nell’estate del 2017 il governo Gentiloni e in particolare il suo ministro dell’Interno Marco Minniti presero una serie di decisioni molto nette. Approvarono un codice di condotta molto stringente per le ong, lasciando intendere che il loro lavoro dovesse essere regolato per non creare danni, e fecero un controverso accordo con alcune milizie libiche, in estrema sintesi, per impedire le partenze di migranti dalle coste della Libia.
Da allora l’Italia finanzia e addestra la cosiddetta Guardia Costiera libica, un gruppo armato che riporta con la forza i migranti che intercetta in Libia, dove vengono sistematicamente picchiati, stuprati e torturati nei cosiddetti centri di detenzione per migranti.
Diverse inchieste giornalistiche hanno dimostrato i rapporti fra la cosiddetta Guardia Costiera libica e i trafficanti di esseri umani: sono moltissimi i casi di migranti e richiedenti asilo intercettati dalla Guardia Costiera e riportati in Libia, imprigionati nei centri di detenzione e poi riconsegnati ai trafficanti dietro pagamento di un riscatto, per poi finire nuovamente nelle mani della cosiddetta Guardia Costiera. Il numero delle persone morte in questi centri, inaccessibili anche per la stragrande maggioranza delle organizzazioni internazionali, non è mai stato accertato.
In un lungo articolo pubblicato sul Foglio nel 2018 Minniti rivendicò le sue decisioni scrivendo che «una sinistra moderna non può rompere un canale, diciamo, sentimentale con coloro che provano rabbia e con coloro che provano paura» anche dei migranti, e che «l’accoglienza deve conciliarsi con il sentimento di sicurezza». «Devi dimostrare di ascoltare chi ha rabbia, devi lavorare perché quelli che hanno paura trovino in te un interlocutore fidato».
Come spiegò anche in altre occasioni, Minniti sosteneva che solo un approccio ostile alla migrazione via mare – finanziando la Guardia Costiera libica, scoraggiando l’attività delle ong – il centrosinistra poteva riguadagnare credibilità con gli elettori per potersi occupare di immigrazione in maniera più sistemica.
Il piano di Minniti ridusse effettivamente gli sbarchi sulle coste italiane, che passarono dagli 83.707 dei primi sei mesi del 2017 ai 35.617 degli ultimi sei. Ma alle elezioni politiche del 2018 e a quelle europee del 2019 gli elettori premiarono partiti che promuovevano posizioni ancora più dure e intransigenti sui migranti. Le elezioni del 2018 furono vinte dal Movimento 5 Stelle, che nei due anni precedenti aveva espresso posizioni estremamente conservatrici sull’immigrazione: fu il suo leader di allora, Luigi Di Maio, a inventare l’espressione “taxi per migranti” per definire le navi delle ong, lasciando intendere che facessero un normale servizio di spola fra le coste africane e quelle italiane (fra 2017 e 2018 morirono almeno 4.167 persone tentando di raggiungere l’Italia via mare, più un numero imprecisato nei centri di detenzione libici).
Le elezioni europee del 2019 furono vinte invece dalla Lega di Matteo Salvini, che in quel momento era anche ministro dell’Interno in un governo guidato da Giuseppe Conte e sostenuto sia dalla Lega sia dal Movimento 5 Stelle. Durante il suo mandato Salvini si occupò molto di immigrazione, confermando gli accordi con la Libia, promuovendo la politica dei “porti chiusi” e approvando due cosiddetti “decreti sicurezza”.
Quella dei “porti chiusi” fu una strategia con una grossa componente di propaganda: le leggi italiane e internazionali non permettono al governo di approvare provvedimenti ufficiali per chiudere i porti a navi che trasportano migranti che intendono chiedere asilo.
Gli sbarchi sulle coste italiane continuarono, seppure con numeri simili a quelli della seconda parte del 2017. Esisteva ed esiste ancora un’area grigia, che il governo Conte e Salvini sfruttarono soprattutto nei primi mesi di mandato, fatta di divieti e comunicazioni informali rivolte alle navi delle ong, quasi mai messe per iscritto per timore che venissero smontate dai tribunali italiani.
Nell’estate del 2019 poi il governo Conte approvò un decreto che assegnava nuovi poteri al ministro dell’Interno – cioè Salvini – come la possibilità di vietare l’ingresso nelle acque territoriali italiane alle navi che violano le leggi italiane in materia di immigrazione. Il decreto, quasi sicuramente incostituzionale, venne smantellato pochi mesi dopo dal governo successivo, sempre guidato da Conte ma appoggiato dal PD e dal M5S.
La strategia dei “porti chiusi” decisa da Salvini generò sofferenze per migliaia di persone bloccate per giorni sulle navi delle ong in condizioni spesso disumane fra malattie, situazioni igieniche precarie e scarsità di cibo. In molti casi le ong venivano fatte sbarcare a terra dalle autorità mediche o dietro pressione dell’Unione Europea.
La loro assenza prolungata dall’area di mare dove avvengono la maggior parte dei naufragi fece diventare più rischiosa la traversata per i migranti, che avevano meno possibilità di essere soccorsi. Un’elaborazione di YouTrend stima che nel 2018 e nel 2019 siano morti in mare 5,61 e 6,54 migranti ogni 100 fra quelli sbarcati in Italia, mentre fino al 2017 la stima era di poco superiore ai 2. I morti ufficiali nel Mediterraneo centrale in quei due anni furono rispettivamente 1.314 e 1.262: a loro vanno aggiunti quelli che morirono nei centri di detenzione in Libia e quelli che annegarono in mare senza che se ne accorgesse nessuno, data la presenza sempre più scarsa delle ong.
La persona che prese poi il posto di Salvini, Luciana Lamorgese, smantellò i decreti sicurezza e ripristinò alcune garanzie per i richiedenti asilo che erano state rimosse, come il permesso soggiorno per motivi umanitari.
Anche con Lamorgese però rimase una certa ostilità nei confronti delle navi delle ong, i cui sequestri e provvedimenti di fermo aumentarono rispetto al mandato da ministro di Salvini. Sia durante il secondo governo Conte sia durante il successivo governo di Mario Draghi, in cui conservò il suo incarico, Lamorgese assegnò sempre un porto di sbarco alle navi delle ong: ma sempre con qualche giorno di ritardo, come per scoraggiare le loro operazioni (le ong spendono migliaia di euro al giorno per mantenere operativa una nave di ricerca e soccorso). In alcuni documenti compilati dal ministero dell’Interno da Lamorgese si faceva riferimento poi al cosiddetto “pull factor”, una tesi secondo cui la sola presenza delle ong al largo delle coste libiche aumenterebbe le partenze e quindi i rischi per i migranti. È una teoria che però non ha mai trovato riscontro nei dati.
Con l’insediamento del governo Meloni per molti versi siamo tornati al periodo in cui Salvini era ministro dell’Interno: le attività delle poche ong rimaste – al momento ne sono attive due: Medici Senza Frontiere ed Emergency – vengono sistematicamente ostacolate dal governo, che ha imposto loro un controverso codice di condotta. A fine febbraio la nave di Medici Senza Frontiere, la Geo Barents, ha ricevuto un fermo amministrativo di 20 giorni da parte del governo, con accuse piuttosto fragili.
Dopo il grave naufragio di un peschereccio con a bordo 150 migranti avvenuto domenica 26 febbraio al largo delle coste di Cutro, in Calabria, Meloni e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi – ex capo di gabinetto di Salvini, quando era ministro del governo Conte – hanno ribadito più volte la loro intenzione di «fermare le partenze» delle imbarcazioni di migranti. In base ai pochi dettagli che hanno fornito sembra che il governo rafforzerà gli accordi con le milizie libiche, in modo che più migranti vengano trattenuti nei centri di detenzione libica, e aumenterà le pene previste per i cosiddetti scafisti, l’ultimo anello del traffico di esseri umani.
Gli unici canali legali di ingresso di cui hanno parlato Meloni e Piantedosi sono i cosiddetti corridoi umanitari, un’esperienza molto marginale e ritenuta assai inadeguata per gestire i flussi migratori verso l’Europa.
Né il governo italiano né l’Unione Europea – in cui i paesi dell’Est continuano a dirsi contrari a una riforma del Regolamento di Dublino – sembrano avere in programma iniziative più strutturate.