I cani di Chernobyl
Vivono nelle vicinanze di ciò che resta della centrale nucleare e potrebbero offrirci nuove informazioni su cosa accade dopo anni di costante esposizione a bassi livelli di radiazioni
Dopo l’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl il 26 aprile 1986, il più grave nella storia insieme a quello di Fukushima nel 2011, decine di migliaia di persone che vivevano nel raggio di 30 chilometri dall’impianto furono costrette ad abbandonare le proprie abitazioni a causa delle contaminazioni radioattive. Lo sgombero organizzato dall’Unione Sovietica, in quello che oggi è territorio dell’Ucraina, fu gestito in modo spiccio senza lasciare alla popolazione molto tempo per raccogliere le proprie cose. Molti furono costretti a lasciarsi alle spalle non solo i ricordi di una vita, ma anche i propri animali domestici, a partire dai cani.
A distanza di quasi 37 anni, i discendenti di quei cani circolano ancora nella “zona di alienazione”, l’area intorno alla centrale dove per precauzione è vietata alle persone la permanenza per lunghi periodi di tempo. I cani hanno costituito popolazioni distinte che vivono sostanzialmente isolate e per questo un gruppo di ricerca ha iniziato a studiarli, con l’obiettivo di comprendere meglio che cosa comporti la costante esposizione a determinati livelli di radiazioni.
Dopo che la popolazione di Pripyat, la città più vicina alla centrale, fu obbligata ad abbandonare le proprie abitazioni, le autorità sovietiche avviarono una campagna per abbattere il maggior numero di animali domestici, temendo che questi potessero lasciare l’area di Chernobyl e contribuire alla contaminazione. Furono impiegate centinaia di soldati, il cui compito era di cercare casa per casa gli animali, battendo sia l’area urbana sia le zone rurali nelle vicinanze, come raccontato efficacemente nella serie tv Chernobyl di HBO. Le carcasse dovevano poi essere seppellite nella zona di alienazione, sempre per ridurre il rischio di ulteriori contaminazioni.
Nonostante gli sforzi non fu possibile abbattere tutti i cani. Quelli che riuscirono a sopravvivere, spesso grazie all’assistenza fornita da alcuni degli operatori che lavoravano alle attività di bonifica della centrale, iniziarono a costituire gruppi e a riprodursi.
Oggi ci sono centinaia di loro discendenti, che ricevono cure da alcuni gruppi di volontari come Clean Futures Fund, un’organizzazione che oltre a fornire cibo ai cani si occupa anche di dare assistenza veterinaria quando necessario.
Nel 2017 Timothy Mousseau, un esperto di ecologia evolutiva all’Università del South Carolina (Stati Uniti), si unì ai volontari per offrire assistenza ai cani nella zona di alienazione, dove l’accesso è consentito per brevi periodi di tempo. Mousseau avrebbe partecipato a tre diverse missioni, raccogliendo insieme ai propri colleghi campioni di sangue da 300 cani randagi, sedati a distanza con una cerbottana prima del prelievo per ridurre i rischi (alcuni sono talvolta aggressivi, specialmente se ci sono aghi e siringhe di mezzo).
Come spiega una ricerca da poco pubblicata sulla rivista Science Advances, Mousseau e colleghi avevano poi effettuato analisi del DNA dai campioni di sangue prelevati, mettendo a confronto il loro patrimonio genetico con quello di altri cani randagi che vivono a maggiore distanza da ciò che resta della centrale di Chernobyl.
Dalle analisi è emerso che i cani che vivono in prossimità dell’impianto costituiscono ormai da decine di anni popolazioni isolate dagli altri cani. La maggior parte di questi animali non si è mai spostata dalla zona, con le nuove generazioni che continuano a presidiare la stessa porzione di territorio.
L’area dell’impianto è in buona parte recintata, ma questo spiega solo in parte la mancanza di incroci con cani provenienti da altre zone, considerato che le recinzioni possono essere aggirate in vari punti. I cani che vivono vicino alla centrale sono geneticamente distinti da quelli che vivono nella città di Chernobyl, una ventina di chilometri più a sud, sempre compresa nella zona di alienazione.
L’analisi genetica ha permesso di identificare 15 gruppi familiari, alcuni con un alto numero di cani e altri con pochi membri che vivono in territori meno ampi. Una differenziazione così importante ha stupito il gruppo di ricerca, che considera lo studio da poco pubblicato come il primo passo in un’iniziativa che richiederà anni e che potrebbe offrire qualche informazione sulla costante esposizione a livelli di radiazioni superiori alle soglie di sicurezza solitamente indicate.
A oggi non è infatti chiaro come questi possano influire sulla salute sia delle piante sia degli animali, compresi gli esseri umani. Nel tempo sono stati pubblicati studi su possibili mutazioni genetiche causate dalle radiazioni in particolari specie di animali, come i moscerini della frutta o le rondini che vivono nei pressi della centrale, ma i risultati sono ancora dibattuti.
Una migliore comprensione degli effetti delle radiazioni, anche in relazione ai tempi di esposizione, potrebbe rivelarsi utile per la valutazione dei rischi di chi lavora in ambienti con livelli di radiazioni più alti del solito o più semplicemente per chi si deve sottoporre con frequenza a esami diagnostici come radiografie e TAC.
Ricondurre eventuali mutazioni genetiche agli effetti delle radiazioni non sarà comunque semplice, considerate le numerose variabili coinvolte. Vivendo in gruppi isolati, i discendenti dei cani abbandonati nel 1986 sono spesso il frutto della riproduzione tra esemplari strettamente imparentati tra loro (“endogamia”), circostanza che riduce la varietà genetica dei nuovi nati e che può portare a mutazioni a prescindere dalle radiazioni e da altre condizioni ambientali. Il gruppo di ricerca proverà a superare queste difficoltà confrontando il patrimonio genetico dei cani randagi con quelli delle razze a loro più vicine, ricostruibili sempre partendo dall’analisi del DNA.
Mousseau e colleghi hanno in programma una nuova visita nella zona di alienazione a giugno, compatibilmente con la possibilità di raggiungere quella zona dell’Ucraina, a causa dell’invasione russa in corso ormai da un anno. Finora la guerra non ha impedito le attività di ricerca, ma la riduzione dei flussi turistici nell’area ha comunque avuto conseguenze, perché ci sono meno persone che portano e lasciano cibo per i cani. Considerata la loro importanza anche dal punto di vista scientifico è stata comunque avviata un’iniziativa coordinata da un’organizzazione senza scopo di lucro per portare cibo.
Nonostante i divieti, nella zona di alienazione vivono comunque circa 200 persone, sparpagliate in una decina di piccoli centri abitati e a Chernobyl. Sono per lo più persone anziane che si erano rifiutate di lasciare le proprie abitazioni nel 1986 o che vi fecero ritorno qualche tempo dopo, volendo continuare a viverci. Vengono definite “samosely” (самосели), letteralmente “auto-coloni”, proprio per indicare la loro scelta fatta in autonomia di vivere in un’area che fu altamente contaminata.