La storia della più veloce iperinflazione della storia

Negli anni Quaranta in Ungheria arrivò al 41.900.000.000.000.000 per cento

Banconote ungheresi in bianco e nero, da una foto Takkk via Wikimedia Commons
Banconote ungheresi in bianco e nero, da una foto Takkk via Wikimedia Commons
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Quando si pensa a una storia lontana di fortissima inflazione – ossia di aumento generale del livello dei prezzi – viene sempre in mente quella della Germania dopo la Prima guerra mondiale. Effettivamente è l’episodio più famoso e quello più studiato, ma non è il caso più grave di inflazione nella storia, che è invece quello dell’Ungheria nel 1946, quando i prezzi aumentarono tantissimo e raddoppiavano in media ogni 15 ore, arrivando fino al valore teorico del 41.900.000.000.000.000 per cento su base annua.

Nel Novecento questi episodi di altissima instabilità dei prezzi erano più frequenti: la politica monetaria non era indipendente e le banche centrali spesso si mettevano al servizio dei governi per finanziare le loro spese. Questa pratica si chiama “monetizzazione del debito” ed è stata progressivamente abbandonata dalle economie avanzate per tutte le distorsioni che comporta, tra cui proprio un’altissima probabilità di creare inflazione. Semplificando molto, stampare moneta è come “dopare” l’economia, che cresce perché il governo ha finanziato la spesa pubblica grazie a soldi stampati appositamente, e non grazie a un sistema che cresce e che paga in proporzione sempre più tasse. La valuta perde quindi progressivamente valore e ce ne vuole sempre di più per comprare le stesse cose. È esattamente quello che successe in Ungheria nel 1946.

Anche prima di allora il paese era abituato a episodi di violenta inflazione. Divenuta paese indipendente dopo la fine della Prima guerra mondiale, l’Ungheria ne era uscita perdente e con le finanze devastate. Aveva iniziato quindi a stampare moneta per tentare di creare dal niente denaro per coprire i suoi buchi di bilancio. La sua valuta perse così tantissimo valore: prima della guerra servivano 5 corone per ottenere un dollaro statunitense, mentre nel 1924 ce ne volevano 70 mila. Fu così che fu creato il pengo, una nuova moneta con singole banconote più di valore: nel 1926 un pengo valeva 12.500 corone.

Durante la maggior parte della Seconda guerra mondiale all’Ungheria fu risparmiata gran parte della distruzione. Ma nel 1944 il suo territorio si trasformò in un campo di battaglia tra Unione Sovietica e Germania: metà della capacità industriale dell’Ungheria fu sostanzialmente distrutta, quasi la totalità delle aziende fu notevolmente danneggiata e le infrastrutture furono rase al suolo.

In generale l’economia di guerra porta già di per sé prezzi più alti: le industrie sono ferme, perché distrutte o riconvertite alle necessità di guerra, non ci sono contadini a gestire i raccolti, non ci sono panettieri a sfornare il pane. Ci sono quindi generalmente meno beni in circolazione e i prezzi per questo aumentano.

Dopo la Seconda guerra mondiale per avviare la ricostruzione e far ripartire l’economia il governo ungherese inondò di denaro il paese: finanziò opere pubbliche, diede sussidi indiscriminati, finanziò prestiti vantaggiosi a imprese e banche. Il tutto nuovamente stampando moneta in modo massiccio, alimentando di nuovo l’inflazione, nonostante i prezzi fossero già più alti del normale per la guerra.

Dall’autunno del 1945 i prezzi aumentarono in modo velocissimo: quello che a settembre del 1945 costava qualche centinaio di pengo a luglio del 1946 ne costava miliardi di miliardi. Al suo apice l’inflazione raggiunse il 41.900.000.000.000.000 per cento, una cifra impronunciabile.

Per dare una misura a questo numero, in economia si definisce iperinflazione – ossia una enorme inflazione – quando l’aumento dei prezzi su base annua supera il 50 per cento. Negli ultimi mesi e nel momento di massimo picco l’inflazione in Italia ha sfiorato il 12 per cento, ed è un dato di fatto che già così la vita di molte famiglie e imprese sia diventata più difficile.

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In Ungheria nel 1946 i prezzi medi raddoppiavano all’incirca ogni 15 ore. Le famiglie persero di fatto tutti i loro risparmi, che nel giro di poco non avevano più alcun valore. Anche i salari non riuscivano a stare al passo con l’aumento dei prezzi e la svalutazione del pengo. Molte aziende iniziarono a pagare con quello che producevano: cibo, zucchero, metri di tessuto. Il mercato nero si sviluppò tantissimo.

Le retribuzioni reali – ossia rapportate al costo della vita – diminuirono di oltre l’80 per cento e, benché le persone avessero un lavoro, l’iperinflazione le aveva rese povere.

C’erano anche notevoli problemi logistici nella vita quotidiana: le singole banconote non valevano più niente e per comprare anche beni di prima necessità servivano tantissimi pengo, che erano anche difficili da portare con sé e da contare. Molti esercenti iniziarono a pesare le banconote invece che a contarle. Il governo smise addirittura di riscuotere le tasse perché anche un singolo giorno di ritardo nel pagamento faceva di fatto perdere totalmente valore a quello che incassava.

La soluzione più pratica per il governo non fu quella di smettere di stampare moneta ma di cambiare nome alla valuta. Il pengo fu sostituito con il milpengo (pari a un milione di pengo), che a sua volta fu poi sostituito con il b-pengo (pari a un miliardo di pengo) e così via, fino ad arrivare alla banconota da un miliardo di b-pengo (ossia un miliardo di miliardi di pengo), che però non fu mai ufficialmente messa in circolazione.

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Il cambio tra una banconota e un’altra fu anche piuttosto veloce, quindi non ci furono grandi lavori di restyling: le banconote mantennero i loro disegni e le loro figure e furono solo cambiati i colori.

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L’unica soluzione per l’Ungheria fu quella di cambiare proprio moneta: nell’agosto del 1946 introdusse il fiorino, riducendo di 29 zeri la valuta precedente, e il governo si impegnò a sostenerne il valore, abbandonando quindi la politica di fortissima espansione monetaria portata avanti fino ad allora.