Il pensiero magico ossessivo compulsivo
«Non ricordo quando i primi pensieri ossessivi di quel tipo hanno fatto capolino nella mia vita. Posso solo dire che ero alle elementari. Sentivo una inspiegabile angoscia e per mandarla via facevo cose come saltare le piastrelle di casa sempre con lo stesso piede, toccare le pareti o le porte, ripetere un gesto con la mano. Più tardi, alle medie, diventò indispensabile inventare delle strategie affinché gli altri non mi scoprissero»
È stato il mio medico di famiglia a intuire per primo che quelle che i miei genitori chiamavano “fissazioni” erano, in realtà, il sintomo di un malessere più ampio. Quel giorno ero seduta nel piccolo studio dove, tra una sigaretta e l’altra, faceva le visite. Infastidita e troppo orgogliosa nei miei tredici anni, ascoltai mia madre mentre gli descriveva alcuni dei miei comportamenti reiterati, come ripercorrere le scale più volte o guardarmi dietro le spalle di continuo. Lui spense la sigaretta nel posacenere di vetro e staccò dal libretto delle ricette un foglio. Sopra, con una grafia eccezionalmente chiara scrisse: “Disturbo Ossessivo-Compulsivo”.
Non ricordo esattamente quando i primi pensieri ossessivi hanno fatto capolino nella mia vita. Posso solo dire che ero alle elementari. Sentivo una profonda e inspiegabile angoscia e per mandarla via facevo cose come saltare le piastrelle di casa sempre con lo stesso piede, toccare le pareti o le porte, ripetere uno o più gesti con la mano. I “tic” cambiavano continuamente, rinnovandosi su simili schemi. Più tardi, alle scuole medie, dovevo controllare di continuo sotto il banco durante le lezioni. Diventò allora indispensabile inventare delle strategie affinché gli altri non mi “scoprissero”. Una volta era una matita che cadeva, un’altra i lacci delle scarpe da annodare, un’altra ancora aspettavo che nessuno badasse a me.
Molti di noi hanno una piccola abitudine della quale non riescono a fare a meno, giusto? Contare le fessure delle tapparelle, vestirsi in un certo modo prima di un colloquio importante…? Queste però sono azioni per lo più riconducibili a forme di scaramanzia. Che non è DOC, anche se alcuni tratti in comune ci sono. La ripetitività ossessiva di uno o più gesti apparentemente illogici per un periodo di tempo protratto, e l’impossibilità o la grande difficoltà che insorge se non li si può portare a termine sono due tra i segnali più evidenti che si è di fronte a un caso di DOC, un disturbo invalidante che, come ha scritto l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), “può devastare le relazioni interpersonali e sentimentali, può interferire pesantemente con la capacità di studiare e lavorare”.
Negli anni in cui sono cresciuta io, ovvero gli anni ’80 e ’90, di problemi mentali se ne parlava pochissimo, ma da allora la situazione non è migliorata di molto: tuttora l’argomento genera un senso di fastidio, se non di rifiuto. Per mutuare un modo di dire inglese, sono diventati l’elefante nella stanza: pur essendo sotto gli occhi di tutti si fa finta di non vederli, o ancora peggio se ne parla in maniera superficiale.
Il DOC si può manifestare a ogni età; le prime avvisaglie sono spesso riscontrabili, come nel mio caso, verso gli otto anni. È allora che il cosiddetto “pensiero magico” della prima infanzia si scontra con la realtà della scuola primaria e con un’acerba, ma improvvisa e straniante, consapevolezza del mondo e di un sé autonomo. Con gli stravolgimenti che l’adolescenza si trascina, nella migliore delle ipotesi si può ridurre al minimo. Ma se non viene diagnosticato per tempo e curato, oppure se non si ridimensiona da sé, può trascinarsi fino all’età adulta, cronicizzandosi in una vera e propria forma mentis che assume diversi livelli di gravità – fino a raggiungerne di altamente invalidanti.
Soffrire di DOC è come avere la mente sempre sintonizzata su canali diversi: ogni oggetto, luogo, parola e persino ogni persona che incontri, oltre a essere ciò che sono, vengono percepiti anche come altro, sulla base di un complesso sistema di associazioni mentali. Il pensiero magico che sottostà al DOC si potrebbe riassumere con questo concetto: “Se io faccio così, questa brutta cosa non succederà”. È un meccanismo di azione-reazione che, nella pratica, si traduce in una schiera pressoché infinita di combinazioni. Se non accendo e spengo la luce tante volte quanto il mio numero fortunato, la giornata andrà male. Se non mi lavo le mani per la ventesima volta in un’ora, questo pensiero orribile non si cancellerà dalla mia mente e infine si avvererà. Se non tocco gli angoli della scrivania X volte, un meteorite si abbatterà sulla Terra causando un’estinzione di massa. E via dicendo.
In chi soffre di DOC questi pensieri intrusivi si manifestano come immagini o impulsi martellanti che non si possono scacciare, se non portando a compimento un rituale: una serie di gesti ripetitivi che funzionano come una formula magica per scongiurare il peggio, ma anche per “lavarsi via” la responsabilità di ciò che potrebbe accadere. Il pensiero intrusivo è infatti strettamente connesso con un’idea di controllo, o meglio con il tentativo, assurdo e fallimentare in partenza, di controllare l’incontrollabile, in una strana commistione tra senso di impotenza e onnipotenza.
Compiendo un gesto un certo numero di volte – la numerologia, qui, ha un’importanza simbolica basilare – si può continuare a vivere normalmente, tradotto: ci si può permettere di pensare anche ad altro. Almeno finché non subentra un nuovo pensiero, che può presentarsi qualche ora, ma anche pochi minuti o secondi dopo. La posta in gioco è altissima – la morte di un caro o di sé, la fine del mondo – e non ci si possono permettere errori. È un processo estenuante: provate a proiettare queste serie di azioni compulsive in quasi ogni istante della giornata, adattate a diverse azioni e ambienti. A casa, il banco può diventare il letto, da controllare mentre stai cercando di prepararti agli esami di Stato. Poi c’è il testo sul sussidiario da rileggere tante volte quante il tuo numero portafortuna, le parole che non si devono pronunciare perché se le dici ad alta voce diventano reali e fanno paura. Le scale, ogni gradino corrispondente a una cifra, da saltare con il piede destro o sinistro. E quando queste azioni eccessivamente ripetitive cominciano a essere evidenti, e succede presto, si portano appresso lo stigma, la derisione, l’allontanamento.
È possibile che abbia ragione chi sostiene che la pandemia abbia provocato un aumento dei casi, soprattutto tra i più giovani. Se così fosse le ragioni sarebbero facilmente intuibili. La pandemia è stata improvvisa e totalizzante. Nei bambini e ragazzi più sensibili, l’ansia e la sensazione di un crollo di certezze in concomitanza con una responsabilità indotta di “non far ammalare” gli altri, magari i nonni, può aver generato atteggiamenti di tipo nevrotico. Molti adulti che già soffrivano di disturbo ossessivo-compulsivo da contaminazione, cioè con pensieri riguardanti in particolare il rischio di essere infettati o di infettare, hanno poi subito un vero tracollo; è facile immaginare come nei bambini possano essere insorti simili meccanismi cognitivi. Inoltre, i lockdown hanno costretto molte famiglie a passare a stretto contatto settimane, mesi. E non tutte le famiglie sono famiglie felici. La fortissima valenza simbolica insita nel DOC insomma può aver contribuito a far nascere nei giovanissimi l’illusione che le cose incontrollabili possano, addirittura debbano, essere controllate. Che a tutto ci sia una soluzione.
Per un genitore di un bambino o una bambina di otto, nove anni è difficile capire se alcuni comportamenti “strambi” e ripetitivi dei figli siano da relazionare alla sfera del gioco e della fantasia piuttosto che a un disturbo come il DOC. Suggerisco in tal senso la visione di Phoebe in Wonderland, film del 2008 scritto e diretto da Daniel Barnz e con Elle Fanning, l’opera che a mio parere meglio descrive i meccanismi del DOC in una ragazzina e le strategie per non farsi scoprire dagli adulti. Noto invece una maggiore difficoltà da parte del cinema e generale nel raccontare un adulto con il DOC; spesso si tende a farlo diventare una macchietta, un personaggio antisociale e buffo, forse perché è più disturbante pensare che un individuo raziocinante possa agire sulla scia di pensieri che anche per lui, o lei, sono irrazionali.
Il DOC è di derivazione sociale e culturale? Ciò che credo e osservo è che il senso di colpa sembra avere molto a che fare con il meccanismo di azione-reazione messo in campo dal DOC. In un certo senso, questo si fonda proprio su un sistema di autopunizioni, autocensura e “sacrifici” da compiere per il proprio bene e quello altrui. Forse, o almeno mi piace immaginarlo, tornando indietro di secoli e magari all’interno di una società tribale un ossessivo-compulsivo aveva un altro nome: sciamano, visionario, oracolo. Ma nel 2023 non è così e chissà, forse non lo è mai stato. Quel che è certo è che il DOC, così come molte altre patologie e disturbi mentali, non dovrebbe più essere l’elefante nella stanza. Bisogna invece parlarne, perché questo disturbo semisconosciuto e frainteso se individuato per tempo può essere ridimensionato, soprattutto grazie alla terapia cognitivo-comportamentale unita, se necessario, a un trattamento farmacologico. Non sempre se ne esce completamente; ma almeno si può imparare a gestire in parte la ritualità, migliorando la qualità di vita.