Chi doveva soccorrere i migranti naufragati a Cutro?
La catena decisionale in caso di emergenze in mare coinvolge entità molto diverse, e ha varie sovrapposizioni problematiche
A distanza di quattro giorni dal grave naufragio al largo delle coste di Cutro, in Calabria, sta proseguendo il dibattito sulle responsabilità nei ritardi delle operazioni di soccorso, avviate dalla Guardia Costiera italiana soltanto intorno alle 5:30 di domenica mattina, quando ormai il naufragio era già avvenuto.
Nessuno degli enti coinvolti – Frontex, cioè l’agenzia di frontiera dell’Unione Europea, la Guardia di Finanza e la Guardia Costiera – ritiene di essere responsabile di lungaggini e rimpalli che secondo diversi pareri hanno impedito il soccorso tempestivo delle persone a bordo. Anche i ministri coinvolti, cioè il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e il ministro dei Trasporti Matteo Salvini, hanno respinto ogni accusa. Stabilire chi dovesse soccorrere l’imbarcazione naufragata domenica in effetti non è semplicissimo, anche perché i protocolli previsti dalla legge italiana in questi casi hanno alcune zone grigie e aree di sovrapposizione.
Nel febbraio del 2021 il governo italiano ha aggiornato il suo protocollo per gestire le operazioni di ricerca e soccorso in mare, le cosiddette operazioni SAR (dall’inglese search and rescue, “ricerca e soccorso”). Il piano (PDF) è stato elaborato dal secondo governo guidato da Giuseppe Conte, quello sostenuto da Partito Democratico e M5S, e in particolare dall’allora ministra dei Trasporti, Paola De Micheli, del PD.
Per quanto riguarda eventuali emergenze in mare, cioè imbarcazioni con a bordo persone che potrebbero aver bisogno di essere soccorse, il piano prevede tre livelli di emergenza, ciascuno con le sue apposite procedure. Il livello più basso si chiama “fase di incertezza”, abbreviata in (INCERFA) e prevede «una situazione nella quale si può dubitare della sicurezza di una persona, di una nave o di un altro mezzo»: si apre fra le altre cose quando «esiste un dubbio sulla sicurezza di un mezzo o del suo personale dovuto a mancanza di informazioni o alle eventuali difficoltà in cui potrebbero versare». La fase successiva è quella di “allerta” (ALERFA): è prevista quando da molto tempo non si hanno notizie o contatti con il mezzo o la persona oggetto dell’INCERFA.
Solo l’ultima fase, quella di “pericolo” (DETRESFA), prevede l’avvio delle operazioni di ricerca e soccorso vere e proprie: cioè la messa in mare dei mezzi della Guardia Costiera italiana per soccorrere la persona o la nave in difficoltà. Viene attivata quando si nota che «una nave o una persona è minacciata da un grave ed imminente pericolo e che ha bisogno di soccorso immediato».
A sovrintendere tutte queste fasi ci sono vari organi della Guardia Costiera, che dipende dal ministero dei Trasporti. L’organismo interno alla Guardia Costiera che gestisce il coordinamento di ogni operazione di ricerca e soccorso si chiama Italian Maritime Rescue Coordination Centre (IMRCC). Ogni stato che ha firmato la Convenzione di Amburgo del 1979, cioè il documento dell’ONU con cui si stabiliscono le regole per la ricerca e soccorso in mare, è tenuto a mantenere un centro di questo tipo.
Mentre ogni operazione che raggiunge il livello DETRESFA viene eseguita e coordinata dalla Guardia Costiera, esiste una certa ambiguità per tutte quelle che non raggiungono quel livello. In particolare quando di mezzo ci sono imbarcazioni con a bordo dei migranti. Il decreto legislativo 177 del 2016, emesso dal governo guidato da Matteo Renzi, prevede specificamente che sia la Guardia di Finanza, che nelle sue funzioni di polizia dipende dal ministero dell’Interno, a occuparsi della «sicurezza del mare». L’anno successivo un decreto dell’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, ricordato oggi per il suo approccio ostile all’immigrazione, scese più nel dettaglio e precisò che «al comparto di specialità del Corpo della guardia di Finanza è affidata in via esclusiva la responsabilità operativa nell’azione di sorveglianza in mare, ai fini del contrasto all’immigrazione clandestina».
In altre parole: se un’imbarcazione con a bordo dei migranti diretta in Italia viene intercettata dalle autorità italiane, e la Guardia Costiera non valuta che sia in condizioni di dovere essere soccorsa, a occuparsene è la Guardia di Finanza, per via delle sue competenze di «contrasto all’immigrazione clandestina». Cioè di cattura degli eventuali scafisti e trafficanti a bordo dell’imbarcazione.
È quello che è successo anche nel caso dell’imbarcazione naufragata al largo delle coste di Cutro. Lo ha spiegato anche la Guardia di Finanza nel suo primo comunicato stampa diffuso dopo il naufragio, parlando di «intercetto» dell’imbarcazione e non di un’operazione di soccorso, scaricando implicitamente la responsabilità di questa valutazione sulla Guardia Costiera italiana.
La Guardia Costiera ha fatto sapere invece di non avere avviato alcuna operazione di ricerca e soccorso perché non aveva alcuna informazione di eventuali emergenze a bordo della nave, che quindi avrebbero portato a raggiungere il livello DETRESFA di emergenza. In un comunicato diffuso il 28 febbraio la Guardia Costiera ha spiegato di avere ricevuto le prime informazioni che facevano pensare a una «emergenza» alle 4:30 di domenica mattina, quando alcune persone a terra segnalarono al centralino della Guardia Costiera di una possibile imbarcazione in difficoltà al largo di Cutro. Anche il comunicato della Guardia Costiera scarica implicitamente la responsabilità dei ritardi nei soccorsi a un altro ente coinvolto: Frontex, l’agenzia di frontiera dell’Unione Europea.
Intorno alle 22:30 di sabato 25 il peschereccio in questione era stato avvistato a circa 70 chilometri dalle coste calabresi da un piccolo aereo di Frontex, l’agenzia di frontiera dell’Unione Europea. Essendo un’agenzia che si occupa principalmente di sicurezza, Frontex è in contatto soprattutto con le forze dell’ordine italiane come Carabinieri e Guardia di Finanza. Per questo sabato sera aveva avvisato diverse forze dell’ordine italiane, e solo per conoscenza aveva incluso fra i destinatari anche la Guardia Costiera italiana.
Frontex segnalò un barcone «con una persona sul ponte e possibili altre persone sottocoperta, nessun giubbotto di salvataggio visibile, buona navigabilità a 6 nodi, nessuna persona in acqua […]. Il sistema di monitoraggio satellitare di Eagle 1 rileva una telefonata partita dalla barca verso la Turchia, i portelloni di bordo aperti e una significativa risposta termica», cioè una ingente presenza di persone osservate con le telecamere a rilevazione termica. Al momento della segnalazione di Frontex il mare in quella zona era stimato a forza 4 su 9 della scala Douglas, quindi molto mosso e con onde fra 1,25 e 2,5 metri. Eppure questo non bastò a Frontex per segnalare che il peschereccio era in una situazione di distress, che nel gergo marittimo segnala una difficoltà che necessita un’operazione di soccorso.
Il regolamento del 2014 dell’Unione Europea con cui venne modificato il mandato di Frontex prevede all’articolo 9 che vada considerata in situazione di distress qualsiasi imbarcazione la cui «efficienza operativa è stata compromessa al punto di rendere probabile una situazione di pericolo». Per chi lavora con i soccorsi in mare un’imbarcazione verosimilmente piena di migranti, in mare aperto, senza tracce di giubbotti di salvataggio, va considerata in difficoltà e quindi bisognosa di essere soccorsa.
Lo spiegò fra gli altri nel 2017 in un’audizione alla Camera l’ammiraglio Nicola Carlone, che dal 2021 guida la Guardia Costiera italiana: «risulta evidente che una nave con centinaia di persone a bordo non possa essere abbandonata alla deriva, per di più priva delle più elementari condizioni di sicurezza, sovraccarica, senza un equipaggio professionale, né idonee attrezzature e strumenti di navigazione. Un tale comportamento infatti metterebbe a rischio non solo la vita dei migranti».
Non è chiaro a quale livello della catena decisionale si sia deciso che il peschereccio non era in una situazione di distress. Frontex avrebbe potuto fare una valutazione diversa e chiedere esplicitamente di avviare operazioni di ricerca e soccorso all’IMRCC, cioè alla Guardia Costiera. Forse la Guardia di Finanza avrebbe potuto fare pressioni perché dell’operazione si occupasse la Guardia Costiera.
Ma è soprattutto la Guardia Costiera che avrebbe potuto fare una valutazione diversa sulla base delle informazioni che ricevette proprio da Frontex sabato 25: è infatti l’unico ente che può avviare una operazione di ricerca e soccorso, cosa che invece non può fare né Frontex né la Guardia di Finanza.
Giovedì pomeriggio la procura di Crotone ha fatto sapere che esaminerà le relazioni della Guardia di Finanza e della Guardia Costiera sulle operazioni compiute fra sabato e domenica, per capire se esistano responsabilità nei ritardi dei soccorsi.
Diversi studiosi di diritto marittimo segnalano che a generare una certa sovrapposizione e confusione di ruoli abbia contribuito il ruolo piuttosto preminente dato in casi del genere a organismi che si occupano di sicurezza, come Frontex e la Guardia di Finanza, piuttosto che alla Guardia Costiera.
Ne ha parlato fra gli altri anche Vittorio Alessandro, ex ammiraglio della Guardia Costiera e suo portavoce fino al 2012, in un’intervista pubblicata giovedì sulla Stampa. Alessandro spiega che l’approccio è cambiato quando «dall’epoca del ministro Minniti e poi dall’avvio dei decreti sicurezza la tendenza è stata quella di portare sul mare quello che è un problema di terra, la difesa dei confini». Aggiunge Alessandro:
In mare non si fanno selezioni, in mare non si fanno attività di polizia, perché queste attività possono essere pericolose. Frontex è un’istituzione europea nata a difesa dei confini. Quando è apparsa sulla scena, si pensò di darle come referente nazionale la Guardia di finanzia, cioè un Corpo che non si occupa di soccorso, ma di polizia. È lo snaturamento della cultura marinara, per cui il soccorso recede di fronte alle esigenze di polizia. Ma la Guardia costiera ha un’altra storia.