Come Swatch salvò l’industria svizzera degli orologi
Quarant'anni fa fu presentato il primo modello, nato da una serie di intuizioni che si presero un posto nella cultura popolare
Il primo marzo del 1983, quarant’anni fa, a Zurigo venne lanciato lo Swatch, il modello di orologio che salvò l’intero settore in Svizzera e diventò un fenomeno della cultura pop, conosciuto e apprezzato da intere generazioni. Gli orologi Swatch erano colorati, economici e da collezionare: il caso della loro creazione è una specie di manuale su come si crea un marchio di enorme successo commerciale, ma anche la storia di come un singolo prodotto riuscì a far ripartire un comparto economico un tempo molto florido ma che stava lentamente fallendo a causa della concorrenza da altri paesi.
Le aziende svizzere erano da sempre state all’avanguardia nella produzione degli orologi. Anche se furono resi popolari dal francese Louis Cartier negli anni della Prima guerra mondiale, quelli da polso erano stati un’invenzione della Patek Philippe, che li aveva creati vicino a Ginevra nella seconda metà dell’Ottocento. La Svizzera fu la principale produttrice ed esportatrice degli orologi che si vendevano e acquistavano nel mondo fino al secondo dopoguerra, quando il suo dominio quasi assoluto venne scosso dal lancio degli orologi TIMEX americani, che per alcuni meccanismi usavano metalli duri invece di pietre preziose.
Gli orologi svizzeri comunque continuarono a essere considerati i migliori e i più precisi sul mercato fino agli anni Settanta, quando iniziarono a risentire della crescente concorrenza di quelli prodotti in Giappone.
La crisi del settore in Svizzera cominciò con l’entrata sul mercato dell’Astron di Seiko, il primo orologio al quarzo al mondo, messo in vendita il giorno di Natale del 1969. L’Astron era un orologio da polso analogico, in cui la misura del tempo era scandita dalle vibrazioni – simili a quelle di un diapason – di un piccolo cristallo di quarzo, che garantiva una precisione superiore a quella di qualsiasi altro orologio meccanico. Al di là di quello che succedeva in qualche singolo laboratorio, in Svizzera invece gli orologi continuavano ad essere fatti alla vecchia maniera: oggetti meccanici dalla produzione lenta, eleganti, lussuosi e soprattutto molto costosi.
L’industria svizzera degli orologi aveva fatto il grave errore di considerare gli orologi al quarzo – molto precisi e assai economici – una moda passeggera: a causa della concorrenza di Seiko e di altri noti produttori giapponesi, come Citizen e Casio, perse in pochi anni due terzi dei suoi addetti e la gran parte della propria quota di mercato.
Le cose cambiarono grazie a Nicolas Hayek, un consulente aziendale di Zurigo che nei primi anni Ottanta era stato incaricato di liquidare la SSIH e la ASUAG, due aziende svizzere che erano entrate in grossa crisi a causa della concorrenza giapponese. Grazie al suo intuito e alle sue capacità, Hayek fu considerato l’uomo che salvò l’industria degli orologi svizzera.
SSIH era nata dalla fusione di due marchi storici, Omega e Tissot, mentre la ASUAG era una holding che univa decine di marchi. Entrambe producevano orologi meccanici di alta qualità e a causa della crisi entrambe stavano per vendere i loro marchi più celebri (tra cui Longines, Tissot e Omega) ai concorrenti giapponesi. Hayek tuttavia credeva che le aziende svizzere avessero ancora potenziale: per battere quelle giapponesi però serviva un prodotto nuovo che desse di nuovo vitalità al mercato. Bisognava insomma investire sia sulla tecnologia, sia sul design e sulla pubblicità.
Hayek era nato in una ricca famiglia del nord del Libano e si era trasferito in Svizzera negli anni Cinquanta dopo il matrimonio con la figlia di un industriale del paese. Si convinse che ASUAG e SSIH si potessero salvare e presentò un piano che aveva due punti principali: il primo era la fusione delle due aziende in una sola società; il secondo, il lancio su larga scala di un nuovo orologio sottile ed economico, realizzato tramite un processo altamente tecnologico a cui stava lavorando da alcuni anni un gruppo di ingegneri della ETA, una delle aziende controllate da ASUAG: il progenitore dello Swatch.
L’ingegnere Elmar Mock, uno di quelli che stavano lavorando al prototipo, ha raccontato al Guardian che nonostante nel 1980 la ETA avesse licenziato 4mila persone, lui aveva insistito per investire in un particolare macchinario per lo stampaggio della plastica, rischiando di essere licenziato a sua volta. Aveva proposto di usarlo per provare a produrre un orologio fatto di plastica e disegnato dal suo collega Jacques Müller. L’azienda diede loro sei mesi per idearlo, ma per avere il primo prototipo ce ne vollero 15: alla fine del 1981 avevano prodotto cinque orologi, che come spiega Mock smisero di funzionare cinque giorni dopo. Il gruppo di ingegneri però continuò a lavorarci.
Per produrre gli Swatch la gran parte dei processi industriali fu semplificata e automatizzata, in modo da rendere gli orologi più economici e producibili in massa. La più importante e celebre di queste trasformazioni fu la drastica riduzione del numero di componenti dell’orologio, che grazie ai nuovi sistemi di produzione passarono da più di cento a 51 parti, con i costi di produzione abbattuti dell’80 per cento. Ne risultò un orologio che costava un terzo rispetto a qualsiasi altro modello prodotto in Svizzera, in plastica nera liscia, che tuttavia doveva ancora trovare la propria identità.
Mock racconta che a quel punto l’importante era creare un marchio, e non un semplice prodotto, che avrebbe venduto «forse 500mila copie e poi basta». L’orologio presentato nel 1983 si chiamava “Swatch”, dall’unione di “Swiss” (cioè svizzero) e “Watch” (orologio), come l’azienda, la Swatch Group. La filosofia dietro all’oggetto però era un’altra. Swatch in realtà è anche l’abbreviazione di “Second Watch”, cioè secondo orologio, perché poteva essere quello di riserva, più sportivo rispetto a un altro più pregiato. Oppure, come diceva uno dei suoi slogan, si poteva cambiare tutti i giorni, proprio come una cravatta, con l’idea che i consumatori ne avrebbero potuto comprare più di uno: l’idea insomma era che l’orologio non fosse più un oggetto che serviva solo per misurare il tempo, ma anche un modo per esprimere la propria personalità.
Lo Swatch fu un successo commerciale enorme fin da subito, soprattutto fra le persone più giovani, grazie alle casse e ai cinturini dai colori vivaci e i disegni sgargianti. Oltre alle fantasie astratte e a quelle che riprendevano forme e oggetti che potevano rispecchiare la personalità di chi li indossava, come gli strumenti musicali o gli animali, diventarono fondamentali per la riconoscibilità e l’attrattiva del marchio le linee dedicate a soggetti amatissimi della cultura popolare, dai Peanuts fino, in tempi più recenti, a Dragon Ball, oppure a grandi artisti come Modigliani o Frida Kahlo.
Secondo Hayek, che poi divenne presidente del consiglio di amministrazione della Swatch Group dal 1986 al 2010, quello che fu determinante per il loro successo comunque fu una campagna di marketing molto ampia e ben studiata. «Primo, la qualità più elevata. Secondo, un prezzo basso. E terzo, lo stimolo della società», disse.
Da un lato, spuntarono modelli di Swatch con pensate notevoli, come quelli con il quadrante trasparente che lasciava vedere sotto di sé il meccanismo o quelli profumati. Dall’altro, gli orologi furono sostenuti da campagne pubblicitarie creative e aggressive che li presentavano come prodotti innovativi, alla moda e accessibili, facendoli diventare uno dei simboli della cultura pop del tempo. La Swatch cambiò inoltre il modo di venderli: negli anni Novanta aprì grandi negozi monomarca in luoghi molto celebri, come Times Square a New York o gli Champs Élysées a Parigi, ma investì anche su punti vendita piccoli e molto riconoscibili in posti allora non convenzionali, come le stazioni o gli aeroporti.
Nel giro del primo anno la società vendette più di 1 milione di orologi: nei venti successivi quelli venduti furono oltre 300 milioni. Oggi i negozi monomarca di Swatch sono più di 3mila in tutto il mondo.
Una delle iniziative più note dell’azienda fu la Swatch Art Special (oggi Swatch & Art), un programma avviato nel 1985 grazie al quale artisti e designer noti potevano creare i propri modelli o collezioni di Swatch in edizione limitata.
Parteciparono tra gli altri artisti e stilisti come Damien Hirst e Vivienne Westwood, ma anche Keith Haring, conosciuto per i suoi tipici omini stilizzati, che ne realizzò alcuni dei più famosi. Il fatto che questi orologi fossero sempre diversi, alla moda e alla portata di tutti – costavano l’equivalente di poche decine di euro attuali – li rese accessori ampiamente collezionabili, che praticamente chiunque aveva o avrebbe potuto avere. I collezionisti che non erano riusciti a comprare subito quelli in edizione limitata erano disposti a pagare moltissimo pur di ottenerli.
Nicolas Hayek morì nel 2010, a 82 anni, per un infarto. Ancora oggi la Swatch Group è gestita dai suoi figli, Nayla e Nick Hayek, che sono rispettivamente la presidente del consiglio di amministrazione e l’amministratore delegato dell’azienda. Oltre che produrre i suoi celebri Swatch e i Flik Flak, gli orologi dedicati a bambine e bambini, la Swatch Group controlla un’altra quindicina di marchi, alcuni molto diffusi e altri di lusso, come Longines, Tissot, Breguet e Harry Winston.
Secondo i dati diffusi dall’azienda, nel 2022 le sue vendite sono state superiori del 25 per cento rispetto a quelle dell’anno precedente in tutto il mondo tranne che in Cina, dove sono state frenate dalle restrizioni imposte a causa della pandemia da coronavirus. Oggi continua a produrre orologi Swatch di tantissimi tipi, che costano dai 60 euro in su, per esempio con cassa in bioceramica e cinturino o fibbie in materiali di origine biologica, più sostenibili a livello ambientale.
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