L’assedio di Waco, iniziato trent’anni fa
Per settimane le forze federali americane circondarono il ranch di una setta apocalittica e molto armata: nell’operazione finale morirono 76 persone
Il 28 febbraio di trent’anni fa, nel 1993, settantasei agenti federali americani, con un mandato di perquisizione, si presentarono a un ranch chiamato Mount Carmel Center, nei pressi di Waco, in Texas. Sospettavano che la comunità religiosa che lì risiedeva, i davidiani, stesse accumulando armi, anche prodotte artigianalmente e illegali. In più alcuni fuoriusciti dalla setta avevano denunciato abusi nei confronti di minori. Gli agenti (cioè poliziotti e membri di alcune agenzie governative) erano convinti di cogliere di sorpresa i residenti, che invece li stavano aspettando, armati. Ne nacque un conflitto a fuoco in cui morirono quattro agenti e cinque davidiani, mentre sedici federali risultarono feriti.
Gli agenti ripiegarono, in attesa di rinforzi, che arrivarono imponenti: nel giro di qualche giorno 900 uomini delle forze dell’ordine (locali e federali), con 12 carri armati e quattro veicoli da combattimento avrebbero stretto d’assedio per 51 giorni Mount Carmel. Il blitz che chiuse l’operazione si trasformò in una tragedia: l’edificio in cui i davidiani si erano asserragliati prese fuoco. Alla fine 76 degli appartenenti alla setta morirono, compresi ventitré bambini, due donne incinte e il leader David Koresh.
Colpe e responsabilità nell’assedio di Waco e nella sua conclusione sono state a lungo discusse negli Stati Uniti, dando origine a molte teorie complottiste e a movimenti armati e di opposizione al controllo federale sul possesso di armi. Due anni dopo, per vendicare gli eventi di Waco, Timothy McVeigh e Terry Nichols organizzarono e portarono a compimento l’attentato ai palazzi federali di Oklahoma City, in cui morirono 168 persone.
I davidiani (Branch Davidians, in inglese) erano una setta nata nel 1955 da uno scisma in una corrente apocalittica della Chiesa Avventista del settimo giorno, la Shepherd’s Rod (Il bastone del pastore): le due sette preannunciavano un imminente giorno del Giudizio, con la seconda venuta di Gesù Cristo: in quel giorno dell’Armageddon i fedeli avrebbero dovuto combattere contro le forze del male, Babylon, per la loro salvezza nell’aldilà.
La setta visse anni agitati sin dalla metà degli anni Ottanta: alla morte della moglie del fondatore due possibili eredi si contesero la leadership. Erano George Roden e Vernon Howell, che più tardi avrebbe preso il nome di David Koresh: prevalse quest’ultimo, ma solo al termine di lunghi conflitti, fra confronti armati e processi in tribunale in cui si parlò anche di vilipendi di cadaveri e furono portate bare in aula come possibili prove. Roden fu infine internato in un ospedale psichiatrico dopo aver ucciso un discepolo con un’ascia, e Howell/Koresh divenne il leader della comunità.
David Koresh (cambiò legalmente il suo nome nel 1990, quando aveva trent’anni) raccolse intorno a sé un centinaio di fedeli, di cui almeno una trentina di britannici, in una comunità rurale composta di case di legno in una zona piuttosto depressa del Texas. Aveva molta capacità di convincere e plagiare le persone con cui veniva a contatto: diceva di essere un profeta e di parlare direttamente con Dio. Dio gli avrebbe ordinato di avere molte mogli, per far nascere un gran numero di figli che lo avrebbero aiutato nel post-armageddon.
Era già sposato con una ragazza quattordicenne (un matrimonio legale per le leggi del Texas se i genitori danno il consenso), ma dopo l’annuncio nella comunità ogni donna o ragazza dai 12 anni in su era da considerarsi sua sposa e doveva fare sesso con lui a scopo riproduttivo. Gli uomini della comunità, anche quelli fino a quel punto mariti delle sue nuove spose, si sarebbero “elevati” nel celibato e nello studio della Bibbia.
Le presunte comunicazioni divine avevano aspetti grotteschi (gli era stato indicato anche che utilizzasse l’unica abitazione con aria condizionata) e risvolti legali, visto che furono segnalati da fuoriusciti dalla setta abusi su almeno tre minori.
Un’altra questione erano le armi: la comunità davidiana iniziò ad accumularne parecchie. I fedeli compravano e rivendevano armi, modificandole, con un duplice fine: da una parte finanziavano la comunità, dall’altra preparavano un arsenale che sarebbe stato necessario per la battaglia decisiva, quella che secondo Koresh avrebbe preceduto l’apocalisse e in cui i fedeli sarebbero dovuti morire come martiri precedendo la fine dei giorni e guadagnandosi la vita eterna. A Mount Carmel c’erano armi semiautomatiche, automatiche, ma anche granate e bombe di costruzione artigianale.
Le denunce dei pochi che erano usciti dalla setta e alcune inchieste giornalistiche convinsero gli enti federali che bisognava intervenire: il fine del primo blitz era verificare l’esistenza dell’arsenale e arrestare Koresh ed eventuali altri capi della comunità per le accuse di abusi sessuali. Il blitz fu condotto inizialmente dagli agenti del Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives, l’agenzia federale che si occupa tra le altre cose del possesso di armi da fuoco ed esplosivi (ATF). Fu gestito con un ampio dispiegamento di forze e poche precauzioni: si trasformò in una sparatoria durata oltre due ore, che fece 9 morti. Le due parti si sono reciprocamente accusate di aver sparato per prime, una conclusione certa su come tutto sia iniziato non è mai arrivata.
Dopo i fatti del 28 febbraio l’FBI prese il controllo delle operazioni. La comunità diede il colpo di grazia a due fedeli che erano stati feriti in modo grave nella prima sparatoria e poi bruciò nel cortile del ranch in una cerimonia improvvisata i cadaveri dei sei morti (un sesto membro della setta era stato ucciso in circostanze poco chiare alcune ore dopo il cessate il fuoco). Koresh mantenne per qualche tempo i contatti con i media locali attraverso il telefono: la comunità aveva un buon rapporto con i residenti della zona. Poi gli assedianti, che arrivarono a essere 899, fra agenti federali (FBI e US Marshals), Texas Rangers, polizia di stato e locale, tagliarono i cavi telefonici e mantennero i contatti con una linea dedicata per trattare la resa dei davidiani.
Dopo pochi giorni Koresh accettò di arrendersi pacificamente a patto che un suo discorso fosse trasmesso su una radio: le autorità lo permisero, ma poi il leader disse che Dio gli aveva comunicato di continuare ad attendere all’interno.
La comunità fece filtrare alcune videocassette in cui veniva raccontata la vita del gruppo e si mostrava la presenza di almeno una quarantina di bambini (14 erano presentati come figli di Koresh): nel corso delle trattative ne furono rilasciati 21 (con 14 adulti), ma 23 rimasero all’interno. Al suo culmine, l’operazione di assedio costava un milione di dollari al giorno e impiegava una decina di veicoli da combattimento per fanteria Bradley e due carri armati Abrams da 70 tonnellate: un dispiegamento di forze da guerra, dentro gli Stati Uniti. Vennero utilizzate anche tattiche di “guerra psicologica” per cercare di spingere i davidiani alla resa. L’FBI cercò di privarli del sonno, trasmettendo notte e giorno musica pop ad alto volume, registrazioni di turbine di aerei e persino versi di agnelli durante il macello.
L’assedio fu criticato da vari studiosi di culti “apocalittici”, che sottolineavano come il modus operandi delle forze dell’ordine potesse consolidare la credenza dei davidiani di trovarsi di fronte al “confronto finale” nel giorno del Giudizio. Dopo 40 giorni le trattative si fecero sempre più complesse e l’FBI iniziò a temere che la comunità potesse scegliere un suicidio di massa, come avvenuto nel 1978 a Jonestown.
La procuratrice generale Janet Reno e il presidente Bill Clinton autorizzarono un blitz per chiudere l’assedio: il 19 aprile alle 8 di mattina due veicoli corazzati vennero utilizzati per forare l’edificio principale e pompare all’interno gas lacrimogeno, nell’intento di costringere i presenti ad uscire. Dopo quattro ore, però, gli assedianti cominciarono a vedere fumo provenire dall’interno: era probabilmente provocato dalla concentrazione di gas, dalla presenza di benzina e di molti materiali infiammabili. Le fiamme cominciarono a svilupparsi, un contenitore di propano esplose, quando l’incendio si spense l’edificio era completamente distrutto.
Solo nove davidiani uscirono vivi dall’assedio, in 76 morirono, soffocati, bruciati vivi o per le esalazioni del fumo. Nel bunker sotto l’edificio principale furono però trovati venti cadaveri con segni di ferite letali da arma da fuoco o coltello: probabilmente per suicidi o esecuzioni consensuali. Fra questi c’era anche David Koresh, che aveva una ferita da arma da fuoco alla testa. Secondo alcune conclusioni processuali, inoltre, molti degli assediati avrebbero avuto tempo per sfuggire alle fiamme, se avessero voluto o gli fosse stato concesso.
Le azioni legali delle famiglie delle vittime furono respinte dopo sette anni di processo: si stabilì che gli agenti avevano agito correttamente. Ma per una gran parte degli americani quell’episodio divenne l’esemplificazione del modo approssimativo e pieno di errori con cui agivano le agenzie federali. Per una parte più piccola e più estremista si trattò di un’ingerenza dello stato per limitare le libertà di una comunità di possedere armi e praticare una propria religione.
Attorno a Waco si svilupparono molte teorie complottiste e in risposta a quei fatti molti americani, di destra e armati, costituirono milizie paramilitari che hanno costituito un problema di difficile gestione per i decenni successivi. In una di queste milizie si formarono e radicalizzarono i due attentatori di Oklahoma City, che piazzarono le bombe che causarono 168 morti proprio nel secondo anniversario dell’incendio di Mount Carmel.
Waco è comunque diventato un esempio di come non gestire crisi di questo genere e relazioni con culti religiosi o assimilabili: pochi anni più tardi l’assedio del Montana Freemen, una setta cristiana anti-governativa, fu condotto con molta più prudenza e portò alla resa dopo 81 giorni, senza vittime.
Inchieste giornalistiche e libri usciti in questi trent’anni hanno poi sottolineato come la maggior parte dei pochi sopravvissuti davidiani non abbiano mai rinnegato quelle credenze o il loro leader, a differenza di fedeli plagiati in altre sette, ma continuino a vedere quell’assedio e la tragica fine come l’evento decisivo preannunciato con chiarezza da Koresh.