Perché le pubblicità online sono sempre peggio
Soprattutto sui social la “targettizzazione” spesso non funziona più: c'entra la crisi delle piattaforme, e una decisione di Apple
Il settore delle pubblicità online si è sempre basato su un meccanismo piuttosto rodato, in cui aziende come Google mettono in vendita spazi digitali ad altre aziende, che possono raggiungere il pubblico ritenuto più giusto per le loro esigenze grazie alle informazioni personali sugli utenti raccolte dalla stessa Google, o da social network come Facebook. La cosiddetta “targettizzazione” degli annunci dovrebbe quindi garantire agli inserzionisti di raggiungere il pubblico ideale e più disposto a pagare per i loro prodotti o servizi.
Nel corso degli ultimi mesi, però, molti utenti hanno notato un progressivo peggioramento della qualità delle pubblicità che vengono loro mostrate. Il problema sembra riguardare siti e piattaforme diverse tra loro ma interessa soprattutto i social network, il cui modello di business pubblicitario sta attraversando una fase di crisi e trasformazione.
Il New York Times ha cercato di capire il motivo di questo peggioramento delle inserzioni, raccogliendo testimonianze da diversi utenti che hanno raccontato di ricevere sempre più spesso annunci completamente fuori luogo e – soprattutto – fuori “target”: una di loro, una bibliotecaria statunitense, ha per esempio fatto una lamentela in cui è facile immedesimarsi: dice che recentemente vede pubblicizzate aziende specializzate nel commercio di oro, o di strani utensili da cucina che sembrano uscire da una televendita, tutte cose che non le interessano affatto. «Mi sembrano pubblicità da reparto occasioni del supermercato» ha spiegato, «il genere di cose che si vedono in televisione a tarda notte».
Tra le piattaforme che accusano maggiormente il fenomeno c’è Twitter, social network che sta vivendo un periodo complicato da quando Elon Musk ne ha preso il controllo, licenziando migliaia di dipendenti e dando inizio a una controversa nuova fase dell’azienda. Tra le prime decisioni dell’imprenditore c’è stata una riforma dei termini d’uso del social network, resi molto più permissivi per favorire una libertà d’espressione che Musk riteneva fosse messa in pericolo dalla precedente gestione. Contemporaneamente, è stata resa meno centrale la moderazione dei contenuti (pubblicità incluse), per gli stessi motivi libertari.
Questo ha presto portato a un aumento del cosiddetto hate speech, ovvero espressioni d’odio e appelli alla violenza contro persone appartenenti a minoranze e gruppi storicamente marginalizzati, portando a una crisi d’immagine che ha spinto molte aziende a interrompere le proprie campagne pubblicitarie nella piattaforma. CNN ha recentemente calcolato che «più della metà dei mille più grandi investitori di Twitter ha smesso di investire» nel social network. Oltre che un problema finanziario per l’azienda, questo calo di pubblicità da parte delle aziende più prestigiose contribuisce a rendere più evidente la scarsa qualità delle inserzioni rimaste, relative a realtà minori.
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Qualcosa di simile avviene anche altrove, a conferma di una tendenza che non si esaurisce nelle decisioni di Musk ma sembra avere cause sistemiche. Secondo la giornalista del New York Times Tiffany Hsu, il singolo evento che ha avuto le conseguenze maggiori nel peggioramento – percepito o effettivo – della qualità della pubblicità online è stato il rilascio della funzione App Tracking Transparency (ATT), presentata da Apple nell’aprile del 2021. ATT è stata un’aggiunta importante a iOS, il sistema operativo di iPhone, con la quale, ogni volta che un’applicazione installata nel dispositivo richiede il tracciamento dell’utente a fini pubblicitari (o di raccolta dati in generale), compare un avviso che chiede all’utente se vuole permetterlo o meno.
Anche se misurare la percentuale di utenti che la utilizzano è difficile, APT sembra avere avuto un notevole impatto nel settore pubblicitario digitale, compromettendo il modello di business delle principali piattaforme del settore dei social, in particolare Meta (il gruppo che comprende Facebook e Instagram). Senza tracciamento dei dati, questi servizi hanno meno informazioni per calibrare precisamente quali inserzioni mostrare a chi. Il risultato è quindi una minore accuratezza delle campagne pubblicitarie, come le pubblicità di compro oro mostrate a chi non ha alcun interesse nell’argomento.
Ancora una volta, il fenomeno sembra dipendere da ragioni meno contingenti della gestione di Twitter o dello scontro tra Meta e Apple, il contesto di concorrenza aziendale che secondo gli analisti ha portato all’introduzione della funzione APT. Secondo un sondaggio condotto su 43 multinazionali (che insieme investono più di 44 miliardi di dollari in pubblicità), il 30% avrebbe scelto di tagliare il budget relativo al marketing digitale per l’anno in corso.
Un recente report realizzato da Insider Intelligence, una società di ricerche di mercato, ha notato che il settore della pubblicità digitale ha rallentato molto, pur rimanendo in crescita. Lo scorso anno, Meta aveva registrato il primo trimestre in perdita della sua storia, mentre le vendite pubblicitarie di YouTube sono scese dell’8% e l’intero settore digitale è stato interessato da una serie di tagli al personale. A peggiorare le cose per Meta è arrivata una multa da 390 milioni di euro per aver violato il regolamento sulla privacy dell’Unione Europea, che richiederà all’azienda di richiedere il consenso agli utenti per il tracciamento dei dati che li riguardano.
La concomitanza di eventi sembra aver generato un circolo vizioso i cui effetti sono ormai riscontrabili navigando online: i mancati introiti pubblicitari hanno spinto alcune piattaforme ad abbassare il prezzo di vendita delle inserzioni, permettendo ad aziende più piccole di comprare pubblicità online, producendo annunci di bassa qualità. A tal proposito, il New York Times ha citato Corey Richardson, vicepresidente dell’agenzia pubblicitaria fluent360, secondo il quale queste aziende «prendono tutto il denaro che possono, qualsiasi cosa passi il convento».
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In una generale crisi del sistema che per anni aveva consentito la raccolta indiscriminata di informazioni riguardanti gli utenti, la realtà digitale che si distingue di più è forse Amazon, che può tuttora contare su grandi quantità di dati su cui basare il proprio network pubblicitario. La presenza di annunci pubblicitari all’interno del sito si è fatta sentire sempre di più negli ultimi anni, accrescendo la rilevanza della piattaforma in un settore tradizionalmente dominato da Google e Facebook.
Negli Stati Uniti, Amazon attira più dell’11% della spesa totale pubblicitaria digitale, una quota che sembra destinata a crescere. La maggiore attenzione riservata alla pubblicità online ha avuto delle conseguenze anche qui, come ha raccontato il giornalista del New York Magazine John Herrman in un articolo su come i risultati di ricerca di Amazon si siano riempiti di «spazzatura», sotto forma di prodotti di scarsa qualità le cui descrizioni sembrano pensate per vincere i favori dell’algoritmo più che per descriverne le qualità.
Così come il modello di business di Meta è stato messo in dubbio da Apple e dai nuovi regolamenti internazionali, il maggiore peso della pubblicità all’interno di Amazon ha cambiato gli equilibri del sito. Come spiegato dal Wall Street Journal, a ricorrere a questo tipo di investimento pubblicitario sono soprattutto i rivenditori esterni – aziende terze che usano Amazon come piattaforma di vendita –, che puntano a promuovere i loro prodotti nei risultati di ricerca. Herrman ha notato come sia questo insieme di aziende di ogni dimensione e provenienza a contribuire a quella che ha chiamato junkification del sito («junk» significa spazzatura), considerata tra le principali cause del calo di fiducia da parte degli utenti accusato da Amazon a partire in particolare dal 2020.
Eppure, secondo il New York Magazine, nonostante il danno all’immagine e le conseguenze sull’esperienza degli utenti, Amazon non può fare a meno delle entrate garantite dal settore, arrivato a valere più di Amazon Web Services, la divisione dedicata all’infrastruttura web e al cloud computing che da anni è uno degli affari più profittevoli per il gruppo. Secondo Herrman, «lasciare che un altro metta in vendita prodotti di altre marche nella tua piattaforma è spesso più profittevole di vendere da solo i tuoi stessi prodotti a basso prezzo».