L’incendio che fece da pretesto per instaurare la dittatura nazista
90 anni fa il Reichstag, la sede del parlamento tedesco, prese fuoco in circostanze mai chiarite: Hitler non aspettava altro
La sera del 27 febbraio 1933, novant’anni fa, a Berlino faceva un gran freddo. C’erano circa -5 °C e un forte vento proveniente da est spazzava la piazza e le aiuole di fronte al Reichstag, il palazzo che per decenni era stata la sede del parlamento del Reich (impero) tedesco e nel 1933 manteneva lo stesso utilizzo col nuovo regime, la cosiddetta Repubblica di Weimar. Poco dopo le 21 un gruppetto di passanti udì un rumore di vetri rotti proveniente dall’interno del palazzo e poi vide alcune sagome attraverso le finestre, con un bagliore di fiamme: corsero ad avvertire l’agente di polizia Karl Buwert, che disse loro di andare a dare l’allarme alla centrale vicina mentre lui avrebbe perlustrato l’interno.
Passarono circa venti minuti prima che accorressero altri agenti di polizia e che arrivassero i vigili del fuoco. Alle 21:27 era già troppo tardi per salvare l’aula principale del Reichstag da un incendio che apparì fin da subito di origine dolosa. Mentre i vigili si apprestavano a intervenire, da dentro l’aula si udì una forte esplosione e le fiamme fecero saltare la copertura di vetro del palazzo.
Le perlustrazioni e le indagini degli agenti per capire cosa fosse successo iniziarono subito. All’epoca la Germania non stava attraversando un periodo politico tranquillo: appena quattro settimane prima Adolf Hitler era stato nominato cancelliere dal presidente Paul von Hindenburg, che faticava a sanare le profonde fratture sociali e politiche nel paese. Hitler era leader del partito nazista, il più votato, ma le due tornate di elezioni nazionali nel 1932 non avevano portato a una maggioranza parlamentare stabile che potesse esprimere un governo. Tuttavia Hitler sembrava avere un consenso nel paese sufficiente a prendersi il potere anche da solo, e quindi Hindenburg lo nominò cancelliere su suggerimento di due politici di destra molto influenti, Franz von Papen e Alfred Hugenberg, che entrarono in coalizione con lui per formare il governo (e con la promessa che avrebbero tenuto Hitler sotto controllo).
Subito dopo però Hitler chiese a Hindenburg di sciogliere il parlamento eletto pochi mesi prima per cercare una nuova maggioranza, più solida. Vennero organizzate nuove elezioni per marzo.
Nel frattempo il governo introdusse restrizioni e divieti per le organizzazioni politiche di sinistra, chiudendo a intermittenza gli organi di stampa e aumentando gli interventi mirati delle forze dell’ordine per interrompere riunioni e comizi politici. C’erano frequentissimi scontri violenti tra le cosiddette camice brune, il reparto paramilitare affiliato al partito nazista e creato da Hitler nel 1921, ed esponenti del Rotfrontkämpferbund, l’organizzazione armata del partito comunista tedesco.
Ma l’evento che più di altri aprì la strada alla dittatura fu proprio l’incendio al Reichstag. La sera del 27 febbraio, mentre i vigili cercavano di contenere l’incendio, nei pressi del palazzo venne trovato dalla polizia un agitatore comunista olandese, Marinus van der Lubbe. Era semisvestito e in tasca aveva il passaporto e un coltello a serramanico. A trovarlo furono l’agente di polizia Helmut Poeschel e il custode del palazzo, Alexander Scranowitz, che furono certi di aver individuato il responsabile dell’incendio. Gli chiesero perché lo avesse appiccato e lui rispose che lo aveva fatto per protesta, aggiungendo poi di aver agito da solo.
Hitler e il suo partito approfittarono dell’occasione e riuscirono a far passare l’incendio al parlamento come parte di un più ampio tentativo comunista di prendere il potere con la forza, senza tuttavia portare prove a sostegno dell’accusa. I più stretti collaboratori di Hitler, Joseph Goebbels e Hermann Göring, andarono sul luogo dell’incendio la sera stessa insieme a lui. Incontrarono anche un altro membro della coalizione di governo, von Papen, a cui Hitler disse: «Questo è un segno divino. Se davvero questo incendio è opera dei comunisti, come credo, allora dobbiamo schiacciare questo parassita con un pugno di ferro».
La prima risposta all’incendio fu che le camice brune arrestarono circa 4.000 persone, le imprigionarono e le torturarono la notte stessa. Poi nel corso della notte il presidente Hindenburg emanò un decreto speciale “per la protezione del popolo e dello Stato”, caldamente suggerito da Hitler.
Il decreto abolì la libertà di espressione, di riunione e associazione, di stampa. Ampliò i poteri delle autorità, che poterono intercettare la corrispondenza di privati cittadini e metterli sotto sorveglianza praticamente in qualunque momento. E sospese l’autonomia degli stati federali. Alle elezioni della settimana successiva, nonostante tutto, i tedeschi elessero 81 deputati comunisti, molti dei quali però nei giorni successivi vennero arrestati lasciando campo libero al partito nazista, che aveva preso più del 43 per cento dei voti.
Nel cammino che avrebbe portato alla dittatura piena, con la completa soppressione degli avversari politici, il decreto dell’incendio al Reichstag fu di fatto uno dei primi passi, e forse il più importante. Nei mesi successivi seguirono altre leggi speciali che diedero poteri sempre più ampi al partito di Hitler: una di queste prevedeva che se Hindenburg fosse morto i poteri del presidente sarebbero stati trasferiti al cancelliere.
Il 2 agosto 1934 Hindenburg effettivamente morì e Hitler assunse di fatto il potere assoluto. Da quel momento in poi la sua retorica politica diventò sempre più nazionalista, violenta e antisemita, in un crescendo che avrebbe riportato la guerra in Europa nel giro di pochissimi anni. Con la sua nevrosi nei confronti dei nemici, che fossero ebrei, socialisti o inglesi (che avevano imposto pesanti indennità alla Germania per la Prima guerra mondiale), Hitler compattò la popolazione tedesca e represse i conflitti sociali; al contempo, puntando fortemente sull’industria bellica, riuscì a risollevare l’economia tedesca che veniva da anni di depressione e povertà.
Le vere cause dell’incendio al Reichstag non furono mai chiarite del tutto e sono ancora oggetto di dibattito fra studiosi e storici. Non è mai stato chiarito neanche il ruolo di Marinus van der Lubbe, che nel 1934 venne processato e condannato a morte per l’incendio. Nel 2013 lo storico Benjamin Carter Hett scrisse un libro, Burning the Reichstag, in cui confutava la teoria secondo cui van der Lubbe avrebbe agito da solo: citando testimonianze trovate negli archivi sovietici resi pubblici dopo il 1992, Carter Hett arrivò alla conclusione che van der Lubbe non aveva avuto tempo sufficiente per appiccare un incendio di quelle dimensioni nei pochi istanti che passarono tra la prima segnalazione e l’arrivo della polizia. Doveva avere per forza altri complici.
Alcuni ipotizzano un coinvolgimento dei nazisti nell’incendio, visto che a conti fatti l’incendio al Reichstag fu un clamoroso vantaggio per Hitler. Tuttavia non sono mai state trovate prove sufficienti per affermarlo con certezza, anzi, negli anni passati la teoria veniva bollata come «complottista» anche da storici autorevoli. Dopo il libro di Carter Hett, comunque, il consenso intorno alla teoria di van der Lubbe come unico piromane è diminuito.
Di recente il corpo di van der Lubbe è stato riesumato in un cimitero di Lipsia: innanzitutto per identificarlo, visto che non era certo che la tomba anonima dove si pensava fosse seppellito fosse effettivamente sua. E poi per sottoporlo a esami patologici. Le foto di quando venne processato lo ritraggono con un aspetto emaciato che ha alimentato per anni l’ipotesi secondo cui van der Lubbe sarebbe stato drogato per renderlo più docile al momento della testimonianza e della confessione. I risultati dell’esame sono attesi tra un mese.