Chi si era messo a fare mascherine in Italia ora ha un bel problema
Le aziende che potevano hanno riconvertito la produzione, ma altre stanno chiudendo perché non riescono a competere con la Cina
In uno dei magazzini della CMM di Modena si sono accumulati 5 milioni di mascherine fabbricate negli ultimi mesi e finora invendute. Probabilmente rimarranno lì a lungo. «Non le compra più nessuno, abbiamo fermato le macchine», dice Roberto Vezzosi, il responsabile commerciale dell’azienda. Lo scorso anno, dopo la rimozione delle ultime restrizioni, le vendite dei dispositivi di protezione individuale sono calate in modo rapido e drastico, e ora per chi produce le mascherine le cose stanno andando malissimo: molte aziende hanno chiuso, altre ci stanno pensando, mentre chi aveva convertito parte delle linee produttive è tornato a fare altro.
La cosiddetta filiera italiana delle mascherine, di fatto creata e sostenuta nella prima fase dell’epidemia, è già in crisi.
All’inizio di marzo del 2020, quando ci si rese conto che il coronavirus si stava diffondendo in diversi paesi del mondo e non soltanto in Cina, la domanda di mascherine e di dispositivi di protezione aumentò moltissimo. In Italia il ministero della Salute e la Protezione civile, che cercavano di gestire l’emergenza, si accorsero che non ce n’erano abbastanza nemmeno per garantire un ricambio frequente al personale sanitario al lavoro negli ospedali. Mancavano mascherine chirurgiche e anche le FFP2, le più affidabili contro la trasmissione del virus.
L’allora capo della Protezione civile Angelo Borrelli disse che sarebbero serviti almeno 90 milioni di mascherine ogni mese. Per questo sollecitò la creazione e il sostegno di una produzione nazionale. «Su certi beni così importanti si deve cambiare traiettoria, fare scorte, reinsediare filiere sul territorio», disse Borrelli. La produzione nazionale era necessaria anche perché l’acquisto di milioni di mascherine dall’estero, soprattutto dalla Cina, si rivelò un’operazione molto costosa ed esposta ai raggiri di molti intermediari improvvisati.
Già dalla fine di marzo diverse aziende legate al tessile e alla moda convertirono parte della produzione alla realizzazione di mascherine. Nacquero anche molte nuove imprese che nel giro di poche settimane riuscirono a modificare macchine esistenti o acquistare nuovi macchinari.
L’allora commissario per l’emergenza coronavirus, Domenico Arcuri, annunciò l’avvio della produzione totalmente italiana. «Il 26 marzo un consorzio di produttori italiani inizierà a produrre le mascherine e a dotare il nostro sistema e il nostro paese delle munizioni che ci servono per contrastare questa guerra ed evitare la nostra totale dipendenza dalle esportazioni», disse Arcuri. «Entro due mesi copriremo la metà del nostro fabbisogno».
Le previsioni di Arcuri si rivelarono azzeccate. La CMM, per esempio, spostò gli sforzi dalla produzione di strumenti chirurgici e per la diagnostica alla realizzazione di milioni di mascherine di tutti i tipi. I tre macchinari iniziali divennero presto dodici. Da trecentomila mascherine al giorno si arrivò in pochi mesi a un picco di un milione di mascherine quotidiane. «È crollato tutto un anno fa», spiega Vezzosi. «Nei primi quindici giorni di marzo siamo passati da una richiesta spasmodica al nulla. Non c’è stata una via di mezzo».
Lo scorso giugno il ministero confermò che non era più obbligatorio indossarle al lavoro, ma raccomandò alle aziende di assicurarsi una scorta: gli ordini ripresero soltanto per poche settimane, fino all’inizio di settembre. Negli ultimi mesi l’obbligo di indossarle è rimasto soltanto nelle strutture sanitarie e nelle residenze sanitarie, le RSA. Alla CMM hanno lavorato fino a duecento persone, oggi ne sono rimaste due.
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La 3F Srl di Fara Filiorum Petri, un paese di 1.900 abitanti in provincia di Chieti, è una delle aziende che dal 2020 si è messa a produrre mascherine totalmente realizzate in Italia, dal tessuto alla confezione. Per garantire il “made in Italy” è stato necessario acquistare un macchinario chiamato estrusore: consente di trattare il polipropilene, un materiale plastico fuso per creare microfilamenti. Il risultato è una specie di tessuto chiamato meltblown, che riesce a filtrare le particelle virali. Viene utilizzato anche per la produzione di pannelli per l’isolamento termico e per i filtri dell’olio.
«Ci era stato detto che dovevamo costituire una nuova filiera e l’abbiamo fatto», spiega Giacomo Pieragnoli, che amministra l’azienda insieme alla sorella e al fratello. «Abbiamo assunto nuove persone e creato una nuova industria. Ma negli ultimi due anni i costi fissi sono aumentati moltissimo e ora è impossibile competere. Le tasse e il costo del lavoro è molto più alto rispetto alla Cina e a causa della guerra in Ucraina è cresciuto il prezzo dell’energia».
Il problema principale della scarsa competitività delle aziende italiane riguarda i bandi di gara delle strutture pubbliche, quelli che esprimono la richiesta di forniture di aziende sanitarie, ospedali e in generale dalla pubblica amministrazione. I bandi sono stati via via aperti a tutti, anche a chi importa le mascherine dall’estero, e con prezzi di partenza molto bassi: le condizioni insostenibili hanno impedito agli imprenditori italiani di competere. Per gli importatori, infatti, è molto più semplice proporre offerte vantaggiose perché hanno pochissimi dipendenti – spesso un importatore e un solo magazziniere – e acquistano a prezzi molto bassi da produttori cinesi.
Nelle ultime settimane le cose sono peggiorate. Ai pochi bandi pubblicati dalla pubblica amministrazione hanno partecipato tutte le aziende che vorrebbero liberarsi di milioni di mascherine accumulati nei magazzini. Il prezzo è quindi sceso ulteriormente, fino a 5 centesimi a mascherina, quasi al di sotto del costo di produzione.
Alessandro Rubello, presidente del CEPM, il consorzio europeo produttori mascherine, nato nel 2020 e che rappresenta una ventina di aziende italiane, spiega che l’assenza di regole ha distrutto la filiera italiana appena creata. «Nessuno riesce a stare sul mercato», dice. «Ho partecipato a due audizioni in Senato per spiegare i problemi, ma non è stata fatta una programmazione, non ci sono accordi. Tra ospedali e uffici pubblici, l’Italia ancora oggi ha un fabbisogno che potrebbe essere coperto dalla filiera italiana. Invece purtroppo siamo tagliati fuori».
Le grandi aziende che producono dispositivi di protezione sono discretamente avvantaggiate rispetto a quelle nate nel 2020 perché anche prima della pandemia si misuravano con un mercato già dominato dalla Cina. Anche le aziende tessili che hanno convertito alcune linee produttive hanno subito conseguenze trascurabili dal crollo del mercato italiano: semplicemente sono tornate a fare quello che facevano fino al 2019.
La Miroglio Fashion di Alba, in provincia di Cuneo, marchio storico del settore della moda femminile, ha realizzato 6,5 milioni di mascherine lavabili e riutilizzabili, trattate con idrorepellenti. Per assecondare la grande richiesta, nel 2020 convertì parzialmente anche il proprio stabilimento di confezioni di Casablanca, in Marocco. Esaurita la fase acuta dell’emergenza, dice una nota dell’azienda, il gruppo Miroglio è tornato a concentrare tutte le risorse sul proprio business originale. L’azienda aveva risposto a una precisa richiesta fatta all’epoca dalla Regione Piemonte, che aveva bisogno di mascherine, e quando l’emergenza è finita le attenzioni e gli investimenti sono stati dirottati altrove.
Molti dei produttori che hanno iniziato l’attività durante la prima fase della pandemia invece saranno costretti a chiudere. Oltre ai limiti dovuti ai criteri dei bandi, un altro problema è il calo delle vendite ai privati: rispetto a pochi mesi fa, anche nei luoghi chiusi o sui mezzi di trasporto infatti è molto meno frequente vedere persone che indossano le mascherine. L’unico obbligo rimasto di indossarle, cioè quando si entra in ospedale per una visita o per visitare parenti ricoverati, scadrà il 30 aprile e il governo dovrà decidere se rinnovarlo.
Tre mesi è il tempo che si è dato Yu Xuan, imprenditore cinese che ha fondato la M2020 a Prato, per capire se tenere aperta la sua azienda. Non è molto fiducioso. Ha in magazzino 5 milioni di mascherine chirurgiche e un milione di FFP2, e anche volendo non può utilizzare il tessuto per altri prodotti perché è già tagliato su misura e con una forma ben precisa. «Siamo alla fine», dice Xuan. «Noi abbiamo già cambiato quattro o cinque macchinari investendo molti soldi, però per chi produce in Cina è tutto meno costoso e più veloce».
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