La grande crisi del rugby in Galles
Talmente seria che la Nazionale maschile ha minacciato uno sciopero senza precedenti nel torneo Sei Nazioni
di Pietro Cabrio
Da giorni i giocatori della Nazionale di rugby gallese impegnati nel torneo Sei Nazioni stanno prendendo in considerazione uno sciopero che non avrebbe precedenti a questi livelli. Una decisione era atteso entro mercoledì, dopo un incontro con i dirigenti federali, e per il momento i giocatori hanno deciso di continuare a giocare.
Le ragioni dello sciopero e in generale di questa crisi riguardano lo stesso rugby gallese, che da tempo risente più di altri movimenti delle difficoltà globali del rugby. Col passare del tempo i problemi organizzativi ed economici del Galles si sono ingranditi fino ad arrivare alla Nazionale, la massima espressione del movimento.
Le preoccupazioni dei giocatori sono principalmente contrattuali, ma nascono da un groviglio di altre questioni che partono dal basso e si trascinano da tempo.
Il rugby gallese di alto livello è gestito dalla Federazione, la Welsh Rugby Union (WRU), che oltre a tutte le attività legate alle nazionali, finanzia e supervisiona le quattro squadre professionistiche che si spartiscono grossomodo il territorio nazionale, dette anche franchigie: Cardiff, Dragons, Ospreys e Scarlets.
Queste quattro squadre stanno all’apice dei rispettivi sistemi regionali e li rappresentano ad alti livelli: funzionano insomma come una sorta di imbuto per raccogliere e in teoria ottimizzare i “prodotti” di un paese con una grandissima tradizione rugbistica, ma anche poco abitato (ha circa 3 milioni di abitanti) e senza grandi risorse a disposizione.
Gli effetti della pandemia, tuttavia, hanno peggiorato notevolmente la salute economica di tutto il rugby professionistico, fin dai livelli più alti: gli All Blacks neozelandesi, per esempio, hanno venduto a un fondo d’investimento un pezzo della loro parte commerciale, mentre nel campionato inglese, uno dei più importanti al mondo, ben due squadre sono fallite a stagione in corso.
In Galles queste difficoltà non hanno ancora una soluzione e anzi si sono intrecciate ad altre questioni che riguardano sia la gestione della Federazione, che i giornali britannici spesso definiscono arrogante e amatoriale, sia i cambiamenti in corso nel paese, dove il rugby non sembra più godere di una preferenza così netta da parte della popolazione.
Per sopravvivere dopo le perdite causate dalle restrizioni per la pandemia, le squadre gallesi si sono quindi indebitate e ora stanno diminuendo i loro budget annuali. Di conseguenza hanno in programma di ridurre il numero di giocatori sotto contratto e trattano al ribasso gli eventuali rinnovi.
Molti giocatori attualmente in Nazionale hanno un contratto in scadenza al termine di questa stagione: stanno quindi giocando da almeno un anno senza certezze sul loro futuro, e in diversi casi con stipendi nella norma, se non già piuttosto bassi.
Alcuni di loro hanno parlato apertamente del timore di infortunarsi e restare senza squadra per la prossima stagione, o di non poter comprare casa o in generale pianificare il futuro senza la garanzia di un contratto a lungo termine. Altri hanno rivelato anche di essere sotto cure antidepressive.
Questa precarietà sta inevitabilmente condizionando i risultati della Nazionale, che dopo aver vinto il Sei Nazioni nel 2021 sta passando uno dei periodi più difficili della sua storia. Ha perso 11 delle ultime 14 partite disputate e dopo aver perso per la prima volta a Cardiff contro l’Italia nell’ultimo Sei Nazioni, lo scorso novembre è stata battuta persino dalla Georgia.
A dicembre questi risultati avevano convinto la WRU a richiamare l’allenatore neozelandese Warren Gatland, che aveva lasciato il Galles nel 2019 dopo dodici anni di grandi risultati. I problemi però sono molto più radicati e non riguardano solamente l’aspetto sportivo, come si è visto nelle due sconfitte subite in questo Sei Nazioni contro Irlanda e Scozia, in entrambi i casi subendo più di 30 punti.
Martedì di questa settimana Gatland avrebbe dovuto annunciare le formazioni per la partita di sabato contro l’Inghilterra, ma non l’ha fatto e nella conferenza stampa ugualmente organizzata ha detto che al suo arrivo non era al corrente della situazione in corso. Ha aggiunto che per lui lo sciopero non è la soluzione migliore, ma sembra invece esserlo per i giocatori. Alun Wyn Jones, uno dei più esperti e carismatici, è stato piuttosto chiaro nei giorni scorsi: «Se tratti le persone così male per così tanto tempo, arrivi a questo punto».
Le trattative e i dialoghi intrattenuti negli ultimi tempi hanno peggiorato ulteriormente i rapporti tra dirigenti e giocatori, con questi ultimi che denunciano di essere stati messi ai margini e criticano certi investimenti ritenuti superflui. Ci sono inoltre dei punti su cui si sta trattando dai quali sembra dipendere il raggiungimento di un nuovo accordo collettivo: uno di questi riguarda una norma federale molto criticata da una parte ma protetta dall’altra.
Per concentrare e trattenere i giocatori gallesi in Galles, la Federazione stabilisce che per essere convocati in Nazionale si debba per forza giocare in una delle quattro squadre di club del territorio gallese: si può andare all’estero senza perdere la convocazione soltanto dopo aver raggiunto le 60 presenze con la Nazionale, che sono parecchie.
I giocatori vorrebbero eliminare questo requisito, o perlomeno abbassarlo sensibilmente. Le squadre estere, soprattutto in Inghilterra e in Francia, offrono infatti i contratti più redditizi nel rugby europeo e in questo momento danno garanzie economiche che il Galles non riesce più a fornire.
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