Gli alberi “umani” del carnevale di Satriano di Lucania
In un piccolo borgo montano della Basilicata, il rumìt e altre suggestive maschere sono al centro di un tentativo di rivitalizzare antichi rituali
di Antonio Russo
Da moltissimo tempo a Satriano di Lucania, un paese montano di circa duemila e duecento abitanti in provincia di Potenza, in Basilicata, a carnevale alcune persone si vestono da cespugli vaganti. Indossano un abito che le copre dalla testa alle gambe o alle caviglie, fatto soltanto di tralci d’edera, e impugnano un bastone con dei rami di agrifoglio legati in cima. L’ultima domenica prima della Quaresima, di mattina presto, girano solitari per il paese e strusciano l’agrifoglio sulle porte delle case, per farsi aprire e portare fortuna in cambio di qualche spicciolo o qualcosa da mangiare, rimanendo sull’uscio senza mai parlare.
La maschera del rumìt – versione dialettale dell’italiano arcaico “romito”, che significa eremita – non è l’unica maschera del carnevale di Satriano, che è a sua volta uno dei tanti carnevali lucani valorizzati e promossi dalla Basilicata. È però una delle figure folkloristiche più raccontate, potenti e suggestive della regione: non soltanto per la sua storia, da decenni oggetto di ricerche etnografiche e antropologiche sulle tradizioni e i culti arborei delle civiltà agropastorali dell’Italia meridionale, ma anche per il crescente successo delle sue interpretazioni ed espressioni recenti.
Attraverso attività sostenute da diversi anni dalla comunità di Satriano, in particolare da una numerosa generazione di nati negli anni Ottanta, il rumìt è diventato la figura centrale di un tentativo collettivo e istituzionale di rivitalizzare la tradizione attraverso l’introduzione di nuove ritualità codificate. Sono manifestazioni volontarie che recuperano alcuni valori e significati originali delle maschere ritenuti adatti all’integrazione di temi, sensibilità e istanze contemporanee: come per esempio la sostenibilità ambientale. Le sfilate e le processioni principali si svolgono sabato e domenica dell’ultimo fine settimana di carnevale, e coinvolgono e attirano di anno in anno persone provenienti da diverse parti d’Italia, specialmente da altre regioni del sud, e anche studiosi, fotografi e documentaristi.
Dal 2014, oltre ai pochi rumìt solitari che girano la mattina presto per le strade del borgo, un gruppo di 131 rumìt – che simboleggiano tutti i comuni della Basilicata – attraversa le strade del paese seguito da un lungo corteo festante nell’ambito di un evento del carnevale chiamato “La foresta che cammina”. Il gruppo parte dal parco Spera, un bosco nella parte alta di Satriano (intitolato a una signora che ne era proprietaria e lo regalò al comune). Spera è anche il cognome dell’antropologo Enzo Spera, autore negli anni Ottanta di una dettagliata documentazione di molte tradizioni popolari lucane. La processione prende spunto dalla sceneggiatura di Alberi, un apprezzato cortometraggio sulla maschera del rumìt di Satriano girato dal regista Michelangelo Frammartino e proiettato nel 2013 come videoinstallazione al museo MoMA a New York nell’ambito del Tribeca Film Festival.
«È come se, studiando e raccontando le origini e l’interpretazione delle nostre tradizioni, le avessero fatte scoprire anche a noi» dice riferendosi al lavoro degli antropologi e di Frammartino Rocco Perrone, trentanovenne assessore alle Tradizioni e al senso di comunità di Satriano. Insieme al sindaco Umberto Vita, in carica dal 2019, Perrone fa parte di un gruppo di satrianesi nati negli anni Ottanta che si occupa stabilmente dell’organizzazione del carnevale dal 2012. E che attraverso il lavoro dell’associazione “Al Parco” ha suscitato nella comunità – sia le generazioni più giovani sia quelle più anziane – un interesse più esteso, consapevole e condiviso per riti, maschere e tradizioni del carnevale che erano in declino all’epoca in cui uscì il cortometraggio.
«Quando si seppe che Frammartino sarebbe venuto a Satriano per i rumìt, i rumìt a Satriano non si trovavano», ricorda Antonella, che ha 37 anni. Da 15 vive a Tarragona, in Spagna, ma torna ogni volta in paese per il carnevale. In quell’occasione, nel 2011, furono Perrone e il gruppo di ragazzi che avrebbero poi formato l’associazione “Al Parco” a preparare e indossare le maschere da rumìt, una volta saputo della visita di Frammartino e del suo progetto sul rapporto tra l’essere umano e la natura nelle pratiche rituali del sud Italia (Alberi fu poi girato con le maschere di Satriano ma ad Armento, un altro paesino del Parco Nazionale dell’Appennino Lucano).
Insieme ad altre maschere dei carnevali lucani, quella del rumìt fu estesamente documentata da Spera nel 1980 e descritta in un suo lungo articolo sulla rivista La scena territoriale, uscito nel 1982 dopo una sospensione delle pubblicazioni dovute al terremoto in Irpinia. Sebbene le origini della maschera non siano chiare, la ricerca antropologica avviata dalle osservazioni di Spera ha individuato nel rumìt elementi che lo accomunano alla figura dell’uomo selvaggio presente in vari carnevali d’Italia e d’Europa, a cominciare dal tipo di mascheramento.
«Un tratto caratteristico fondamentale del rumìt è la questua», ricorda l’antropologa Sandra Ferracuti, presente a Satriano sabato e domenica scorsi, autrice di alcuni dei più citati articoli sulle interpretazioni contemporanee delle maschere del carnevale locale, scritti durante la sua attività di ricerca e insegnamento di museologia e antropologia culturale all’Università degli studi della Basilicata.
È la richiesta di un’offerta – in denaro o in beni alimentari, una volta più probabili e graditi – l’elemento che ha permesso alla maschera di sopravvivere nel tempo pur attraverso numerose trasformazioni dei rituali carnevaleschi, soprattutto quelle avvenute tra gli anni Settanta e Ottanta. All’epoca, come ha scritto Ferdinando Mirizzi, docente di discipline demoetnoantropologiche dell’Università degli studi della Basilicata, la questua era ciò che rimaneva di «una pratica di redistribuzione delle risorse alimentari», considerato che fino agli anni prima della Seconda guerra mondiale a chiedere un’offerta non erano adolescenti ma «adulti mascherati da romiti, che si identificavano con gli individui più poveri della comunità satrianese».
Durante la questua il rumìt non oltrepassa mai la porta di ingresso delle case. E non parla, né emette suoni di alcun tipo, a parte quello prodotto sfregando il ramo di agrifoglio sulla porta. Tra le varie ipotesi sull’origine della maschera nei secoli scorsi, suggerisce Ferracuti, alcune collegano il mascheramento alla necessità di nascondersi da parte di persone costrette per qualche ragione a vivere lontano dal centro abitato, nei boschi, ma che ricevevano aiuto e sostegno dalla popolazione.
Secondo una leggenda satrianese, citata da Ferracuti, il rumìt abiterebbe in due strette e profonde grotte naturali che scendono in verticale per decine di metri in due montagne vicino a Satriano. In alcuni racconti popolari le due grotte sono descritte come comunicanti, e si racconta di un cane scomparso in una delle due cavità e ricomparso dall’altra parte, morto e con segni di ustione. Racconti del genere, ipotizza Ferracuti, potrebbero anche avere avuto la funzione di scoraggiare i giovani satrianesi dall’avventurarsi da quelle parti.
Un’altra maschera molto popolare a Satriano, centrale anche nel carnevale di Teana, un paesino montano in provincia di Potenza, è l’urs (l’orso), descritto nella documentazione di Spera come una specie di controparte aggressiva del rumìt. Entrambe le maschere simboleggiano la natura, ma mentre il rumìt è una maschera silenziosa e muta, l’urs è quella che scorrazza per il paese, agitando un grosso campanaccio, e fa danni e dispetti. Un tempo il suo costume era fatto di pelli di pecora o capra, attualmente di materiali sintetici.
Come in altri paesi della rete “Carnevali lucani a valenza antropologica e culturale”, costituita da otto carnevali storici riconosciuti dalla Regione come «patrimonio immateriale», a Satriano è poi molto popolare la maschera da “Quaresima”. A indossarla oggi, oltre ad alcune donne satrianesi che lo fanno per abitudine da decenni, sono soprattutto moltissimi ragazzi e ragazze del paese. È formata da una tunica nera, e prevede di tingere le labbra di rosso e usare sul resto del volto un trucco che ricorda la combinazione di colori del panda (o una specie di Joker di Batman).
Sia nell’aspetto della maschera che nella sua caratterizzazione sono presenti diversi tratti che la ricollegano a un’altra maschera della tradizione popolare di Satriano, descritta da Spera negli anni Ottanta: la vedova bianca. Era «un uomo vestito da donna», che procedeva solitario e per ultimo nella sfilata delle maschere e dei carri: simboleggiava la moglie dell’emigrato, rimasta sola in paese a badare alla prole. Come scrive Mirizzi, la vedova bianca era già all’epoca il risultato di un’evoluzione e reinterpretazione storica delle maschere in funzione dei mutamenti contestuali e dei fenomeni sociali della Basilicata degli anni Sessanta e Settanta: su tutti, l’emigrazione.
La Quaresima, che è una maschera piangente e sconsolata, trasporta anche una culla in equilibrio sulla testa: secondo un’interpretazione citata da alcune Quaresime di Satriano, contiene un neonato concepito durante il carnevale e di cui non si conosce il padre. Secondo un’interpretazione diffusa in altri paesi della regione, dove questa maschera sfila alla fine del periodo di carnevale, la culla contiene Carnevale “morto”, ed è per questo che Quaresima piange.
Le ricerche antropologiche condotte negli ultimi anni sul carnevale di Satriano concordano nell’associare la forza e la vitalità delle maschere alla loro capacità di affermarsi come pratica sociale. E proprio il venir meno della necessità della questua, insieme alla crescente popolarità di maschere e costumi internazionali, aveva probabilmente determinato nei decenni scorsi un certo indebolimento della maschera del rumìt che, scrive Mirizzi, «sembrava preludere a una progressiva estinzione».
Citando Ernesto De Martino, uno dei più influenti antropologi e pensatori italiani del Novecento, anche Ferracuti sostiene che i processi di interpretazione e reinterpretazione delle maschere siano ciò che permette al rito di conservare il suo valore di «dispositivo simbolico»: cioè di permettere all’individuo e alla collettività di superare i momenti di precarietà e di crisi risolvendoli ciclicamente su un piano mitico-rituale.
Sabato 18 e domenica 19 febbraio le maschere di personaggi famosi di favole, videogiochi e cartoni animati erano comunque presenti nelle vie del centro di Satriano, ma in misura molto ridotta e in larghissima parte indossate da persone arrivate da altre regioni. La maggior parte dei satrianesi mascherati di ogni età, e in particolare i più giovani, indossavano maschere tradizionali. E partecipavano con grande trasporto, complicità e allegria alle diverse attività che si sono svolte in paese.
«È stato istituzionalizzato», dice del carnevale di Satriano un uomo di mezza età uscito di casa con sua moglie per fare una passeggiata, non molto interessato alla festa in corso in piazza Umberto, sabato. Delle espressioni recenti del carnevale contesta quella che considera una parziale limitazione della spontaneità dei comportamenti. E cita un invito dell’amministrazione comunale a non partecipare alla sfilata dei rumìt indossando costumi di carnevale non legati alla tradizione. «E se io voglio sfilare con mio figlio vestito da Spiderman, non lo posso fare?», si è chiesto l’uomo sorridendo.
Vincenzo, titolare del bar “O Vecchio Da Vibbò”, il più antico tra quelli del paese, ha raccontato che nei suoi ricordi il rumìt è sempre stato parte della tradizione del carnevale di Satriano. E ha aggiunto che fino a qualche decennio fa la sua presenza era un evento «spontaneo», limitato al mascheramento di alcune persone che giravano da sole la mattina presto nel periodo di carnevale. Nelle sfilate dei carri allegorici, ricorda con un po’ di rammarico, i mezzi erano motorizzati: nella sfilata del sabato sono invece attualmente ammessi soltanto carri senza motore o con motore elettrico.
Del bisogno di mantenere la spontaneità dei comportamenti ed evitare qualsiasi spettacolarizzazione si dice perfettamente consapevole anche l’assessore Perrone. «Il carnevale per rimanere vivo deve essere comunque libero», dice riferendosi al lavoro volontario degli oltre trecento figuranti coinvolti nella preparazione delle maschere.
Da diversi anni la possibilità di indossare il costume da rumìt e partecipare alla “Foresta che cammina”, in programma l’ultima domenica pomeriggio di carnevale, è aperta a tutte le persone interessate, che devono prenotarsi in anticipo. E quindi a formare la processione sono poi anche molte persone non di Satriano, guidate dai satrianesi durante le complicate fasi di vestizione nel parco Spera. Nelle domeniche prima di carnevale viene anche data loro la possibilità di assistere e partecipare alla preparazione delle maschere, fin dal 17 gennaio, giorno di sant’Antonio Abate, quello in cui cominciano ufficialmente alcune delle manifestazioni di altri carnevali lucani della regione.
Preparare 131 costumi da rumìt richiede un certo anticipo, e impegno e costanza da parte delle persone che se ne occupano. Oggi sono soprattutto i ragazzi delle scuole, istruiti e aiutati dai satrianesi più grandi. E le maschere sono avviluppate intorno a reti metalliche di varia grandezza, che saranno poi indossate dai rumìt come armature. Già in questa fase, oltre all’aspetto sociale del rito, emerge l’esigenza di un rapporto molto pratico con l’ambiente: ai ragazzi e alle ragazze viene spiegato che bisogna raccogliere l’edera che abbonda nei boschi fuori dal paese e avvolge gli alberi ma senza reciderla alla radice, altrimenti non ne ricrescerebbe abbastanza per l’anno successivo.
Dal 2019, anno in cui a Satriano arrivarono per il carnevale centinaia di persone in più del previsto, l’evento è a numero chiuso: una scelta suggerita dal fatto che «il paese è piccolo, e finisce che non si godono la festa né le persone che arrivano né la comunità di Satriano», ha detto Perrone. Inoltre le infrastrutture del paese non permettono di gestire un numero ampio di visitatori: dagli spazi disponibili per i parcheggi alla quantità di bagni pubblici al numero di bar e ristoranti.
La limitazione degli accessi non è praticata attraverso la vendita di un biglietto di ingresso in paese, cosa che l’amministrazione vorrebbe evitare proprio per mantenere una certa spontaneità dell’evento. Sono però limitati gli spazi e di conseguenza i posti disponibili per il parcheggio, che occorre prenotare in anticipo sul sito acquistando un biglietto virtuale: serve come stima per capire quante persone arriveranno. Furono circa 5 mila nel 2020, riferisce Perrone: più o meno le stesse previste pochi giorni prima dell’edizione del 2023, dopo due anni in cui il carnevale non è stato organizzato come al solito a causa della pandemia.
Gli organizzatori incentivano le persone a utilizzare mezzi condivisi, come autobus e pulmini a nove posti, che non pagano il parcheggio. E c’è anche un’area con 80 posti per eventuali camper. Raggiunto il numero limite di 500 posti auto circa, dice Perrone, a eventuali persone interessate viene suggerito di partecipare a qualche altro carnevale lucano della rete.
Il carnevale di Satriano ha ricadute positive in termini di indotto: qualche settimana prima dell’inizio delle manifestazioni i circa 40 posti letto nei b&b del paese erano esauriti, e molte persone hanno alloggiato in strutture nei comuni limitrofi, come Brienza e Tito, ma alcune anche a più di 20-30 chilometri da Satriano. Gli incassi sono stati superiori alle aspettative anche secondo la responsabile dello stand dell’agriturismo “La Cantina” di Sant’Angelo Le Fratte, un paese a una decina di minuti da Satriano, che cucinava e vendeva piatti tipici in uno degli stand allestiti in piazza Umberto sabato e domenica.
Il carnevale non è nemmeno l’unica ragione, sebbene sia la principale, per cui le persone visitano il paese. «Satriano è un borgo stupendo e molto ordinato», dice Diana Cimino Cocco, fotografa della rete Comuni-Italiani.it arrivata da Molfetta con un gruppo di 16 persone dell’Associazione fotografica f/64. La prima volta che visitò Satriano, nel 2018, non fu per il carnevale ma per scattare fotografie nel centro storico, peraltro conosciuto fin dalla fine degli anni Ottanta per i molti murales, circa 150, realizzati da diversi artisti sulle facciate delle case.
I murales raffigurano scene di vita quotidiana, mestieri di un tempo, storielle e tradizioni popolari, inclusa quella del rumìt. Fino a qualche tempo fa ce n’era anche uno con l’urs e il rumìt insieme, che però è stato coperto dal cappotto termico fatto installare dalla proprietaria della casa – e della parete – su cui il murale si trovava.