La “derussificazione” dell’Ucraina
I nomi sovietici stanno sparendo dalle vie, come i monumenti di russi illustri, mentre vengono limitati la cultura e l'uso della lingua: la guerra ha accelerato tutto
Un anno fa l’Ucraina ha subito l’invasione della Russia: uno degli effetti indiretti di quell’aggressione in Ucraina è stata una forte spinta a riaffermare la propria identità culturale, prendendo le distanze proprio dalle influenze russe. La tendenza non è nuova in senso assoluto: era comparsa già nel 1991 dopo l’indipendenza del paese dall’Unione Sovietica, si era intensificata nel 2014 dopo il conflitto in Donbass e l’annessione della Crimea da parte della Russia, è diventata più evidente e intensa ora. Ai motivi storici si aggiungono quelli contingenti, in una fase in cui l’Ucraina lotta per salvaguardare la propria indipendenza e la propria cultura.
L’Ucraina in questi mesi ha sostituito i nomi di origine sovietica delle piazze e delle vie, ha rimosso monumenti di scrittori, politici, scienziati e musicisti russi del passato, ha eliminato l’uso della lingua russa da ogni comunicazione ufficiale e ha persino raccolto tonnellate di libri in russo, indirizzandoli verso il riciclaggio della carta. La campagna di “derussificazione” appare condivisa dalla maggior parte della popolazione e degli intellettuali ucraini, anche se c’è chi solleva dubbi e interrogativi su alcune decisioni, ritenute eccessive.
La campagna più ampiamente condivisa è quella relativa alla toponomastica, iniziata subito dopo l’indipendenza, quando furono sostituiti i nomi di vie e piazze principali, spesso dedicate a Vladimir Lenin e altri eroi della rivoluzione o dello stato sovietico. I cambiamenti non coinvolsero inizialmente artisti e scienziati russi: i rapporti con Mosca erano al tempo amichevoli, l’influenza culturale russa era accettata.
Dall’aprile del 2015 una legge del parlamento ucraino vieta espressamente i nomi riferiti alla storia sovietica. Oggi anche le vie dedicate a scrittori come Maksim Gorky o Alexander Pushkin hanno nuove denominazioni: non ci sono solo una diffusa rabbia e un rifiuto di tutto ciò che è russo, ma anche una più razionale volontà di superare secoli di imperialismo e dominazione culturale. Volodymyr Yermolenko, giornalista ucraino, ha scritto su Foreign Policy: «Imporre i propri nomi in ogni città, paese o villaggio è uno degli strumenti che un impero usa per controllare il suo spazio coloniale: ogni personaggio russo a cui veniva intitolata una via era un mezzo per escluderne uno ucraino».
Al rinnovamento della toponomastica è seguita la rimozione fisica dei monumenti: dopo la rivoluzione ucraina del 2014 nacque una campagna chiamata Leninopad, “caduta di Lenin”, con la rimozione delle onnipresenti statue di Lenin nel paese. In questi mesi è stata riproposta con la Pushkinopad: in numerose città ucraine le statue del poeta Alexander Pushkin sono state eliminate. È successo anche a Odessa, dove pure Pushkin ha vissuto per 13 mesi, in esilio: i monumenti a lui dedicati, molto numerosi, sono considerati un simbolo della colonizzazione culturale da parte dei russi. La stessa sorte è toccata alle statue, fra le altre, degli scrittori Anton Chekhov e Lev Tolstoj e dello scienziato Mikhail Lomonosov. Sempre a Odessa un referendum popolare ha approvato la rimozione del monumento di Caterina la Grande, imperatrice del Diciottesimo secolo che fondò la città: è stato trasferito nel seminterrato del museo d’Arte della città.
Con meno unanimità e convinzione, la “derussificazione” ha coinvolto anche il teatro e la letteratura. Il Teatro dell’Opera di Kiev ha messo in scena il balletto “La Regina delle nevi”, tratto da una favola di Andersen, sostituendo la musica di Piotr Tchaikovsky che in precedenza vi era stata inserita. In generale le opere dei compositori russi sono escluse dai programmi dei concerti di questi mesi. Syayvo, una famosa libreria della capitale, ha fatto invece partire una raccolta di libri in lingua russa fra i propri clienti: la carta viene riciclata, i proventi vengono donati all’esercito. Dicono di aver ricevuto già 60 tonnellate di libri negli ultimi nove mesi.
A giugno 2022 il parlamento ha introdotto due leggi che limitano la diffusione di libri e musica russa. Una legge vieta di stampare libri di autrici e autori ucraini che hanno mantenuto la cittadinanza russa dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, a meno che non rinuncino al loro passaporto e acquisiscano la cittadinanza ucraina; l’altra proibisce la riproduzione di musica di artiste e artisti russi – anche in questo caso post-sovietici – sui media ucraini e sul trasporto pubblico, aumentando contestualmente i programmi e la musica di lingua ucraina nelle radio e nelle TV.
La questione della lingua è la più complessa: poco più di un quarto della popolazione ucraina si identifica come russofona. Nel paese i cittadini possono parlare il russo senza che questo implichi discriminazioni, ma da alcuni anni indicazioni e cartelli sono previsti solo in ucraino e inglese. Una legge del gennaio 2022 inoltre impone che ogni pubblicazione a mezzo stampa debba essere in ucraino o accompagnata da una traduzione in ucraino che occupi lo stesso spazio, con lo stesso carattere e gli stessi contenuti. Sono concesse eccezioni per l’inglese e altre lingue dell’Unione Europea, ma non per il russo.
Chi sostiene la campagna di “derussificazione” del paese cita molte ragioni. La prima è una reazione proprio alla negazione dell’esistenza di una cultura e della stessa nazione ucraina da parte del presidente russo Vladimir Putin, che ha ripetutamente giustificato l’invasione definendo gli aggrediti come parte “naturale” della Russia.
Le politiche di “russificazione” delle città ucraine conquistate nella prima fase della guerra sono un altro esempio portato dalle autorità circa la necessità di difendere e sostenere la propria cultura. In città come Mariupol l’esercito russo ha immediatamente modificato la toponomastica, ha cambiato i nomi secondo la traslitterazione russa, ha imposto programmi di studi russi nelle scuole e ha rimosso il monumento alle vittime dell’Holodomor, la carestia creata dal regime sovietico che uccise milioni di persone tra il 1932 e il 1933.
Vengono inoltre citate le numerose occasioni in cui la Russia, e poi l’Unione Sovietica, hanno cercato di limitare o sopprimere lingua e cultura ucraine: nel Diciannovesimo secolo sotto lo zar Alessandro II era vietato usare l’ucraino a scuola, nei libri o negli spettacoli teatrali. Più recentemente durante il periodo sovietico personaggi, scelte e tendenze culturali venivano per lo più imposte dal governo centrale.
Ma al di là delle ragioni storiche, molti dei processi di “derussificazione” sono animati da una reazione tanto emotiva quanto consapevole e fanno parte di un condiviso movimento di resistenza all’invasione. Gli attacchi contro i civili in molte città e le atrocità commesse dall’esercito russo a Bucha e in altri territori occupati hanno provocato una diffusa rabbia: molti ucraini non esitano a definirlo “odio”. Peter Pomerantsev, giornalista ucraino e ricercatore alla Johns Hopkins University, in Maryland, ha detto al New Yorker: «Questa non è solo la “guerra di Putin”. Riflette secoli di cultura russa, tutta la sua società ne è coinvolta. Quindi, in questo senso, è una guerra che dobbiamo combattere contro tutto ciò che è russo».
Il dibattito in Ucraina esiste, su queste scelte, nonostante una parte dell’opinione pubblica ritenga che non meriti di avere uno spazio finché la guerra è in atto. Osservatori meno coinvolti emotivamente sottolineano come ogni limitazione della cultura russa o russofona finisca per alimentare la narrazione proposta dal regime russo, che sostiene di essere intervenuto per difendere le minoranze oppresse di connazionali. Altri critici rifiutano la condanna dell’intero popolo russo, evidenziando come esista un’opposizione all’attuale politica di Putin, che però al momento non è in condizione di esprimersi. Molti sostengono che un’eccessiva “derussificazione” non possa fare altro che creare altri problemi in futuro.
Queste posizioni al momento sembrano però minoritarie, in un paese compattato dall’invasione e dall’idea che sia in gioco la stessa sopravvivenza della nazione e della sua cultura.