La seconda vita della Tenda Rossa
Nel 1928 permise all'equipaggio del dirigibile Italia di sopravvivere tra i ghiacci per settimane, e ora è stata restaurata grazie a più di dieci anni di lavoro (ma non è rossa)
di Emanuele Menietti e Valentina Lovato
La Sala del Consiglio del Castello Sforzesco di Milano si riempì velocemente: in molti volevano vedere dal vivo la “Tenda Rossa”, che per quasi cinquanta giorni era diventata l’unico rifugio possibile per i nove superstiti del dirigibile Italia nell’Artico. Ne avevano letto per settimane sui giornali, e ora in quella calda giornata di fine agosto del 1928 potevano vederla dal vero, dopo averla immaginata per settimane come un piccolo punto rosso su una grande piattaforma di ghiaccio alla deriva. Quando infine la videro, dietro ai cordoni che impedivano di avvicinarsi troppo, alcuni rimasero sorpresi: la Tenda Rossa di cui tanto avevano letto e sentito parlare non era poi così grande e soprattutto non era rossa.
A quasi un secolo di distanza, ora la Tenda Rossa è nuovamente visibile al pubblico, dopo un lungo e difficile lavoro di restauro condotto dal Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano. In una grande teca, questa sì rossa, uno dei più importanti cimeli delle esplorazioni polari italiane del Novecento può essere osservato nei sotterranei del museo a nove metri di profondità: in futuro sarà collocato in una nuova area espositiva, dove sarà raccontata l’impresa del dirigibile Italia e il ruolo centrale che ebbe quella tenda.
Quasi un secolo fa, la tenda era arrivata a Milano insieme a Umberto Nobile, l’ingegnere e generale della Regia Aeronautica che aveva provato a trasformare un grande e tragico fallimento in un’impresa eroica, raccontata e sfruttata dalla propaganda del regime fascista. Erano gli anni dei nuovi progressi nelle esplorazioni polari, in cui molti paesi concorrevano per dimostrare la propria superiorità scientifica e tecnologica. Dopo innumerevoli tentativi di avvicinamento, negli anni Venti il Polo Nord sembrava essere una meta più semplice da raggiungere, anche grazie ai dirigibili.
E proprio Nobile era stato insieme all’esploratore norvegese Roald Amundsen il protagonista di un primo importante successo nell’Artico. A bordo del dirigibile Norge di costruzione italiana, il 12 maggio del 1926 i due avevano compiuto il primo sorvolo del Polo Nord, dimostrando come i dirigibili avessero grandi potenziali per le esplorazioni geografiche. La spedizione non aveva però consentito di raccogliere molte informazioni scientifiche e cartografiche nell’Artico.
Tornato in Italia, Nobile si era quindi dato da fare per organizzare una nuova spedizione, incontrando non poche resistenze da parte di vari esponenti dell’aeronautica militare italiana, convinti che le spese militari dovessero concentrarsi nello sviluppo e nella costruzione degli aeroplani, che avevano reso secondari i dirigibili militari. Nonostante le resistenze, Nobile si era comunque ricavato una certa notorietà grazie all’impresa del Norge e riuscì a raggiungere qualche compromesso per avviare la nuova missione, che sarebbe stata in parte sostenuta da un comitato finanziatore organizzato con una sottoscrizione a Milano.
L’Italia era un dirigibile semirigido, come il Norge: era lungo 105 metri e aveva un diametro massimo di 19,4 metri. Nella parte inferiore aveva una navicella di comando, cioè la parte dove rimaneva l’equipaggio, e utilizzava tre motori a elica per spostarsi, con la possibilità di raggiungere una velocità massima di poco superiore ai 100 chilometri orari.
Nobile aveva fatto approntare un verricello, che sarebbe dovuto servire per calare due esploratori in corrispondenza del polo. Avrebbero portato con sé strumenti per condurre rilevazioni ed esperimenti, sulle caratteristiche dell’atmosfera e sul magnetismo terrestre, insieme a una tenda – quella tenda – che avrebbe consentito loro di rimanere al riparo per qualche ora su parte della banchisa, il “pack”, prima di tornare a bordo del dirigibile.
La tenda era stata prodotta dall’azienda milanese Ettore Moretti su progetto dell’ingegnere Felice Trojani, collaboratore di lunga data di Nobile. Era a pianta quadrata di 2,7 metri per lato e con una fascia perimetrale alla base di circa 30 centimetri. La parte inferiore aveva la forma di un parallelepipedo sormontato da una struttura piramidale, il cui vertice era a 2,5 metri dal suolo. La caratteristica più evidente era il piccolo tunnel di ingresso “a manica a vento”, pensato per chiudersi su se stesso in modo da ridurre la dispersione di calore verso l’esterno. Su un dirigibile ogni chilogrammo in più conta, per questo la tenda era stata progettata senza una struttura interna vera e propria: c’era un’asta centrale, cui venivano poi assicurati i cavi, cuciti direttamente all’interno del tessuto e posti in tensione assicurandoli ad alcuni picchetti da piantare nel ghiaccio.
La scelta del materiale non fu semplice perché all’epoca le uniche fibre tessili utilizzabili erano quelle naturali, meno resistenti di quelle sintetiche di cui disponiamo oggi. Si decise di utilizzare la seta per via delle sue fibre molto lunghe, che consentivano di produrre un tessuto resistente, ma al tempo stesso flessibile. La seta ha inoltre buone capacità isolanti ed è leggera, particolare non trascurabile per una tenda che sarebbe stata probabilmente spostata varie volte.
La tenda per il Polo Nord erano in realtà due tende, una dentro l’altra. Quella esterna era in tessuto di seta grezza non tinto, mentre quella interna era realizzata in taffetà di seta blu-petrolio. Il doppio strato aumentava la capacità isolante e la colorazione interna era stata pensata per ridurre i rischi di oftalmia delle nevi, un disturbo visivo che si può verificare dopo una lunga esposizione al riflesso dei raggi ultravioletti dalla superficie della neve e del ghiaccio.
Il tessuto fu sottoposto a un processo di impermeabilizzazione e fu dedicata particolare attenzione al fondo della tenda, su consiglio del norvegese Helmer Julius Hanssen, altro grande esploratore polare che nelle proprie spedizioni aveva notato come sotto le tende si formassero spesso pozze d’acqua dovute al parziale scioglimento del ghiaccio su cui venivano montate. Era sufficiente il calore prodotto dal corpo degli occupanti o di una piccola stufa per far sciogliere uno strato d’acqua che impregnava poi il fondo della tenda rendendo molto difficile la permanenza al suo interno.
Dopo avere caricato la tenda, viveri e altre attrezzature, Nobile insieme a un equipaggio di diciassette persone partì con l’Italia da Baggio, vicino a Milano, nella notte del 15 aprile 1928. Il viaggio fu lungo e comprese numerosi scali fino all’arrivo il 6 maggio alla Baia del Re, un lungo fiordo di Spitsbergen, la più grande delle Isole Svalbard e la stessa da dove era partita la spedizione del Norge un paio di anni prima. Nella zona era stata inviata anche la Città di Milano, una nave posacavi modificata per fornire appoggio e gestire parte delle comunicazioni radio con il dirigibile.
Tra l’11 e il 18 maggio, il dirigibile Italia condusse due primi voli artici sia per verificare il comportamento del veicolo esposto alle rigide temperature polari, sia per esplorare zone ancora poco conosciute e fare rilievi cartografici e di profondità del mar Glaciale artico. Considerato il buon risultato ottenuto con il secondo volo, che aveva permesso di coprire circa 4mila chilometri in tre giorni, Nobile confermò l’obiettivo della terza esplorazione: il Polo Nord.
Era da poco passata la mezzanotte del 24 maggio, in meno di 20 ore il dirigibile Italia aveva raggiunto l’obiettivo, ma i forti venti non resero possibile il trasferimento di parte dell’equipaggio sulla calotta polare. Furono gettati dall’alto alcuni oggetti per lasciare traccia del passaggio dell’Italia, compresi una bandiera italiana e il simbolo della città di Milano, i cui privati avevano finanziato una parte importante della spedizione. La mancata discesa non aveva turbato più di tanto il morale delle 16 persone a bordo: c’erano stati festeggiamenti, la canzone “Giovinezza” fu riprodotta con un grammofono e furono inviati messaggi radio a Benito Mussolini, al re Vittorio Emanuele III e a papa Pio XI.
Due ore dopo fu avviata la fase di rientro, ma i forti venti impedirono al dirigibile di allontanarsi dalla zona facendo rotta verso Baia del Re. Ventiquattro ore dopo, non era stato ancora compiuto metà del percorso di rientro, con i motori che non riuscivano a far prendere velocità al dirigibile. La mattina del 25 maggio, complice la stanchezza, Nobile aveva calcolato male la posizione dell’Italia, ritenendo di essere centinaia di chilometri più a ovest di dove in realtà si trovasse. Furono effettuate altre verifiche, ma intanto il dirigibile faticava a mantenere un assetto corretto e perdeva ciclicamente quota.
Alle 10:30 l’Italia si era inclinato verso il suolo dal lato della coda, senza grandi possibilità di manovra dei motori per recuperare l’assetto. La discesa continuò e in meno di tre minuti la coda e la navicella si scontrarono contro una piattaforma di ghiaccio sottostante. L’involucro del dirigibile non subì molti danni, mentre la parte destra della navicella si sfasciò sbalzando verso l’esterno Nobile e altre nove persone dell’equipaggio. Una di loro morì poco dopo a causa di una emorragia interna dovuta all’impatto, i restanti sei membri dell’equipaggio ancora a bordo rimasero intrappolati mentre il dirigibile, ormai più leggero, iniziava a riprendere quota trasportato alla deriva dai venti. Non fu mai ritrovato, così come le sei persone che si era portato via.
I superstiti notarono che sulla banchisa si era sparso del materiale caduto insieme a loro dalla navicella del dirigibile: una radio, strumenti per misurare le coordinate, rifornimenti e la tenda progettata per chi si sarebbe dovuto fermare brevemente al polo nei piani originali della missione. In poco tempo, Nobile e gli altri realizzarono di essere su una grande lastra di ghiaccio alla deriva a nord ovest delle Svalbard. Montarono la tenda stipandosi al suo interno come potevano, considerato che non era stata progettata per nove persone e che due di loro erano ferite. Il marconista Giuseppe Biagi iniziò a trasmettere un messaggio con una richiesta di aiuto, sperando che venisse intercettato dalla nave appoggio Città di Milano, ma senza ricevere per giorni risposta:
SOS Italia. Nobile. Sui ghiacci presso l’isola di Foyn, Nord-Est Spitzbergen, latitudine 80° 37’, longitudine 26° 50’ est di Greenwich. Impossibile muoversi mancando di slitte e avendo due feriti. Dirigibile perduto in altra località.
Il 6 giugno Biagi stava trascrivendo i messaggi che riusciva a captare con la radio, alzò la testa e si voltò verso i propri compagni nella tenda: «Ci hanno intesi!». Dopo 12 giorni trascorsi sulla piattaforma di ghiaccio c’era infine la conferma che la richiesta di aiuto fosse stata ricevuta da qualcuno. Nella tenda si era diffusa una certa euforia, benché fosse evidente a tutti che sarebbe stato necessario molto tempo prima dell’arrivo dei soccorsi.
Sperduti su una piattaforma di ghiaccio nell’Artico, protetti da una tenda di seta color avorio, i superstiti temevano di non essere avvistati dalle squadre di soccorso che avrebbero sorvolato la zona. Il 9 giugno decisero di tingerne parzialmente il tessuto con l’anilina, un liquido oleoso contenuto in fiale di vetro che venivano lanciate dal dirigibile per stimarne la quota e per creare punti di riferimento sul ghiaccio sottostante. L’anilina è incolore, ma a contatto con l’ossigeno si ossida e assume un colore rosso-bruno. Fu in quel giorno che una semplice tenda era diventata la “Tenda Rossa”, un piccolo avamposto tra i ghiacci per nove italiani sopravvissuti alla fine del loro dirigibile che li aveva lasciati lì.
In pochi giorni l’anilina era già scolorita a causa del costante irraggiamento solare dell’estate artica, ma complici le numerose cronache di giornale, nell’immaginario di tutti la tenda sarebbe rimasta per sempre rossa. Era intanto partita una mobilitazione internazionale con varie iniziative per andare in soccorso della spedizione italiana, seppure poco coordinate tra loro. A recuperare i superstiti del dirigibile Italia ci provò anche Amundsen con il suo idrovolante Latham 47, ma scomparve in mare. Amundsen fu una delle nove persone che morirono nel tentativo di raggiungere i superstiti nella Tenda Rossa.
Umberto Nobile fu il primo a essere portato in salvo il 23 giugno, mentre le operazioni di salvataggio per il resto dell’equipaggio terminarono una ventina di giorni dopo. A fasi alterne e ospitando anche alcuni soccorritori rimasti bloccati, la Tenda Rossa fu un riparo sicuro per 48 giorni. Malconcia dopo essere rimasta così tanto tempo esposta agli elementi nell’Artico, fu smontata e portata in salvo insieme al resto dei superstiti. Poco più di un mese dopo era 4mila chilometri più a sud, nella Sala del Consiglio del Castello Sforzesco donata da Nobile a Milano, la città dove era stata costruita.
Negli anni seguenti ci furono polemiche e critiche soprattutto nei confronti di Nobile, per come aveva gestito la spedizione e per essere stato tratto in salvo molti giorni prima del resto dei superstiti. Le cause stesse della fine disastrosa del dirigibile Italia non furono chiarite, al punto che ancora oggi le circostanze di quell’incidente continuano a essere discusse. Tra diatribe e incertezze, la Tenda Rossa rimase l’emblema di quella missione polare italiana. Nella memoria collettiva l’idea che fosse effettivamente una tenda dal colore rosso vivo fu rafforzata dal film La Tenda Rossa del 1969. Mikheil Kalatozishvili, il regista georgiano che l’aveva girato, si era preso alcune licenze, volendo del resto raccontare una vicenda ispirata solo in parte a quella di Nobile.
La Tenda Rossa fu compresa nelle collezioni del Civico Museo Navale Didattico e nei primi anni Cinquanta fu trasferita nel Museo della Scienza e della Tecnica (ora della Tecnologia) all’epoca in fase di costituzione sempre a Milano. Non era sempre visibile al pubblico, passò molto tempo ripiegata nei magazzini e fu esposta un’ultima volta nel 1998 in occasione della mostra per il settantesimo anniversario della spedizione del dirigibile Italia. Negli anni seguenti divenne evidente quanto fosse necessaria una difficile opera di recupero: la seta si era profondamente degradata e c’era il rischio concreto di perdere la Tenda Rossa.
Il restauro fu avviato nel 2008 e affidato a Cinzia Oliva, restauratrice ed esperta nella conservazione e nel recupero dei tessuti. Dai primi esami emerse che la tenda non poteva essere più conservata ripiegata su se stessa in deposito, altrimenti il filato avrebbe continuato a tagliarsi e sgretolarsi. Fu avviata un’analisi coinvolgendo il Laboratorio di Diagnostica dei Musei Vaticani, in modo da pianificare tutti i passaggi e ridurre i rischi. «Abbiamo dovuto pensare prima a tutto il peggio che ci potesse capitare», ha spiegato Oliva raccontando il lungo lavoro di restauro durato anni: «Molte parti erano state rifatte per alcune mostre e allestimenti, abbiamo disfatto e rifatto alcune cuciture originali, senza rimuovere comunque gli interventi precedenti che fanno parte della storia della tenda».
I 48 giorni di costante esposizione al sole nell’Artico, al ghiaccio e al vento avevano accelerato l’invecchiamento del tessuto della tenda, così come alcuni interventi impermeabilizzanti che erano stati effettuati nella sua fase di produzione. La Tenda Rossa era stata inoltre conservata con minori accortezze rispetto a quanto si faccia oggi con cimeli di questo tipo, portando a un ulteriore deterioramento. La parte esterna color avorio e quella interna blu petrolio «avevano perduto la loro tenuta meccanica e non erano più in grado di sostenere il proprio peso» dice Oliva, di conseguenza non si sarebbero potuti utilizzare l’asta centrale e i cavi per tenderla e mantenerla montata.
La tenda si presenta comunque come doveva apparire sulla banchisa quasi 95 anni fa grazie a uno scheletro in alluminio modulare, che è stato realizzato per evitare che il tessuto sia messo in tensione e subisca ulteriori sollecitazioni. Al termine del lungo restauro, durato più di dieci anni, è stata collocata all’interno di una grande teca – ovviamente rossa – per tenerla al riparo dalla luce quando non viene esposta. È una via di mezzo tra una vetrina e un container, come quelli che vengono utilizzati ai poli per i moduli abitativi o per conservare del materiale.
Tutto ciò che poteva essere lasciato per mostrare gli effetti di quei 48 giorni nell’Artico è stato mantenuto. Il tunnel d’ingresso è annerito, per esempio, e ci sono macchie di grasso lubrificante in vari punti, che probabilmente si trasferì sul tessuto quando fu portata a bordo del Krassin, il rompighiaccio che soccorse alcuni dei sopravvissuti dell’Italia.
«La tenda è restaurata ed è “condannata” a essere visibile al pubblico, nel senso che per la sua conservazione è necessario che sia installata e montata come la vedete oggi» ha detto Marco Iezzi, curatore dell’area Trasporto del Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano.
Il restauro ha dato una seconda vita alla Tenda Rossa e la “condanna” permetterà nei prossimi anni a chi visiterà il museo di osservare da vicino un pezzo della storia delle esplorazioni polari italiane. Come in quell’estate di quasi un secolo fa al Castello Sforzesco, probabilmente qualcuno si stupirà nello scoprire che quella Tenda Rossa di cui ancora oggi si parla non è affatto rossa. Eppure, osservando con attenzione e un poco di pazienza, potrà intravedere qualche lievissima traccia del colorante usato dai nove superstiti dell’Italia per farsi trovare sul pack.