Il rapimento dell’imam Abu Omar a Milano, venti anni fa
Sospettato di terrorismo, fu rapito in strada durante un'operazione della CIA: fu un grosso caso giudiziario e politico
Il 17 febbraio di vent’anni fa la CIA, l’intelligence per l’estero americana, rapì per le strade di Milano Hassan Mustafa Osama Nasr, meglio noto come Abu Omar, che al tempo era l’imam della moschea principale della città. Abu Omar era sospettato di terrorismo, ma l’operazione del suo rapimento, una volta scoperta, divenne un gigantesco caso politico, diplomatico e giudiziario, con grosse ramificazioni anche all’estero. Il governo di allora, presieduto da Silvio Berlusconi, fu messo in grave imbarazzo dalla vicenda, e il processo che ne seguì assunse una grande importanza perché fu il primo a occuparsi in maniera diretta del programma di rapimenti illegali condotto dalla CIA in quegli anni, noti come extraordinary rendition.
Abu Omar è un cittadino egiziano che nel 2003 viveva in Italia, dove aveva lo status di rifugiato. Il 17 febbraio, mentre camminava per strada a Milano, fu avvicinato da un uomo, sceso da un’auto FIAT rossa, che parlava italiano e si qualificò come poliziotto, mostrando un tesserino. Gli chiese di mostrare i documenti e di sdraiarsi a terra. Poi, improvvisamente, Abu Omar fu bloccato, bendato, sollevato di peso da due uomini che arrivarono alle sue spalle e trascinato in un furgone che aspettava lì vicino. Nessuno doveva assistere alla scena, probabilmente, ma una donna che frequentava la moschea e che abitava nella via del rapimento, al terzo piano, vide tutto dal balcone.
Abu Omar al tempo aveva 43 anni e aveva avuto una vita piuttosto movimentata: per esempio sostenne in seguito che aveva già avuto contatti non chiarissimi con l’intelligence americana, che avrebbe cercato di assoldarlo. Nel 2003 era a Milano già da diversi anni, ed era diventato imam (cioè la guida spirituale e la persona che dirige le preghiere del venerdì) della moschea più grande della città. Abu Omar, in Italia, era stato indagato per il suo coinvolgimento con il terrorismo internazionale, ma non era mai stato fermato né interrogato dalle autorità italiane. I suoi sermoni da imam erano tuttavia molto estremisti. Lui era sostenitore di visioni fondamentaliste dell’islam e aveva contribuito a organizzare marce e dimostrazioni contro gli Stati Uniti.
Dopo essere stato caricato sul furgone, Abu Omar fu portato alla base militare NATO di Aviano, in provincia di Pordenone, da agenti della CIA. Da lì venne portato in aereo prima a Ramstein, in Germania, e poi al Cairo, in Egitto.
Al tempo, l’Egitto era saldamente governato da Hosni Mubarak, un dittatore laico alleato degli Stati Uniti, e i servizi segreti egiziani collaboravano con quelli americani nella lotta all’estremismo islamico, occupandosi spesso di gestire gli interrogatori e le detenzioni con torture e altri metodi che in Occidente non sarebbero stati legali. Bisogna anche considerare il contesto in cui avvenne il rapimento illegale di Abu Omar: gli attacchi terroristici di al Qaida contro New York e Washington dell’11 settembre 2001 erano avvenuti da meno di due anni, e gli Stati Uniti erano impegnati in una grande “guerra al terrore” durante la quale, molto spesso, sacrificarono la legalità e commisero abusi non necessari nel tentativo di garantire la sicurezza dei propri cittadini.
Abu Omar rimase nelle carceri egiziane per quattordici mesi, senza alcuna accusa formale né alcun processo, e senza che sua moglie, i suoi due figli rimasti in Italia e i suoi amici e familiari avessero idea di dove fosse. Fu messo ai domiciliari nell’aprile del 2004, ed ebbe per la prima volta l’opportunità di chiamare al telefono la moglie e i familiari per dire che si trovava in Egitto. Poi fu riportato in carcere una ventina di giorni dopo. Rimase in un’altra prigione vicino al Cairo per quasi tre anni. Fu rilasciato definitivamente soltanto nel 2007, e si stabilì ad Alessandria.
Le indagini e il processo
La moglie di Abu Omar, Nabila Ghali, denunciò la scomparsa di suo marito il giorno successivo al rapimento, il 18 febbraio, ma per molti mesi le indagini non ebbero particolari riscontri. Le cose cambiarono l’anno successivo, nel 2004, quando Abu Omar uscì per la prima volta dal carcere e poté chiamare sua moglie, raccontando la propria storia: in questo modo, i magistrati ebbero una prima versione dei fatti.
A quel punto, le indagini su Abu Omar si trasformarono in un caso politico e poi diplomatico sempre più grosso. Le indagini mostrarono come il rapimento di Abu Omar fosse stato un’operazione organizzata dalla CIA americana con il sostegno – o quanto meno con l’assenso – dei servizi segreti italiani.
Il governo Berlusconi inizialmente negò di aver mai saputo nulla o di aver collaborato in alcun modo con il rapimento di Abu Omar, ma via via che i legami tra CIA e servizi italiani diventavano più chiari fu messo sempre più in imbarazzo: sia che gli agenti della CIA avessero rapito Abu Omar all’insaputa del governo sia che l’avessero fatto con il consenso italiano, l’operazione metteva comunque il governo in una posizione problematica e difficile da difendere.
Nel 2007 si aprì il processo contro i responsabili del rapimento di Abu Omar, e fu eccezionalmente seguito e discusso: fu il primo processo al mondo che aveva al centro un caso di extraordinary rendition.
Tra gli imputati c’erano 23 cittadini statunitensi agenti della CIA, tra cui i principali dirigenti dell’intelligence americana in Italia, e soprattutto furono messi a processo Nicolò Pollari, il capo del SISMI, che allora era il servizio segreto militare italiano, e il suo vice Marco Mancini, cioè i due massimi esponenti dei servizi segreti in Italia.
Il processo si concluse con la condanna per sequestro di persona di tutti e 23 gli agenti americani, che furono processati in absentia, ma con l’assoluzione di Pollari e Mancini. I due dirigenti del SISMI furono considerati non processabili perché il governo aveva posto il segreto di stato su parte della documentazione necessaria a chiarire il loro comportamento. La decisione del governo Berlusconi di porre il segreto di stato provocò una grossa disputa con i magistrati, ma fu mantenuta anche da tutti i governi successivi, compresi quelli di centrosinistra.
Negli anni successivi i presidenti della Repubblica Giorgio Napolitano e Sergio Mattarella graziarono alcuni degli agenti americani condannati. Napolitano graziò il colonnello Joseph Romano, mentre Mattarella graziò Robert Seldon Lady e Betnie Medero: furono tutti provvedimenti simbolici, perché i tre rimasero sempre lontani dall’Europa, dove era in vigore un mandato di cattura contro di loro.
Nel 2017, poi, Mattarella concesse la grazia parziale a Sabrina De Sousa, un’altra agente della CIA che era stata condannata a sette anni di carcere per il rapimento di Abu Omar. Un anno prima, De Sousa era stata arrestata in Portogallo, dove era in vigore un mandato di cattura europeo emesso dalla giustizia italiana. La pena di De Sousa era già stata ridotta da sette a quattro anni per via di un indulto, e Mattarella la ridusse ulteriormente a tre anni, condizione che permise ai suoi legali di chiedere soluzioni alternative al carcere. A quel punto, i procuratori italiani ritirarono la richiesta di estradizione.
Abu Omar vive ancora in Egitto. È infine stato condannato dalla giustizia italiana per associazione a delinquere finalizzata al terrorismo internazionale: la condanna è avvenuta dieci anni dopo il suo rapimento, nel 2013.