Perché il coming out di Jakub Jankto è importante
Può essere il primo passo verso una libertà che l’arretratezza culturale di certi ambienti sportivi, nel calcio soprattutto, continua implicitamente a negare
di Pietro Cabrio
In un recente rapporto sull’esposizione dei calciatori in Italia a minacce e aggressioni da parte del pubblico, l’Associazione Calciatori (AIC) ha fatto notare come il ritorno negli stadi dopo le restrizioni per la pandemia sia stato caratterizzato da «un sensibile aumento» di cori razzisti e messaggi xenofobi, di insulti verbali e minacce fisiche «in particolare verso i calciatori di vertice, con una concentrazione verso gli stranieri».
Secondo il rapporto «i calciatori neri sono il primo bersaglio degli insulti razzisti», che riguardano però anche i calciatori provenienti dai Balcani o dall’America Latina. Per i calciatori italiani, invece, l’insulto «è spesso legato alla provenienza dalle regioni meridionali».
Il razzismo, l’intolleranza e tante altre forme di violenza sono problemi radicati in tante discipline sportive, e soprattutto nel calcio, lo sport di massa per eccellenza. A chi frequenta gli stadi in Italia, questi comportamenti non suoneranno certo nuovi. Nei nostri stadi, molti dei quali vecchi e spesso trascurati, esistono ancora dei luoghi esenti da molte norme che regolano il funzionamento della nostra società, e sono gli stessi che rendono ancora troppo difficile una reazione adeguata ai casi di razzismo, per esempio.
L’arretratezza culturale del mondo del calcio si nota bene nei contenuti dell’ultimo rapporto dell’AIC, dove non vengono nemmeno citati i casi di omofobia, che invece ci sono eccome: probabilmente perché oggi in Italia non si conoscono calciatori professionisti omosessuali, eppure i professionisti sono circa 7mila.
Nonostante le rivendicazioni ottenute faticosamente nel corso degli anni dalle persone omosessuali nella società contemporanea, il calcio è uno degli ultimi grandi ambiti sociali in cui prevalgono ancora i retaggi culturali del passato, e tra questi una sorta di rifiuto implicito all’omosessualità da parte del cosiddetto “ambiente”.
Per un singolo calciatore il coming out spaventa ancora troppo, non solo all’idea di quello che si dovrà subire dalle migliaia e migliaia di spettatori — gli stessi che ancora continuano a rivolgere versi da scimmia ai giocatori neri — ma anche da avversari e addirittura da compagni di squadra: sono tanti i giocatori, anche celebri, che nel recente passato hanno usato toni inadatti o dispregiativi nei confronti dell’omosessualità.
È un problema che riguarda solo il calcio maschile, dato che in quello femminile le calciatrici vivono liberamente, e pubblicamente, la loro sessualità. Per tutti questi motivi il recente coming out del calciatore ceco Jakub Jankto può rappresentare un punto significativo nel riconoscimento di una libertà che fin qui è stata di fatto negata a centinaia o migliaia di atleti da comportamenti prevaricatori se non apertamente omofobi.
Jankto ha 27 anni, è nel pieno della sua carriera e può essere considerato un giocatore internazionale di alto livello. Attualmente gioca con lo Sparta Praga, una delle squadre di riferimento della Repubblica Ceca, ma è in prestito dal Getafe, club della Liga spagnola, uno dei cinque grandi campionati di calcio europei. Jankto conta oltre 40 presenze con la sua Nazionale e fino a pochi anni fa giocava nella Serie A italiana, dove era stato a lungo tra Udinese e Sampdoria.
Dopo averne parlato tempo fa alla sua attuale squadra, lunedì ha detto a tutti di essere gay con un video breve e diretto di cui rimarranno soprattutto le ultime parole, anche perché fa un certo effetto sentirle pronunciare ancora nel 2023: «Voglio vivere la mia vita liberamente: senza paura, senza pregiudizi, senza violenza, ma con amore. Sono omosessuale e non voglio più nascondermi». Significativo è stato anche il commento della sua ex compagna: «Sarà sicuramente sollevato e non si farà più logorare da questa cosa. Aveva paura che la gente non lo accettasse».
Nel 2021 c’era stato il coming out di Josh Cavallo, professionista in Australia con l’Adelaide United; l’anno scorso invece aveva fatto coming out il primo calciatore inglese in oltre trent’anni, Jake Daniels, delle giovanili del Blackpool. Nel 2014, pochi mesi dopo il ritiro, era stato il tedesco Thomas Hitzlsperger a rivelare la sua omosessualità dopo una lunga carriera passata anche per la Lazio e per la Nazionale tedesca.
Jankto non è quindi il primo calciatore in attività ad essersi dichiarato omosessuale, e il coming out nel calcio non è una gara: ma nessuno lo aveva mai fatto stando nella sua posizione di giocatore internazionale, ampiamente conosciuto e con ancora la prospettiva di molti anni ad alti livelli.
La scelta di Jankto, inoltre, riguarda indirettamente anche due grandi paesi e due fra i maggiori campionati di calcio al mondo, quello spagnolo e quello italiano, la cui grande risonanza potrebbe incoraggiare ad esprimersi liberamente, o perlomeno a non nascondersi anche in privato, tanti altri professionisti che finora non se la sono sentita: e più ce ne saranno, meno sarà considerata una cosa eccezionale.
Il commento scritto dall’AIC a conclusione del rapporto sugli abusi da parte del pubblico sembra seguire questa direzione, anche se non cita espressamente l’omosessualità (e nonostante i suoi ultimi due presidenti abbiano sempre usato toni molto cauti sul tema): «Molti calciatori professionisti, fatti oggetto degli episodi censiti, hanno scelto di reagire avvalendosi della loro presenza mediatica: un atteggiamento costruttivo, educativo, spesso raccolto dai colleghi, dai tifosi e dai media».