C’è troppa sindrome dell’impostore?
Un’esperienza di inadeguatezza in cui molte persone si riconoscono, soprattutto tra le donne, dice molto anche della società in cui vivono
La scrittrice e poeta americana Maya Angelou, una delle letterate afroamericane più influenti del Novecento, parlò una volta di una sua insicurezza ricorrente e per certi versi sorprendente. «Ho scritto undici libri, ma ogni volta penso “ecco, stavolta mi scoprono. Ho fregato tutti, e lo scopriranno”», disse Angelou, descrivendo una sensazione spesso condivisa, non soltanto da altre persone famose e influenti.
Questa particolare sensazione di inadeguatezza, provata e riferita da molti professionisti affermati e persone che abbiano ottenuto successi di qualche tipo, è da tempo nota come “sindrome dell’impostore”. Deriva da un concetto formulato negli anni Settanta dalle ricercatrici e psicologhe statunitensi Pauline Clance e Suzanne Imes, che stavano conducendo uno studio su un gruppo di donne di successo. Ed è descritta come un’esperienza soggettiva di persone che credono di non essere intelligenti, capaci o competenti quanto i risultati da loro conseguiti nella vita suggerirebbero, e che per questo motivo vivono nella paura costante di essere scoperte e screditate.
Clance e Imes notarono che molte persone che riferivano di provare questa sensazione di disagio tendevano ad attribuire il loro successo professionale non a meriti personali ma a fattori come la fortuna, le coincidenze e il tempismo, o persino la loro capacità di ingannare le altre persone. Non inquadrarono però questa sensazione in termini di “sindrome”, descrivendola piuttosto come un’esperienza relativamente comune e, in un certo senso, normale, e diffusa in particolare tra le donne.
In un articolo sul New Yorker la saggista statunitense Leslie Jamison ha scritto della sindrome dell’impostore, dell’evoluzione che l’idea originaria ha in parte subito e del successo che ha ottenuto nel tempo, soprattutto nell’ultimo decennio, superando ogni aspettativa delle ricercatrici che si occuparono di questo argomento circa cinquant’anni fa. Jamison ha scritto inoltre di un’interpretazione critica emersa negli Stati Uniti negli ultimi anni, che descrive la sindrome dell’impostore e la sua popolarità e diffusione come un fenomeno che dice molto più della società che non delle singole persone che riferiscono questa esperienza, per quanto intima.
In base a questa interpretazione la sindrome dell’impostore sarebbe, da un lato, l’effetto di una sensazione di inadeguatezza incentivata da una cultura capitalista che cerca di indurre le persone a impegnarsi sempre di più in quello che fanno: a fare sempre di più e sempre meglio. E dall’altro lato sarebbe una teoria viziata fin dall’origine da una distorsione: perché fu elaborata a partire da un sentimento riferito principalmente da donne bianche all’interno di un sistema politico, sociale ed economico costruito per riconoscere la loro eccellenza, fin dalla scuola e poi anche nel lavoro. Un sistema non costruito invece per riconoscere l’eccellenza di altre persone e altre donne meno privilegiate, che riferiscono più spesso una sensazione opposta alla sindrome dell’impostore: quella di dovere impegnarsi molto più della media per ottenere riconoscimenti anche minimi, a causa di un contesto in cui si sentono penalizzate.
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Clance e Imes si conobbero all’inizio degli anni Settanta all’Oberlin College, in Ohio, quando Clance aveva già un dottorato di ricerca in psicologia conseguito alla University of Kentucky. Ascoltando diverse studentesse dei suoi corsi Clance si era resa conto di una loro diffusa insicurezza, che si manifestava in modi molto simili. Credevano di non aver superato gli esami, anche se poi andavano sempre bene, per esempio. Oppure erano convinte di averli superati per qualche errore nel calcolo dei punteggi dei test, o perché avevano dato l’impressione di essere più intelligenti di quanto fossero.
Dopo aver lavorato in sessioni di psicoterapia individuale con oltre 150 donne di successo in diversi campi, Clance e Imes raccolsero e analizzarono i dati tratti da quelle interviste in un articolo pubblicato nel 1978 sulla rivista Psychotherapy: Theory, Research, and Practice. Intitolato “The Impostor Phenomenon in High Achieving Women: Dynamics and Therapeutic Intervention” (“Il fenomeno dell’impostore nelle donne di successo: dinamiche e intervento terapeutico”), l’articolo si riferiva soltanto alle donne perché, nella loro esperienza clinica, le autrici avevano riscontrato sia una minore frequenza che una minore intensità del fenomeno tra gli uomini.
L’ipotesi di una diffusione della sindrome dell’impostore maggiore tra le donne che tra gli uomini è stata sostenuta nel corso degli anni da altre analisi e approfondimenti. E potrebbe in qualche modo derivare dall’influenza esercitata da preesistenti stereotipi sessisti sulle minori competenze professionali delle donne.
Secondo la saggista statunitense Valerie Young, autrice di un libro di successo sulla sindrome dell’impostore e cofondatrice di un’organizzazione che aiuta le persone a superarla, la maggiore frequenza della sindrome tra le donne potrebbe anche essere associata a una tendenza più comune tra loro che tra gli uomini a spiegare gli insuccessi come il risultato di una loro mancanza di capacità che non come l’effetto di fattori esterni.
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Senza mai utilizzare la parola “sindrome”, Clance e Imes descrissero il fenomeno dell’impostore come un disagio comune: «un’esperienza intima di falsità intellettuale» che portava quelle donne di successo a vivere nella paura costante che una persona di qualche autorità potesse scoprire che erano in verità delle impostore. Dall’articolo, che ebbe da subito una certa circolazione fuori dai contesti accademici, Clance trasse nel 1985 anche un libro, intitolato The Impostor Phenomenon.
Ma è soltanto attraverso Internet e in tempi relativamente recenti, in particolare dalla diffusione dei social media in poi, che l’idea alla base dell’articolo di Clance e Imes è diventata straordinariamente popolare. Al punto che la sindrome dell’impostore – come è stato ridefinito, non da Clance né da Imes, il fenomeno dell’impostore – è oggi una “categoria” di grande successo commerciale e alimenta tutta una micro-industria di libri di auto-aiuto, video e altre pubblicazioni.
Nell’articolo del 1978 Clance e Imes, che nei decenni successivi lavorarono a lungo come terapiste trovando diverse conferme alle loro ipotesi, ricondussero le sensazioni associate al fenomeno dell’impostore ad alcune dinamiche familiari. E individuarono due modelli prevalenti: o le donne avevano un fratello o una sorella maggiore considerato “quello o quella intelligente”, o loro stesse erano considerate quelle superiori ad altri fratelli o sorelle, per intelligenza, personalità, talento o altri aspetti.
Secondo la teoria formulata da Clance e Imes, le donne del primo gruppo erano spinte a cercare fuori dall’ambiente domestico i successi che non ottenevano in casa, ma finivano per dubitare anche di quelli. E le donne del secondo gruppo soffrivano per l’inconciliabilità tra la fiducia incondizionata in loro da parte dei genitori e la possibilità di insuccesso che qualsiasi attività della vita invece comporta. In entrambi i gruppi il disagio nasceva dalla distanza tra i messaggi ricevuti dai genitori e quelli ricevuti dal mondo.
Un’altra caratteristica comune a entrambi i gruppi era che nessuna quantità di impegno e nessun successo erano mai sufficienti a interrompere il ciclo di sensazioni di inadeguatezza che ripartiva ogni volta da capo, per ogni nuova prova da superare.
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Jamison ha scritto di aver ricevuto racconti significativi di esperienze dirette di sindrome dell’impostore, mentre preparava l’articolo per il New Yorker, e di essere stata contattata in particolare da donne nate tra la seconda metà degli anni Sessanta e metà dei Novanta. Erano in gran parte professioniste di successo in diversi settori e donne con un alto livello di istruzione, tra cui una laureata del Trinity College di Dublino e una dirigente di alto livello.
Una persona cresciuta in una famiglia di allevatori di maiali dell’Illinois e che oggi lavora nell’amministrazione di un’università le ha descritto la sensazione che prova ogni volta che partecipa a eventi importanti: «mi sento come se le persone vedessero ancora il fieno tra i miei capelli». E un’altra che lavora da anni e con successo nella produzione artigianale di sidro le ha scritto che a ogni nuova fermentazione pensa: «è la volta che tutti scopriranno che non sai cosa stai facendo».
Non tutte le persone sentite da Jamison hanno però riferito di soffrire della sindrome dell’impostore. Diverse donne nere, tra cui Adaira Landry, una medica del Brigham and Women’s Hospital della Harvard Medical School, hanno detto di non ritrovarsi molto nella descrizione di questi sentimenti di insicurezza e inadeguatezza. E hanno detto di non averli provati così di frequente perché più spesso si sono trovate invece in situazioni in cui la loro competenza o intelligenza erano state sottovalutate, non date per scontate.
«Hanno intervistato un gruppo di donne principalmente bianche prive di fiducia, nonostante fossero circondate da un sistema educativo e una forza lavoro che sembrava riconoscere la loro eccellenza», ha detto Landry contestando il valore dello studio di Clance e Imes. Opinioni come la sua e quella espressa da altre persone compongono da alcuni anni un eterogeneo orientamento di pensiero che contesta l’idea alla base della sindrome dell’impostore e il dibattito che questa teoria ha favorito nel tempo a scapito di altri, considerati più urgenti e necessari.
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In un articolo pubblicato nel 2021 sulla Harvard Business Review e intitolato “Stop Telling Women They Have Imposter Syndrome” (“Smettetela di dire alle donne che soffrono di sindrome dell’impostore”) le scrittrici statunitensi Ruchika Tulshyan e Jodi-Ann Burey descrissero la sindrome dell’impostore come una categoria troppo spesso utilizzata strumentalmente in diversi contesti, per sostenere implicitamente una mancanza di fiducia delle donne in sé stesse. E per ostacolare riflessioni più ampie sulle disuguaglianze sistemiche alla base di quell’insicurezza, che viene così descritta nei termini fuorvianti di una patologia individuale.
Nell’articolo, tra i più condivisi nella storia della rivista, Tulshyan e Burey ricordano che l’impatto del razzismo sistemico, del classismo, della xenofobia e di altri pregiudizi era un argomento del tutto assente nel dibattito ai tempi in cui il concetto di sindrome dell’impostore fu formulato. E sostengono che questa idea abbia distolto le persone e le donne in particolare dal chiedersi quali siano tutti i fattori che regolano l’accesso al mondo del lavoro e determinano il riconoscimento professionale.
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Un’altra interpretazione della sindrome dell’impostore pone l’attenzione su quanto questo fenomeno sia diventato esteso e trasversale, e su come per molte persone sia diventato normale – in alcuni casi, quasi come se fosse dovuto – condividere con gli altri questa esperienza ricorrente di inadeguatezza. Parlando con il New Yorker, la ricercatrice australiana Rebecca Harkins-Cross ha definito la sindrome dell’impostore un concetto utile soprattutto a una cultura capitalista.
«Il capitalismo ha bisogno che tutti noi ci sentiamo degli impostori, perché sentirsi un impostore garantisce che ci impegneremo per un progresso senza fine: lavorare di più, guadagnare di più, cercare di essere migliori di noi stessi e delle persone intorno a noi», ha detto Harkins-Cross.
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Ascoltate dal New Yorker, Clance e Imes hanno in parte condiviso le interpretazioni critiche della sindrome dell’impostore emerse negli ultimi anni, riconoscendo prima di tutto i limiti del campione oggetto della loro ricerca. E si sono dette d’accordo sul fatto che la loro idea sia stata utilizzata negli ultimi tempi come un argomento utile a rafforzare un fenomeno che avrebbe invece dovuto indebolire, dal momento che quell’idea era stata originariamente sviluppata proprio per aiutare le donne a superare le loro insicurezze individuandone l’origine in fattori esterni.
Clance e Imes attribuiscono questo sviluppo imprevisto della teoria a una degenerazione dell’idea alla base del loro articolo degli anni Settanta: degenerazione avviata in tempi recenti dalla progressiva introduzione della parola “sindrome”, assente nei loro testi. E ritengono che questa parola, inappropriata e fuorviante, abbia di fatto favorito una tendenza a diagnosticare qualcosa che in origine era invece descritta in termini di «esperienza», proprio con l’obiettivo di normalizzarla anziché patologizzarla.
Clance e Imes hanno infine contestato l’idea che concentrarsi sulle dinamiche familiari, come fecero loro negli anni Settanta, impedisca o ostacoli di per sé una riflessione sui retaggi delle disuguaglianze, il razzismo sistemico e i pregiudizi sul lavoro. E il loro lavoro, hanno aggiunto, non è mai stato pensato come un tentativo di risolvere questi problemi: obiettivo rispetto al quale sarebbe stato un mezzo ovviamente insufficiente.