C’è una grossa crisi industriale nel florido “distretto degli occhiali”
In provincia di Belluno la Safilo ha annunciato la chiusura di uno stabilimento in cui lavorano quasi 500 persone
Alle 7:30 del mattino di mercoledì 8 febbraio 2022, davanti all’ingresso dello stabilimento della multinazionale italiana degli occhiali Safilo a Longarone, in provincia di Belluno, l’operaio Stefano Grandelis saluta un suo ex collega, ricordandogli che al loro ultimo sciopero insieme c’era la neve. Era il 13 dicembre del 2019 e i lavoratori protestavano contro la chiusura dello stabilimento Safilo di Martignacco, in provincia di Udine, e il dimezzamento di quello di Longarone, dove lavorava Grandelis. Lo sciopero non servì: Safilo chiuse la fabbrica friulana e ridimensionò quella veneta. In totale persero il lavoro 700 dipendenti: 250 a Martignacco, 50 nel deposito di Padova e 400 a Longarone. Grandelis e la sua compagna furono licenziati.
Ora Safilo vuole chiudere anche lo stabilimento di Longarone e a rischiare il posto sono i 475 ex colleghi di Grandelis rimasti. Tre di loro hanno già deciso di dimettersi, per gli altri si prospetta la cassa integrazione o il trasferimento a Bergamo, Padova o Santa Maria di Sala, in provincia di Venezia, dove l’azienda ha gli altri siti produttivi in Italia. Per questo sono tornati a presidiare la fabbrica come tre anni fa. Grandelis è venuto a sostenerli, nonostante abbia trovato lavoro in un’altra azienda di occhiali nel vicino Cadore, una regione montuosa che si estende fino al confine con l’Austria.
Nella provincia di Belluno, soprattutto tra il Cadore e il Longaronese, si produce l’80 per cento degli occhiali italiani. Da queste parti ci sono 606 imprese, che impiegano 11mila lavoratori e fatturano un miliardo e mezzo di euro all’anno. Le quattro società De Rigo, Luxottica, Marcolin e Safilo insieme controllano il 70 per cento del mercato mondiale degli occhiali di fascia medio-alta, vale a dire dal costo superiore a cento euro per ogni paio. Sono però finiti i tempi in cui l’intera economia locale ruotava intorno all’industria degli occhiali. Multinazionali come Luxottica e Safilo sono sempre meno legate al territorio da cui provengono, le proprietà non sono più italiane e le loro strategie sono sempre più globali, mentre le produzioni di componenti sono state in gran parte delocalizzate in Asia.
Il settore degli occhiali in Italia è in forte crescita. Nel 2022 il fatturato complessivo è salito da 4 a 5,17 miliardi di euro, con un aumento del 24 per cento rispetto all’anno precedente. Alla presentazione della più importante fiera del settore, il Mido, che si è svolta a Milano dal 4 al 6 febbraio e ha visto il ritorno delle aziende asiatiche dopo due anni di assenza a causa del Covid, il presidente Giovanni Vitaloni ha detto che «il rimbalzo dopo la pandemia è stato più veloce e forte rispetto al previsto, per merito dell’intera filiera, un patrimonio concentrato nel distretto veneto del bellunese».
A trascinare le vendite sono soprattutto le esportazioni. Il 90 per cento degli occhiali che escono dalle fabbriche venete va all’estero: quasi la metà finisce negli Stati Uniti e circa il 40 per cento sul mercato europeo. Per questo Safilo ha aperto una nuova sede a Secaucus nel New Jersey, a 8 chilometri da New York, considerata “di importanza strategica”, e mantiene una fabbrica a Salt Lake City, nello Utah.
Nonostante il mercato degli occhiali sia in espansione e aziende come Safilo facciano più utili di prima della pandemia, la delocalizzazione della produzione sta portando alla chiusura di alcuni stabilimenti.
Questa volta allo sciopero non nevica come tre anni fa. Il cielo è terso, anche se il termometro segna sette gradi sotto zero e il vento gelido che spazza la valle ne fa percepire ancora meno. Per riscaldarsi, i lavoratori distribuiscono thè caldo. «Hai capito perché da queste parti i licenziamenti li annunciano tutti in inverno?», ironizza il segretario della Filctem-Cgil (Federazione italiana lavoratori chimica tessile energia manifatture) Giampiero Marra, arrivato da Roma per lavorare come verniciatore in un’azienda di occhiali alla fine degli anni Ottanta, quando «era impossibile non trovare un lavoro in questo settore».
All’epoca, racconta, il paese era pieno di piccoli laboratori artigianali e l’intera economia locale ruotava attorno agli occhiali. Si produceva di tutto, dalle lenti agli astucci, dalle armature alle minuterie metalliche. A Calalzo di Cadore, una ventina di chilometri a nord di Longarone, nel 1878 nacque la prima fabbrica di occhiali in Italia. Fu allestita in un ex mulino e i macchinari erano alimentati dall’energia dell’acqua prelevata dal torrente Molina.
Il fondatore di Safilo, Guglielmo Tabacchi, la rilevò nel 1934. Poi, negli anni Settanta, spostò la sede della società a Padova e gran parte della produzione a Longarone, in uno stabilimento costruito grazie ai fondi della ricostruzione dopo il disastro del Vajont. La fabbrica si trova su una sponda del Piave, quasi ai piedi del monte Toc, dal quale la sera del 9 ottobre del 1963 si staccò la frana che precipitò in un invaso artificiale e provocò un’onda di acqua e fango che scavalcò la diga e sommerse il paese, l’intera valle e alcune frazioni vicine uccidendo 1.910 persone.
Fino a quindici anni fa, nello stabilimento erano impiegate 1.300 persone, che arrivavano a duemila se si contavano le aziende dell’indotto, in gran parte artigiani che realizzavano accessori e componenti ma anche magazzinieri, distributori e rivenditori, in un paese con poco più di cinquemila abitanti. «Qui siamo tutti coinvolti, chiudere questo stabilimento per noi significa sradicare un pezzo della nostra identità», dice Lina De Demo, impiegata da 24 anni alla Safilo.
Il 26 gennaio, durante un incontro alla Regione Veneto «nel quale avremmo dovuto discutere di nuovi investimenti», racconta la segretaria della Cgil di Belluno Denise Casanova, l’amministratore delegato di Safilo Angelo Trocchia – un manager proveniente dalla multinazionale britannica Unilever, proprietaria di 400 marchi di beni di consumo – ha detto che lo stabilimento non è più «strategico» e ha annunciato di aver dato mandato a un consulente esterno di «esplorare soluzioni alternative al sito di Longarone». Vuol dire che la fabbrica sarà chiusa e la produzione sarà spostata altrove.
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Lo stesso giorno, il consiglio di amministrazione dell’azienda ha diffuso con un comunicato i «risultati economico-finanziari» del 2022: quasi un milione di euro di utili e una crescita dell’11,1 per cento rispetto al 2021. A trascinare le vendite sono stati i marchi di proprietà, in particolare quello di occhiali da sole e per lo sport Smith, mentre «l’inserimento in portafoglio di nuove licenze ha efficacemente contribuito a compensare le vendite realizzate nel 2021 con i marchi cessati».
A Longarone però si producevano soprattutto gli occhiali per Dior e Fendi. Quando le licenze dei due marchi del lusso sono state acquisite dalla Thélios, una joint venture tra la società italiana Marcolin e il gruppo francese LVMH – una multinazionale che controlla una quota importante dell’alta moda globale, con marchi come Bulgari, Givenchy e Louis Vuitton – lo stabilimento è andato in crisi.
Safilo ha motivato la decisione di chiuderlo con quella che definisce come una “persistente sovracapacità produttiva”. Vuol dire che la fabbrica produce pochi occhiali rispetto agli operai impegnati e ai macchinari di cui dispone. Per ridurre i costi, la multinazionale preferisce chiudere e spostare le produzioni ancora attive, quasi tutte di occhiali di fascia media – attorno ai cento euro di prezzo, contro i 500-600 di Dior e Fendi – in paesi dove il costo del lavoro è più basso.
I lavoratori contestano le strategie aziendali. «Hanno abbandonato il settore del lusso e si sono orientati su una fascia di mercato meno costosa ma anche meno redditizia, e il risultato è che non riescono più a reggere i costi», spiega Grandelis. «L’errore è stato mettersi a produrre in conto terzi, con contratti da rinnovare di volta in volta, invece di puntare sull’acquisizione dei marchi», dice Marra. A differenza di Safilo, la concorrente Luxottica ha invece acquistato diversi marchi, da Ray-Ban a Vogue, e questa politica l’ha resa più solida sui mercati globali e ha evitato crisi produttive legate alla perdita di qualche licenza.
I lavoratori hanno preparato una sorta di controstoria dell’azienda che mette in fila tutti gli errori che, dal loro punto di vista, avrebbero portato alla situazione attuale. Si parte dalle “divergenze” tra i fratelli Tabacchi dopo la morte del fondatore Guglielmo, si prosegue con l’indebitamento che portò alla chiusura della storica fabbrica di Calalzo di Cadore e di quella di Precenicco in Friuli e si finisce con le chiusure di Martignacco e dello stabilimento di Ormož in Slovenia, nel 2021. Da quando nel 2009 la maggioranza delle azioni passò dalle mani della famiglia Tabacchi alla Multibrands Italy, una società controllata dalla Hal Holding, un fondo di investimento olandese con sede nell’isola caraibica di Curaçao, i lavoratori si sono ridotti di due terzi.
Ora sono 1.700, ma il loro numero è destinato a calare ancora con il nuovo piano industriale annunciato per il 10 marzo. Il piano dovrebbe contenere il rinnovo di alcune vecchie licenze, l’aggiunta di qualcuna nuova e l’acquisizione del marchio californiano Blenders: ma nessuna di queste produzioni sarà realizzata in Italia. «È stato distrutto quanto avevo costruito nei decenni precedenti, mai mi sarei immaginato un tracollo così tremendo», ha detto Vittorio Tabacchi, uno dei tre figli del fondatore Guglielmo, il 30 gennaio in un’intervista al Mattino di Padova. Secondo i lavoratori, i proprietari di Safilo «non hanno alcuna visione industriale» e «guardano solo alle vendite e ai profitti, non alla produzione».
A Longarone nessuno si aspettava la chiusura dello stabilimento. In paese si percepiscono timori, più o meno tutti esprimono preoccupazione, ma c’è molta ritrosia a esporsi, anche perché molti hanno rapporti di lavoro o commerciali con l’azienda. Il sindaco Roberto Padrin, di una lista civica, è andato al festival di Sanremo dove ha incontrato il ministro della Salute Orazio Schillaci, al quale ha chiesto l’approvazione di un “bonus vista”, cioè un contributo per l’acquisto di lenti e occhiali che a suo dire potrebbe aiutare la fabbrica di Longarone a non chiudere.
Dalla Regione Veneto, dove è stato aperto un tavolo di crisi, lasciano trapelare un possibile interesse di un grande gruppo degli occhiali di lusso a rilevare lo stabilimento. Le trattative sono state affidate alla assessora alla Reindustrializzazione Elena Donazzan, di Fratelli d’Italia, peraltro nota per aver cantato “Faccetta nera” durante la trasmissione radiofonica La Zanzara e per aver detto al quotidiano Il Foglio di sperare che «un giorno si giudichi il fascismo come oggi si parla a scuola di Atene e Sparta».
«C’eravamo accorti che c’era poco interesse per la fabbrica, però speravamo di rimanere, anche perché ci avevano promesso che saremmo diventati il gioiello della produzione in metallo», dice Mario Fillerini, un tecnico specializzato da 28 anni in azienda. Cgil, Cisl e Uil hanno denunciato la violazione degli accordi siglati con l’azienda al ministero dello Sviluppo economico dopo la crisi del 2019, che prevedevano un piano di investimenti per trasformare la fabbrica proprio in un polo per la realizzazione di occhiali in metallo. Al contrario, da allora la produzione di occhiali in metallo è calata del 60 per cento, sostituita dalla meno costosa plastica.
Saltati gli accordi con Dior e Fendi, e prima ancora con Armani che nel 2012 non rinnovò la licenza e trasferì alla rivale Luxottica la licenza per il design, la produzione e la distribuzione dei suoi occhiali, gli operai di Longarone oggi assemblano e verniciano occhiali dei marchi di loro proprietà, come Safilo e Hugo Boss. In più, la società ha siglato un contratto con Kering Eyewear per fornire fino al 2026 1,9 milioni di occhiali all’anno con il marchio Gucci.
Aste, viti e montature, un tempo prodotte nei laboratori della zona, arrivano invece dalla Cina. Così, quando l’impianto di Suzhou ha fermato la produzione a causa del Covid, a febbraio del 2020, Safilo era stata costretta a mettere gli operai bellunesi in cassa integrazione per quattro settimane per la mancanza di componenti. «Per non chiudere la fabbrica di Longarone basterebbe che riportassero in Italia le produzioni che hanno delocalizzato», sostiene Casanova. Ne sono coscienti anche i lavoratori, che ai cancelli hanno affisso un cartello in cinese con su scritto “prodotto in Italia”.