Due visioni del cinema

«Quella sera ad Atene, andando a dormire, mi ero chiesto perché durante la proiezione la presenza degli altri spettatori non mi avesse irritato. Perché non avevo protestato per i loro colpi di tosse, le luci accese, i gatti, i bisbigli, come mi succedeva di solito? E perché nessun altro sembrava infastidito?»

People wear protective masks as they watch a movie in 3D at a theatre in Beijing, Chinaon on 24 July. Photo: Kevin Frayer/Getty Images
Spettatori in un cinema a Pechino dopo la prima ondata di Covid, il 24 luglio 2020 (Kevin Frayer/Getty Images)
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D’estate Atene è piena di cinema all’aperto. Il 27 luglio scorso al cinema Thision, proprio sotto il Partenone, davano North by Northwest, il film del 1959 di Alfred Hitchcock con Cary Grant, Eva Marie Saint e James Mason, che in Italia è stato intitolato Intrigo internazionale. Alla biglietteria la fila era lunghissima e dentro c’erano intere famiglie con nonne e bambini, uomini obesi che mangiavano cibo portato da casa, gente che fumava, rideva, chiacchierava e decine di gatti che correvano tra le poltroncine o davanti allo schermo incorniciato dai rami di una bougainvillea. Chi sedeva in prima fila aveva il privilegio di un tavolino su cui appoggiare le bibite o i popcorn comprati nel piccolo bar del cinema, rimasto aperto per tutta la durata dello spettacolo.

Da settimane mi chiedo perché a nessuno sia venuto in mente di protestare per il continuo via vai e le chiacchiere, mentre sul Monte Rushmore Cary Grant salvava Eva Marie Saint, tenendola sospesa nel vuoto. Mi è capitato guardando Babylon, il film di Damien Chazelle sul passaggio dal muto al sonoro e mi è capitato leggendo La formula perfetta di David Thomson, un libro fluviale sul cinema pubblicato per la prima volta nel 2004 e appena tradotto in italiano da Adelphi. Tra le mille magnifiche storie raccontate da Thomson sulle origini di Hollywood, sull’acqua in Chinatown e sulla luce di Los Angeles, che sarebbe unica al mondo anche per gli esposimetri, ce ne sono alcune che riavvolgono ogni possibile discorso al grado zero della visione e spiegano, forse, qualcosa di inaspettato sul modo in cui oggi ci relazioniamo con la narrazione per immagini, anche con quella su telefonini e computer, e ci comportiamo in quanto parte di un pubblico.

Insomma quella sera ad Atene, andando a dormire, mi ero chiesto perché durante la proiezione la presenza degli altri spettatori non mi avesse irritato. Perché non avevo protestato per i loro colpi di tosse, le luci accese, i gatti, i bisbigli, come mi succedeva di solito? E perché nessun altro sembrava infastidito? Avevo avuto la sensazione di essere precipitato all’indietro nella storia, quella del cinema e la mia personale, alle sale piene di fumo di quando i film erano considerati spettacoli popolari e ai film visti alle medie con tutta la classe per fare casino o altro, potendo. Mi ero chiesto, cioè, se la cosa bella, quella sera, oltre al film, non fosse stata trovarsi insieme al buio.

E fu proprio questa, per David Thomson, la vera intuizione di Louis B. Mayer, il geniale prepotentissimo fondatore della Metro-Goldwyn-Mayer (che in realtà si chiamava Lazar Meir ed era figlio di un immigrato bielorusso analfabeta): accorgersi “che a molti piaceva andare nel buio a vedere la luce”. Agli inizi il cinema esercitò, cioè, un’attrazione ancestrale sui sensi e sul bisogno di stare insieme degli umani: “Rinchiudersi al buio, dopo secoli di progresso durante i quali l’umanità aveva arrancato verso la luce artificiale, sembrava una squisita perversione. Forse dipendeva dal gran numero di sale esistenti, dal sovraffollamento o dall’inadeguatezza delle abitazioni, o da un misterioso impulso a riunirsi in masse anonime nel buio di strani locali”.

Nel libro il racconto di questa origine collettiva, per non dire tribale, si incontra almeno in un altro passaggio, forse ancora più rivelatore perché riguarda la tecnologia e svela la ragione per cui il cinématographe dei Lumière sconfisse, almeno fino ai giorni nostri, il kinetoscopio di Thomas Edison.“L’idea commerciale di Edison”, scrive Thomson, “prevedeva apposite sale attrezzate con schiere di kinetoscopi”: “per vedere le immagini in movimento bisognava accostare l’occhio all’oculare e azionare un’apposita manovella, che faceva scorrere la lampadina che serviva a illuminarla”. Edison immaginò, cioè, che l’esperienza del cinema dovesse avvenire in solitudine sotto il controllo individuale dello spettatore che aveva il potere di fermare o scorrere in avanti e all’indietro le immagini. L’ispirazione di Edison, per Thomson, fu il libro e l’esperienza della lettura che prevede l’assoluto controllo da parte di chi legge e, perciò, richiede isolamento e silenzio, ma il controllo anticipava i tasti delle videocassette e, ovviamente, la visione sui dispositivi digitali.

Il cinématographe dei Lumière si basava sullo schema contrario, e in questo era più simile alla musica o al teatro: un unico schermo illuminato su cui tutti gli spettatori contemporaneamente, al buio e nella stessa sala, vedevano scorrere una storia senza poterla fermare. Lo “schermo”, che fino agli inizi del Novecento era servito a “schermare”, cioè a nascondere quello che c’era dietro, per la prima volta nella storia mostrava una realtà nuova e sconosciuta: luoghi selvaggi e città modernissime, guerre, duelli, tragedie e amori impossibili, elefanti, tigri, cammelli o, più semplicemente, gente ricca ed elegante che la maggior parte degli spettatori non aveva mai visto. Per Thomson, che scrive nei primi anni Duemila e non ha ancora intuito del tutto la portata della rivoluzione digitale, in questa rivelazione si condensò la magia collettiva che il cinema esercitò almeno fino all’avvento della televisione. Oggi quella magia sembra quasi del tutto tramontata, tranne che al cinema Thision di Atene. La ragione, credo, è che nella fruizione del cinema l’altra esperienza, quella solitaria immaginata da Edison, era sopravvissuta in segreto.

Il protagonista di Desire and the Black Masseur (Il desiderio e il massaggiatore nero), un racconto di Tennessee Williams del 1946, è un oscuro impiegato, Anthony Burns che – spoiler prima di finire mangiato dal suo amante in un gioco sadomaso fine spoiler – si rifugia ogni giorno al cinematografo, l’unico posto al mondo in cui si senta al sicuro: “Il cinema gli leccava il cervello con una lingua tenera e sfrecciante, che a tutto lo induceva tranne che al sonno. Sì, una bella cagnetta materna non sarebbe mai riuscita a leccarlo meglio, o a dargli più soave riposo, quando ci andava dopo il lavoro” (la traduzione è di Luciano Bianciardi). Nell’esperienza di Burns non c’è più nulla di collettivo. Gli altri sono stati espulsi, la folla degli spettatori è arretrata nell’invisibilità e nel silenzio, inghiottita da un grado di concentrazione che sfiora l’ipnosi. Qualcosa di simile, benché di non così estremo, accadde e accade a tutti gli spettatori. Quando a partire dagli anni Trenta la novità del cinema si affievolì e la grammatica della narrazione cinematografica si stabilizzò, probabilmente, in molti spettatori si fece strada il bisogno di una modalità di fruizione più solitaria e assorta. Presto la tecnologia, il gusto e il mercato, come sempre, si adeguarono, sfruttando ed esaudendo il bisogno.

Nacque la televisione che in pochi decenni si diffuse in ogni casa, poi in ogni stanza, allacciando in modo sempre più stretto le immagini mobili alla pubblicità, cioè alle merci da vendere; e parallelamente, però, seguendo un percorso contrario, si cominciò a considerare il cinema un’arte e a ritenere che ai film – a certi film – si dovesse tributare il rispetto dovuto ai capolavori della pittura, della musica e della poesia. Fu così che, negli ultimi decenni del Novecento, ci si dimenticò del carattere popolare del cinema delle origini, o almeno si cominciò a metterne in discussione le modalità di fruizione, e progressivamente le sale si trasformarono nei templi di un rituale ristretto a cerchie sempre più piccole, devote, e soprattutto silenziose, rispettose della sacralità della nuova arte, come i fedeli in una chiesa. Qualcuno ha detto che l’attenzione è la forma originaria della preghiera. E infatti l’esperienza del cinema si modellò sull’ideale della contemplazione romantica borghese che, a sua volta, nasceva da quella estatica e religiosa.

Dopo aver visto Hitchcock ad Atene e avere letto il libro di Thomson e aver visto Babylon, sospetto che il mio fastidio per la presenza degli altri quando vado al cinema derivi da questa trasformazione. Dall’avere dimenticato, noi tutti, che esiste ed è legittima anche un’altra modalità di visione, che in origine le sale erano caverne buie piene di gente e che il piacere dei film nasceva anche dal vederli insieme. Per questo, forse, gli unici film che in sala continuano a trionfare, benché sempre più raramente, sono quelli che incoraggiano ancora una visione collettiva: i film comici dove i ragazzi vanno con tutta la classe o i kolossal costruiti come eventi epocali e girati in modo da non potere essere recintati dentro gli schermi di televisioni, computer e telefoni.

Il fatto nuovo, che Thomson nel 2004 poteva solo intuire, è che con il digitale il kinetoscopio di Thomas Edison, dopo essere rimasto per quasi un secolo in letargo, è via via diventato dominante, restringendosi in macchine sempre più piccole e in visioni sempre più private: prima nelle televisioni, poi nei computer e nei telefonini da cui ognuno di noi, ogni giorno, anche piacevolmente, va detto, si fa leccare il cervello. E non c’è nulla di male: i kinetoscopi digitali raddoppiano le possibilità del racconto, non le restringono; e non c’è nessuna nostalgia per l’epoca del muto; e non si sottovaluta l’importanza della qualità della proiezione e della grandezza dello schermo (che, peraltro, è sempre più grande anche in casa). Si tratta di chiedersi se il futuro del cinema passi dalla contemplazione e dal silenzio dei cinemini d’essai, dal nostro fastidio se chi ci è seduto di fianco manifesta di avere ancora un corpo, una voce o un respiro, oppure se lo spettacolo del cinema possa sopravvivere soltanto tornando ad accettare di fare parte di un pubblico di sconosciuti che hanno deciso di guardare una storia insieme. Come accade allo stadio, a teatro o a un concerto. Il cinema è una meravigliosa cialtroneria nata per le fiere e i baracconi. L’“arte” gli fu appiccicata addosso molto più tardi. Ma è accaduto anche alla musica, alla danza, alla poesia e alla pittura: “l’arte” arriva sempre dopo.

Giacomo Papi
Giacomo Papi

È nato a Milano. I suoi ultimi libri si intitolano Italica, Happydemia e Il censimento dei radical chic. Dirige il Laboratorio Formentini per l'editoria. Cura la sezione Storie/Idee del Post.

STORIE/IDEE

Da leggere con calma, e da pensarci su