Quanto guadagna Twitter dagli account che incitano all’odio
Tanto, secondo una stima americana che ha valutato i ricavi pubblicitari associati agli account sospesi che Musk ha reintegrato
di Taylor Lorenz - The Washington Post
La riattivazione da parte di Elon Musk di dieci account di Twitter sospesi dalla precedente gestione ha suscitato una quota di reazioni ed engagement che può generare ricavi pubblicitari per circa 19 milioni di dollari in un anno, secondo il calcolo di un’organizzazione non profit dedicata a contrastare il cosiddetto hate speech, ovvero i discorsi di incitamento all’odio, su internet. Il Centro per la lotta all’odio digitale (Center for Countering Digital Hate – CCDH) riferisce che i dieci account in questione sono tra le centinaia di profili riattivati in occasione dell’“amnistia generale” annunciata da Elon Musk a fine novembre.
Sono dati che vengono pubblicati proprio nel momento in cui Musk sta cercando di rilanciare i profitti dell’azienda, che per sua ammissione si trova in difficili condizioni finanziarie nonostante il licenziamento di migliaia di dipendenti e la sospensione del pagamento di numerosi servizi (tra cui l’affitto del quartier generale di Twitter nel centro di San Francisco). A dicembre le entrate pubblicitarie di Twitter hanno avuto un calo del 70 per cento rispetto all’anno precedente, stando ai calcoli di Standard Media Index, un’azienda di ricerche nell’ambito pubblicitario.
Imran Ahmed, amministratore delegato del CCDH, vede un nesso tra il calo degli introiti pubblicitari e la successiva decisione di Musk di ripristinare gli account precedentemente sospesi. «La nostra ricerca mostra come il motivo per cui Elon Musk ha deciso di riattivare gli account di nazisti auto-proclamati, autori di disinformazione, misogini e omofobi, sia in fondo tristemente banale: è una scelta altamente remunerativa». Musk non ha voluto commentare. L’ufficio di comunicazione di Twitter è stato eliminato con i licenziamenti dello scorso anno.
Il CCDH ha rivelato numerosi esempi di importanti brand statunitensi – tra cui Amazon, Apple TV, la NFL (la lega nazionale di football americano), e Fiverr (una piattaforma online per fornire lavoro freelance) – le cui inserzioni compaiono accanto ai contenuti pubblicati dai dieci influencer estremisti. In un caso una pubblicità della catena di fast-food Wendy’s è comparsa vicino a un tweet di Steve Peters, influencer no-vax con 168 mila follower, in cui parla del vaccino come di «un’arma biologica» che ha letteralmente «ucciso» più persone.
In un altro esempio un’inserzione del servizio di streaming Peacock è apparsa di fianco a un tweet di Anthime Gionet, meglio conosciuto con il nome di Baked Alaska, recentemente condannato per il suo ruolo nell’assalto al Campidoglio degli Stati Uniti del 6 gennaio 2021. In quel tweet, Gionet chiedeva ai suoi follower se potesse o meno «dire la n-word» (ovvero il noto termine razzista che inizia con la lettera “n”). Altre pubblicità di brand famosi sono comparse accanto a tweet relativi a brogli elettorali, teorie del complotto sui vaccini, false dichiarazioni sull’uso di armi biologiche in Ucraina, e insulti diretti a donne con ruoli dirigenziali .
Il calo di entrate pubblicitarie di Twitter era stato in parte attribuito alla preoccupazione che simili posizionamenti possano danneggiare gli inserzionisti coinvolti. «Molte aziende temono Twitter a causa della retorica di Elon», spiega Brendan Gahan, direttore dei processi di innovazione dell’agenzia pubblicitaria Mekanism. «Il clima creato da Musk rende Twitter un ambiente molto rischioso per i brand».
Gahan fa notare che i prodotti pubblicitari di Twitter sono inoltre considerati meno sofisticati rispetto a ciò che si può trovare su Facebook o su YouTube. «Nel contesto economico attuale ogni dollaro va spremuto fino all’ultimo. Twitter non era in ottima salute nemmeno prima di Musk, e il trambusto causato dal suo arrivo ha reso più semplice ai brand la decisione di andarsene senza voltarsi indietro».
«Non tolleriamo incitamenti all’odio o pericolose teorie complottiste», ha dichiarato un portavoce di Fiverr. «Le campagne pubblicitarie in questione sono state rimosse, e faremo in modo che casi simili non si ripetano, in accordo con i nostri partner». Dopo la prima pubblicazione di questo articolo Fiverr ha annunciato l’interruzione di tutte le campagne pubblicitarie su Twitter.
I dieci influencer presi in esame dallo studio del CCDH sono: Andrew Tate, Robert Malone, Andrew Anglin, Emerald Robinson, Rogan O’Handley, Peter McCullough, Stew Peters, Anthime Gionet, Rizza Islam, e Gateway Pundit. Ciascuno aveva visto il proprio account rimosso da Twitter per violazione dei termini, prima che Musk li ripristinasse.
Per condurre la ricerca, il CCDH ha creato nuovi account su Twitter e ha iniziato a seguire i dieci influencer. Grazie a informazioni accessibili al pubblico, ha poi calcolato il valore promozionale di questi profili partendo dal numero di reazioni per ogni tweet, facendone una stima annuale, e aggiungendo la frequenza con cui le pubblicità vengono mostrate agli utenti. Il risultato ottenuto è stato poi moltiplicato per un valore di riferimento di mercato relativo al costo per ogni mille interazioni. I dati sono stati forniti da Brandwatch, azienda che si occupa di analisi dei social media, secondo la quale il costo medio di un’inserzione su Twitter è di 6,46 dollari per ogni mille interazioni.
«Bastano dieci di questi soggetti discutibili per generare miliardi di visualizzazioni su Twitter, un tesoro che Elon Musk può vendere a marchi di fama e inserzionisti quali Apple, Amazon e la NFL. Campagne pubblicitarie di brand di rilievo si possono trovare a fianco di oscenità naziste e menzogne che possono causare morti», ha aggiunto Ahmed.
Nandini Jammi, cofondatrice dell’istituto Check My Ads, un’organizzazione non profit che fa monitoraggio sulla pubblicità online, ha dichiarato di trovarsi d’accordo con le conclusioni del CCDH, precisando però che quella di 19 milioni di dollari di profitti è solo una stima. «Sotto la gestione di Elon, il modello di ricavi sembra affidarsi unicamente a un crescente rage-baiting, ovvero un “adescamento” che fa presa su sentimenti di rabbia, con l’intento di generare rapidi profitti. Quello che si desume dalla relazione del CCDH è che Twitter sta generando incredibili quantità di entrate grazie alle interazioni online stimolate da questi influencer. L’ammontare esatto in termini economici è difficile da quantificare a causa della poca trasparenza che gira intorno alla pubblicità online, ma sappiamo che si tratta di un sacco di soldi».
Dopo aver minacciato una «gogna termonucleare» per gli inserzionisti colpevoli di aver ritirato i propri investimenti da Twitter, Musk ha poi cercato di riconquistarli offrendo spazi pubblicitari gratuiti, rimuovendo il divieto di annunci di carattere politico, e dando vita a “controlli di prossimità” che consentono alle aziende di non far comparire i propri annunci al fianco di tweet che contengono termini controversi (la lista comprende circa mille parole chiave).
In una presentazione inviata ai maggiori inserzionisti il mese scorso (che il Washington Post ha potuto visionare), Twitter ha ripetutamente insistito sulla crescita della piattaforma, sostenendo che il flusso giornaliero di utenti connessi sia aumentato del 17,8% annuo.
Giovedì scorso, la Anti Defamation League (ADL) ha pubblicato un rapporto in cui si elencano 18 influencer estremisti responsabili di disinformazione, riammessi da Musk sulla piattaforma. Si dice nel rapporto: «Nelle ultime settimane, un numero significativo di gruppi e individui dal profilo discutibile ha visto riattivato il proprio account su Twitter, ha esteso l’utilizzo del proprio account già attivo, o ne ha creato uno nuovo». I 18 influencer estremisti hanno già ripreso a pubblicare incitamento all’odio, informazioni ingannevoli e teorie del complotto, come dimostrato da numerosi screenshot presenti nel documento. L’ADL ha segnalato parecchi di questi account per istigazione all’odio razzista e antisemita, ma Twitter non ha risposto né preso alcuna iniziativa in merito, secondo l’ADL.
© 2023, The Washington Post
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(traduzione di Laura Mangano)