Quando il papa si dimise
Dieci anni fa Benedetto XVI annunciò in latino una decisione epocale e sorprendente, di cui si parla ancora oggi
La mattina dell’11 febbraio 2013, dieci anni fa, papa Benedetto XVI stava parlando al Concistoro, una riunione ufficiale di cardinali. Ci si aspettava che avrebbe annunciato tre canonizzazioni, tra cui quella con cui vennero fatti santi i martiri di Otranto. Ma Benedetto esordì dicendo che non avrebbe parlato solo di quello: «Vi ho convocati a questo Concistoro non solo per le tre canonizzazioni, ma anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa», disse Benedetto XVI in latino. Dopodiché parlò del fatto che le sue forze, «per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino». E che quindi avrebbe lasciato il pontificato («declaro me ministerio Episcopi Romae […] renuntiare»).
Giovanna Chirri, giornalista dell’agenzia Ansa, era nella sala stampa vaticana e capì immediatamente il significato delle parole del papa perché sapeva il latino. Tuttavia la notizia le parve talmente sorprendente ed epocale che cercò un’ulteriore conferma da padre Federico Lombardi, all’epoca direttore della sala stampa. Lombardi confermò e Chirri comunicò all’agenzia la notizia. Il lancio fu mandato alle 11:46, prima di tutti gli altri.
La decisione di Benedetto XVI causò prevedibilmente un enorme clamore mediatico in tutto il mondo, e in seguito fu oggetto di dibattiti, commenti, analisi, ipotesi e interpretazioni più o meno fantasiose, persino di complotti. Le discussioni si sono rianimate ancora dopo la morte del papa emerito, avvenuta la mattina del 31 dicembre scorso, dopo dieci anni di vita ritirata nel monastero Mater Ecclesiae, in Vaticano.
Nessun papa dal 1406 aveva mai fatto ricorso alla possibilità di lasciare il proprio incarico, e comunque i precedenti erano pochissimi. Era inedita anche la situazione che si generò in seguito all’elezione dell’attuale papa Francesco, cioè la convivenza di due papi, di cui uno emerito e l’altro in carica. Tra i fattori che ebbero un ruolo nella scelta di papa Benedetto XVI ci furono senza dubbio i molti scandali emersi durante il suo papato, gestiti non sempre in maniera ottimale dalla Santa Sede. Queste oggettive difficoltà appesantirono la situazione psicologica e fisica del papa, già precaria e affaticata dall’età. Al di là dei complotti, l’interpretazione più fondata – data anche da padre Lombardi – è che il papa si sia dimesso soprattutto per le ragioni che spiegò il diretto interessato quell’11 febbraio di dieci anni fa.
Papa Benedetto XVI nacque come Joseph Ratzinger il 16 aprile 1927, in Germania, nella piccola cittadina bavarese di Marktl. Entrò in seminario quando era poco più che un bambino, nel 1939, diventando sacerdote nel 1951. Da allora intraprese una lunga e brillante carriera ecclesiastica, che lo portò a farsi una buona fama di teologo. Nel 1981 diventò il prefetto responsabile del dicastero per la dottrina della fede, il più antico e tra i più importanti della Curia romana (l’apparato amministrativo della Chiesa). Il prefetto per la dottrina della fede si occupa di promuovere e tutelare in tutto il mondo cattolico la dottrina, cioè gli insegnamenti che poi vengono diffusi attraverso il catechismo.
Ratzinger mantenne questo ruolo importante per moltissimi anni, praticamente fino a quando diventò papa. Da prefetto per la dottrina della fede, quindi, accompagnò il suo predecessore Giovanni Paolo II, Karol Wojtyła. Tra le altre cose Ratzinger fu testimone da vicino del decadimento fisico di papa Wojtyła, dalla fine degli anni Novanta fino alla morte nel 2005. Come ha raccontato il podcast La rinuncia, curato da Carlo Marroni, vaticanista del Sole 24 Ore, l’esperienza di Giovanni Paolo II potrebbe aver contribuito alla volontà di Ratzinger di non prolungare troppo a lungo il suo pontificato.
Nel podcast lo storico Alberto Melloni racconta un aneddoto, mai confermato, secondo cui all’epifania del 2005 Giovanni Paolo II avrebbe indicato come successore ideale proprio Ratzinger. Lui accettò, ma a patto che l’elezione avvenisse in tempi rapidi e con un consenso ampio. Andò in effetti così, ma secondo l’autore del podcast, Marroni, questa condizione può essere interpretata come un sintomo della ritrosia di Ratzinger ad assumere l’incarico già allora.
D’altra parte qualunque successore avrebbe avuto il compito di reggere il confronto con Wojtyła, un papa longevo e popolarissimo. Ratzinger affrontò la situazione a modo suo, cioè evitando di scendere a compromessi e rifiutando di abbandonare le sue posizioni conservatrici. Lo fece capire già prima del Conclave, nell’omelia del 18 aprile 2005 officiata da lui a San Pietro, in cui disse: «Avere una fede chiara viene spesso etichettato come fondamentalismo, mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi moderni». Un’omelia di questo genere fu interpretata come un messaggio chiaro ai cardinali, un modo per dire loro che se lo avessero votato il suo programma, il suo manifesto, sarebbe stato quello.
Ratzinger non si curò di smussare il contrasto tra lui e Giovanni Paolo II, non tanto a livello di dottrina quanto a livello di immagine: misure come il ripristino della messa in latino, l’utilizzo di paramenti sfarzosi e di usanze antiche, furono accolte negativamente da una parte della comunità di fedeli e dai commentatori in generale, che comunque non furono entusiasti dell’elezione di Ratzinger neanche all’inizio. A questo proposito viene spesso ricordato l’irriverente titolo del Manifesto, il 20 aprile 2005.
A complicare ulteriormente le cose arrivarono alcuni scandali e incidenti diplomatici. Il primo fu nel 2006, quando Ratzinger tenne una famigerata lezione all’Università di Ratisbona, in Germania, in cui citava un testo medievale in relazione al tema “Religione e violenza”. Ratzinger disse:
[…] egli, in modo sorprendentemente brusco, brusco al punto da essere per noi inaccettabile, si rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: “Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava”.
Il soggetto del discorso era Manuele II Paleologo, imperatore bizantino, che dialogava con un persiano. Ma la frase su Maometto, decontestualizzata, causò un putiferio nei paesi islamici. Dopo poco Benedetto XVI si scusò pubblicamente, dicendo che il testo medievale citato non corrispondeva al suo pensiero ma non riuscendo a far rientrare del tutto il caso.
Un altro incidente diplomatico ci fu nel 2009, forse l’anno peggiore del pontificato, quando Ratzinger revocò la scomunica di quattro vescovi ultraconservatori che rifiutavano le riforme del Concilio Vaticano II, ordinati senza autorizzazione da monsignor Marcel Lefebvre nel 1988. Secondo il diritto canonico ordinare un vescovo illegittimamente provoca uno scisma, punito automaticamente con la scomunica. Intenzionato a mantenere unita la Chiesa, Ratzinger la revocò nel 2009: ma proprio in quei giorni venne reso noto che uno di loro in passato aveva di fatto negato la Shoah, sostenendo che le camere a gas in cui furono uccisi milioni di ebrei durante la Seconda guerra mondiale non fossero mai esistite. Ratzinger naturalmente venne molto criticato da più parti. Persino la cancelliera tedesca, Angela Merkel, chiese chiarimenti. La Santa Sede fece sapere che il papa non conosceva le posizioni antisemite del vescovo, e che comunque i quattro non avrebbero assunto alcuna funzione pubblica all’interno della Chiesa.
Gli scandali più grossi furono però altri: quello sugli abusi sui minori e il cosiddetto “Vatileaks”, provocato dalla diffusione di documenti riservati del Vaticano. Il primo scandalo aveva origini lontane. Fin dai primi anni Duemila negli Stati Uniti alcune indagini avevano fatto emergere sistematici abusi da parte di sacerdoti cattolici, che invece di essere sanzionati ed espulsi dal loro ordine venivano semplicemente spostati da una parrocchia all’altra, senza subire altre conseguenze. Dal 2009 in poi si scoprì che questi insabbiamenti da parte della Chiesa avvenivano di continuo anche in altre parti del mondo, tra cui molti paesi europei.
I casi raggiunsero una dimensione che non poteva essere ignorata, e Ratzinger se ne assunse la responsabilità, come aveva fatto con la lezione di Ratisbona. Al contrario di quanto fatto dal suo predecessore, riconobbe pubblicamente e apertamente il problema della pedofilia, e fu il primo papa a incontrarsi con alcune vittime e con i loro familiari durante i viaggi apostolici.
Per quanto riguarda lo scandalo “Vatileaks”, fu provocato dal maggiordomo di Ratzinger, Paolo Gabriele, soprannominato dai giornali “il corvo”. Nel 2012 Gabriele venne arrestato dalla gendarmeria vaticana per aver trafugato vari documenti riservati, il cui contenuto era finito in libri e ricostruzioni giornalistiche. Erano documenti che fecero un certo scalpore, perché riguardavano la gestione delle finanze vaticane e le divisioni politiche all’interno della Curia.
Negli anni, in molti hanno associato lo scandalo “Vatileaks” alle dimissioni di Ratzinger. Tuttavia in un’intervista con Peter Seewald, autore della biografia del papa emerito Una vita, è Ratzinger stesso a sostenere il contrario: «Una volta ho detto che uno non si può dimettere quando le cose non sono a posto, ma può farlo solo quando tutto è tranquillo. Io ho potuto dimettermi proprio perché riguardo a quella vicenda era tornata la serenità. Non si è trattato di una ritirata sotto la pressione degli eventi o di una fuga per l’incapacità di farvi fronte».
Nell’ultima parte del suo pontificato, Ratzinger era già debilitato. Non riusciva a stare in piedi per molto tempo, aveva difficoltà a percorrere tutta la lunghezza della Basilica di San Pietro a piedi. In un lungo articolo pubblicato sulla Civiltà Cattolica dopo la morte del papa emerito, padre Lombardi ha scritto delle sue dimissioni riducendole, alla fine, proprio a questa debolezza psicofisica, al di là delle oggettive difficoltà del pontificato. Ha scritto Lombardi:
Anche se su questa rinuncia e sulle sue motivazioni sono stati scritti fiumi d’inchiostro, in fondo l’atto è semplice, e le ragioni addotte da Benedetto XVI sono evidenti e del tutto plausibili: un grande atto di responsabilità davanti a Dio e alla Chiesa. Un atto di umiltà di fronte alle altissime esigenze del servizio di Pietro e di coraggio nell’aprire una via che già era prevista dal diritto della Chiesa, ma da secoli nessuno aveva ancora percorso. L’elezione del Papa è ad vitam, ma non è detto che il pontificato debba necessariamente concludersi con la morte del Papa.
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