Il Pakistan sta finendo i soldi
Inondazioni e instabilità politica hanno aggravato la crisi economica: il governo pachistano sta cercando di ottenere un prestito dal Fondo Monetario Internazionale
Dieci giorni di incontri, con un’ultima riunione durata 11 ore e finita giovedì, non hanno portato a una soluzione definitiva sulla possibilità che il Fondo Monetario Internazionale sblocchi i fondi da 1,1 miliardi di euro necessari per evitare la bancarotta del Pakistan. Il governo pachistano e lo stesso FMI si sono mostrati ottimisti su un futuro accordo, ma la situazione economica del quinto paese più popoloso al mondo (230 milioni di abitanti) resta preoccupante.
Dal 2019 il Pakistan è entrato in un programma di salvataggio della propria economia finanziato con i prestiti del Fondo Monetario Internazionale: il pacchetto prevede prestiti per circa 6 miliardi di dollari, aumentati a 7 nel 2022. La concessione di questi prestiti, come sempre succede in questi casi, è subordinata a profonde riforme dell’economia, che non sempre il Pakistan è stato in grado di rispettare. In particolare le trattative di questi mesi, che dovrebbero sbloccare la porzione di aiuti, sembrano essersi bloccate proprio su alcune riforme.
In questa fase però il Pakistan ha un bisogno assoluto di finanziamenti e di valuta estera: la profonda crisi economica ha fortemente intaccato le riserve di dollari del paese, necessarie per acquistare beni dall’estero, come l’energia, le materie prime e il cibo.
Il legame con il dollaro è da sempre un grosso problema per la maggior parte dei paesi emergenti e un grosso ostacolo allo sviluppo. Semplificando molto, le valute sono lo specchio delle economie che rappresentano: economie forti hanno monete forti e stabili, come il dollaro per gli Stati Uniti o l’euro per l’Eurozona; economie deboli e instabili hanno monete deboli e altrettanto instabili, che possono perdere rapidamente valore.
Per questo motivo i paesi emergenti, come il Pakistan, usano tantissimo il dollaro e ne sono spesso dipendenti. Consumatori e aziende fanno molti pagamenti in dollari perché spesso la valuta locale non è accettata o nel tempo si è talmente deprezzata che gli operatori preferiscono accettare i dollari. In più, detengono parte della loro ricchezza in dollari, consapevoli del fatto che è una moneta che non potrà mai perdere valore, a differenza di quelle locali, e proteggono così il loro potere di acquisto. Anche gran parte del debito pubblico è in dollari e le importazioni, come per esempio quelle di energia e cibo, si pagano in dollari.
I fondi attualmente a disposizione del Pakistan basterebbero solo per un mese, per le importazioni di beni necessari, come energia, carburanti e cibo. E un mancato accordo con il FMI renderebbe impossibile ripagare parte dei prestiti in scadenza con stati terzi (Cina, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, tra gli altri).
La crisi economica del Pakistan, che ha già pesanti effetti sulla popolazione, è il risultato di una serie di fattori, alcuni internazionali, altri specifici. Come molti paesi è alle prese con le conseguenze della pandemia e della guerra in Ucraina: gli effetti dell’aumento del costo dell’energia e degli alimenti si fanno però sentire di più in un paese che dipende fortemente dalle importazioni per quel che riguarda i combustibili fossili e il cibo.
La rupia, moneta locale, ha perso molto valore nell’ultimo anno, passando da un cambio di 175 rupie per un dollaro alle 275 attuali, perché l’economia pachistana è in crisi ma anche perché il dollaro negli ultimi mesi si è molto rafforzato, svantaggiando notevolmente i paesi con monete più deboli. Questo ha contribuito a un ulteriore aumento dei prezzi dei beni acquistati dall’estero. L’inflazione a gennaio è arrivata al 27 per cento su base annua, il livello più alto dal 1975, ma il prezzo del cibo è salito del 39 per cento nelle zone cittadine e del 45 per cento nelle aree rurali.
La scarsità di valuta estera è il problema più pressante, perché sta bloccando l’intera industria manifatturiera, specie quella del cotone, che era una delle basi dell’economia pachistana. Le banche non hanno più dollari per finanziare gli acquisti di materie prime da lavorare da parte delle imprese, che così sono costrette a chiudere. Per lo stesso motivo a gennaio più di 8mila container con beni di prima necessità erano bloccati nei porti di Karachi: non c’erano fondi per pagarli.
Il Pakistan ha una lunga storia di dissesti economici, provocati anche da una forte instabilità politica e da errori nelle scelte economiche: dal 1980 è ricorso per 13 volte ai piani di salvataggio da parte del Fondo Monetario Internazionale.
Negli ultimi anni il lavoro delle imprese è stato complicato anche dai frequenti blackout, dovuti a una rete di infrastrutture usurata o carente, che va facilmente in difficoltà soprattutto nei mesi estivi, quando il ricorso agli impianti di aria condizionata aumenta la richiesta di energia. Anche nelle maggiori città del paese, come Karachi e Lahore, gli abitanti si sono dotati di generatori di emergenza alimentati a gasolio e di taniche di acqua per far fronte ai blocchi temporanei della rete elettrica e idrica. Un guasto sulla rete il 23 gennaio ha lasciato gran parte del paese senza corrente per quasi una giornata.
A questo quadro generale consolidato si aggiungono le conseguenze delle disastrose inondazioni dello scorso agosto.
Grandi porzioni del paese sono state sommerse, circa 1700 persone sono morte, mentre decine di migliaia sono ancora sfollate, ospitate in campi profughi. Le inondazioni causate dai monsoni hanno distrutto fattorie e reso impossibili le coltivazioni, condizionando fortemente la capacità del paese di produrre cibo: il prezzo di grano e cipolle, per fare un esempio, è più che raddoppiato. L’ONU ha stimato in 16 miliardi di dollari i danni delle inondazioni, ma la cifra sale fino a 30 miliardi se si considera anche l’impatto della mancata produzione. L’emergenza ha creato fra gli 8 e i 9 milioni di nuovi poveri, soprattutto delle aree rurali.
In questo contesto, con la crescita del PIL (prodotto interno lordo) rivista al ribasso e prevista al 2 per cento per il 2023 e senza un accordo per sbloccare i fondi, il rischio della bancarotta è reale.
Il governo di Shehbaz Sharif si è detto ottimista, ammettendo che saranno necessarie «dolorose riforme»: l’attuale primo ministro conservatore è subentrato lo scorso aprile a Imran Khan, che aveva perso il sostegno parlamentare, gran parte di quello popolare e soprattutto l’appoggio dell’esercito, che ha sempre un ruolo importante nella politica pachistana. Lo stesso Khan ha recentemente prospettato una possibile evoluzione della crisi sulla falsariga di quanto successo in Sri Lanka, dove la bancarotta ha portato al collasso non solo dell’economia, ma anche delle istituzioni, con l’assalto al palazzo presidenziale. Secondo il governo, quelle di Khan sarebbero solo speculazioni politiche in vista della campagna elettorale che anticipa le prossime elezioni, previste a ottobre.
La situazione per il Pakistan comunque è complicata. Le forti tensioni interne a livello politico (a novembre Imran Khan è stato ferito in un attentato) sono un’altra fonte di instabilità, così come l’intensificarsi di attività terroristiche, soprattutto nel nord-ovest del paese. Il ritorno al potere del regime talebano in Afghanistan ha rinforzato anche il gruppo TTP (Tehrik-i-Taliban Pakistan), i cosiddetti talebani pachistani, autori dell’attacco che ha causato oltre 100 morti a Peshawar a fine gennaio.
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