Che futuro hanno gli impianti sciistici?
La mancanza di neve naturale e i costi proibitivi di quella artificiale suggeriscono che il turismo invernale vada ripensato
Anche quest’inverno, come era successo lo scorso anno, la mancanza di neve ha ridotto molte piste da sci sulle Alpi a sottili strisce bianche di neve artificiale, circondate dal verde dei boschi e dal giallo delle montagne aride. Sulle Alpi e sugli Appennini la neve è poca a causa di condizioni meteorologiche molto simili a quelle dell’inverno di un anno fa: negli ultimi tre mesi le temperature sono state eccezionalmente miti e le precipitazioni scarse.
La mancanza di neve in Italia è più grave e frequente oggi rispetto al passato, e condiziona inevitabilmente il turismo invernale, uno dei settori dell’economia più sensibili ai cambiamenti climatici. Negli ultimi anni diversi studi hanno cercato di capire cosa succederà nei prossimi decenni e le conclusioni sono tutte molto simili: la neve cadrà a partire da quote sempre più alte e gli impianti di risalita dovranno trovare alternative alle piste da sci per sopravvivere.
Una delle ultime indagini è stata realizzata dalla Banca d’Italia, che ha raccolto dati relativi a stazioni sciistiche delle Alpi per analizzare quanto le condizioni meteorologiche e l’innevamento artificiale influiscano sulla vendita di skipass e sui pernottamenti negli alberghi.
Gioia Maria Mariani e Diego Scalise, i ricercatori che hanno lavorato allo studio pubblicato nel dicembre del 2022, hanno preso in esame i dati degli ultimi 20 anni relativi a 39 stazioni sciistiche italiane tra la Valle d’Aosta, la provincia di Trento e l’Alto Adige. Sono partiti dall’impatto del turismo di montagna sull’intero settore: secondo l’ISTAT, l’istituto italiano di statistica, prima della pandemia circa il 13 per cento di tutti i pernottamenti registrati in Italia è avvenuto in zone montane e nel 2019 la spesa di turisti stranieri per le vacanze in montagna è stata di quasi 2 miliardi di euro. Questi dati fanno capire quanto il riscaldamento globale causato dalle attività umane, che incide direttamente sul turismo di montagna, potrà avere conseguenze sull’economia dell’intero settore, tra i più importanti dell’economia italiana.
Mariani e Scalise hanno esaminato i dati delle nevicate degli ultimi 20 anni per misurare l’effetto del meteo sulla vendita di skipass e sui pernottamenti. Hanno quindi stimato quanto le vendite siano state sostenute dall’innevamento artificiale. E infine hanno applicato i modelli climatici riconosciuti come più affidabili per ipotizzare alcuni scenari per i prossimi decenni.
Negli ultimi 20 anni nelle località analizzate è stato registrato un aumento diffuso della temperatura accompagnato da una diminuzione delle precipitazioni nevose. La situazione delle stazioni sciistiche in Valle d’Aosta e in Trentino-Alto Adige è molto diversa, non solo geograficamente: quelle della Valle d’Aosta sono mediamente a un’altitudine più elevata e i paesi vicini hanno meno abitanti, con un’offerta alberghiera più limitata.
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Come era facile prevedere, lo studio conferma che c’è una relazione significativa tra le nevicate e i flussi turistici invernali, e quindi sulla vendita di skipass e sui pernottamenti nelle località alpine italiane, a prescindere dalla regione e dalla tipologia di alberghi. L’innevamento artificiale invece incide poco, nonostante le località alpine ne facciano un uso sempre più massiccio: secondo lo studio della Banca d’Italia c’è una scarsa correlazione tra l’utilizzo di neve artificiale e i flussi turistici.
Insomma, se manca la neve naturale arrivano molti meno appassionati di sci e in generale turisti, anche se gli impianti sono aperti grazie al sostegno della neve artificiale. Questo risultato dimostra che in Italia, e negli altri paesi in cui si è sviluppato il turismo invernale, servirà valutare con attenzione i possibili benefici dell’innevamento artificiale, probabilmente limitati, a fronte di un significativo impatto economico ed energetico.
Uno degli aspetti più sottovalutati dell’innevamento artificiale, infatti, è il consumo di acqua ed energia elettrica. Con un metro cubo di acqua è possibile produrre mediamente 2,5 metri cubi di neve. Per innevare un ettaro di pista – cioè una striscia lunga 1 km e larga 10 metri – con uno strato di fondo alto 30 centimetri servono circa mille metri cubi di acqua, quasi metà dell’acqua contenuta in una piscina olimpionica. Per lo stesso ettaro di pista, inoltre, servono tra i 2.000 e i 7.000 kilowattora.
Il funzionamento dei cosiddetti cannoni sparaneve dipende inoltre dalle condizioni meteorologiche: se la temperatura è troppo alta, dai cannoni arriverà solo un getto d’acqua. Le condizioni meteo ideali per avere un’ottima neve artificiale sono tra i -2° e i -12°, e un tasso di umidità del 20%.
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Negli ultimi anni molti gestori di impianti sciistici hanno dovuto aspettare più del solito per iniziare l’innevamento artificiale a causa della temperatura elevata nel mese di dicembre. Nei prossimi decenni, dicono molti studi e modelli climatici, le condizioni peggioreranno: l’aumento delle temperature farà accorciare la stagione sciistica e sposterà più in alto le precipitazioni nevose.
Secondo le stime dei ricercatori della Banca d’Italia e le proiezioni sulle variabili meteorologiche, già nei prossimi anni – senza fare previsioni più sul lungo periodo – la vendita degli skipass potrebbe diminuire in media del 7 per cento a causa del cambiamento climatico, e in particolare nelle località a un’altitudine più bassa, per esempio in Trentino-Alto Adige. «I costi di innevamento artificiale aumenteranno con le temperature», si legge nello studio. «L’innevamento artificiale semplicemente non sarà più praticabile nelle zone più basse, le più colpite dai cambiamenti climatici».
L’impatto dell’aumento delle temperature sui pernottamenti, invece, sarebbe meno grave. «In questo contesto sono cruciali l’adattamento e strategie basate sulla diversificazione delle attività e dei ricavi», continuano i ricercatori. «Si potrebbero fare investimenti per ridurre la dipendenza dell’economia montana dalle condizioni della neve: per esempio, aumentando l’impegno nel turismo durante tutto l’anno, stimolando e promuovendo il turismo estivo, ma anche le attività indipendenti dal clima invernale come gare invernali di corsa, congressi, eventi educativi e legati al benessere».
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Alle stesse conclusioni, in particolare in merito all’impatto dell’innevamento artificiale, è arrivato uno studio pubblicato all’inizio di dicembre da alcuni ricercatori svizzeri che hanno analizzato i dati del grande comprensorio sciistico di Andermatt, Sedrun e Disentis, nel cantone Uri. Per valutare le possibilità di sopravvivenza economica degli impianti, i ricercatori hanno considerato due indicatori: la probabilità di avere un manto nevoso per 100 giorni consecutivi, a prescindere dai periodi dell’anno, e un manto nevoso stabile tra Natale e Capodanno, periodo in cui si concentra circa un quarto dei ricavi annuali.
I risultati dello studio spiegano che la riduzione della neve prevista entro la fine del secolo potrà essere compensata in parte dall’innevamento artificiale, almeno alle quote più alte: sotto i 1.800 metri non sarà possibile avere nemmeno la neve artificiale perché le condizioni meteo non saranno adatte.
Un utilizzo sempre più massiccio della neve artificiale, però, avrà delle conseguenze: il consumo di acqua aumenterà del 79 per cento entro la fine del secolo e il lago artificiale Oberalpsee, la principale fonte utilizzata per alimentare i cannoni sparaneve, non soddisferà più il bisogno idrico della regione. L’elevato consumo di acqua potrebbe portare a una concorrenza dell’approvvigionamento idrico con altri settori, per esempio con le centrali idroelettriche. Nonostante questi evidenti problemi, secondo lo studio il comprensorio di Andermatt, Sedrun e Disentis risulta essere avvantaggiato rispetto ad altre località a quote più basse, motivo per cui i turisti potrebbero aumentare, anche se a fronte di costi notevoli.
Le diverse stime sulla scarsa sostenibilità degli impianti situati a bassa quota pongono molti interrogativi sull’opportunità di continuare a investire su stazioni sciistiche destinate a essere poco o per nulla redditizie e attrattive.
Nell’ultimo rapporto di Legambiente sul tema, chiamato Nevediversa, sono stati individuati alcuni casi di «accanimento terapeutico», come vengono definiti dall’associazione ambientalista: si tratta di impianti che già oggi sopravvivono soltanto grazie al sostegno economico delle istituzioni. Tra questi ci sono Col du Joux, in Valle d’Aosta, a 1.600 metri di altitudine; Bolbeno, in provincia di Trento, che ha ricevuto 4 milioni di euro per impianti a bassissima quota, tra 560 e 660 metri di altezza; Corno alle Scale, nell’Appennino tosco-emiliano, a cui è stato concesso un finanziamento a fondo perduto di 20 milioni di euro per impianti aperti soltanto con innevamento artificiale; Bielmonte, in provincia di Biella, tra 1.500 e 1.650 metri di altezza. In questa mappa ci sono invece gli impianti dismessi in Italia.
Legambiente ha censito 234 impianti dismessi e 135 strutture temporaneamente chiuse per problemi economici o gestionali. «Il turismo legato allo sci che nel recente passato ha avuto un ruolo trainante per la montagna ora ha bisogno di cambiare pelle», scrivono nell’introduzione del dossier Vanda Bonardo e Sebastiano Venneri di Legambiente. «Sarebbe un errore imperdonabile se non lo si riconoscesse, in primo luogo per le comunità locali. Ci troviamo di fronte a una montagna che cambia a vista d’occhio, dove sarà sempre più difficile identificare la stagione invernale con lo sci alpino e per questo avrà bisogno di riconfigurarsi in un’idea di sostenibilità più ampia, capace di contenere in visioni complessive le possibilità di vivere nelle terre alte».