Altre due persone si sono autodenunciate per aiuto al suicidio
Sono Virginia Fiume e Felicetta Maltese, che hanno accompagnato in Svizzera una donna di 89 anni affetta dal morbo di Parkinson
Giovedì mattina a Bologna altre due persone si sono autodenunciate per aiuto al suicidio, dopo aver accompagnato in Svizzera una donna che voleva ricorrere al suicidio assistito ma che in Italia non ne aveva il diritto: sono Virginia Fiume, attivista e co-presidente del movimento paneuropeo EUMANS, che si occupa di diritti umani e democrazia, e Felicetta Maltese, l’attivista dell’associazione Luca Coscioni che si era già autodenunciata per un caso simile lo scorso dicembre.
Insieme a loro si è autodenunciato anche Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, in quanto legale rappresentante dell’associazione Soccorso Civile, che ha organizzato e finanziato il viaggio verso la Svizzera. Ad accompagnarli c’era Filomena Gallo, avvocata e segretaria nazionale dell’associazione Luca Coscioni.
Fiume e Maltese, 39 e 71 anni, rischiano dai 5 ai 12 anni di carcere per il reato di istigazione o aiuto al suicidio, previsto dall’articolo 580 del codice penale, che punisce «chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione». Il loro è il quarto atto di disobbedienza civile di questo tipo compiuto in Italia dallo scorso agosto: gli altri tre erano stati fatti dallo stesso Cappato, da Maltese e dalla giornalista e bioeticista Chiara Lalli.
La donna che Fiume e Maltese hanno accompagnato in Svizzera si chiamava Paola, aveva 89 anni ed era affetta dal morbo di Parkinson, ad uno stadio «che le impediva quasi completamente di muoversi e anche di parlare», ha detto l’associazione Luca Coscioni.
Il motivo per cui Paola non poteva accedere al suicidio assistito in Italia è che non era tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale (per esempio da un ventilatore o da un respiratore meccanico), come previsto dalla sentenza 242 del 2019 della Corte Costituzionale che ha parzialmente legalizzato il suicidio assistito in Italia. La sentenza dice che non è sempre punibile chi aiuta una persona a suicidarsi se la persona in questione è «pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli» ma affetta «da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche» che considera «intollerabili», e se tale persona è tenuta «in vita da trattamenti di sostegno vitale»: anche il caso di Paola, come i precedenti, soddisfaceva i primi tre requisiti ma non il quarto.
Alla sentenza del 2019 si era arrivati grazie a un altro atto di disobbedienza civile, anche in quel caso compiuto da Cappato. Come le altre persone che si sono unite alla disobbedienza civile, Fiume e Maltese chiedono l’approvazione di una legge su fine vita rispettosa di tutte le scelte sul fine vita e, soprattutto, la legalizzazione del suicidio assistito anche nei casi in cui la persona malata non sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale: si ritiene infatti che quel requisito crei una discriminazione tra malati irragionevole e incostituzionale.
Paola, la donna accompagnata in Svizzera da Fiume e Maltese, è morta mercoledì, nel modo che ha scelto, somministrandosi in modo autonomo il farmaco letale. Lo ha fatto dopo tutte le visite di verifica delle sue condizioni, in cui ha confermato e ribadito le sue volontà, dice l’associazione Luca Coscioni. Prima di andare in Svizzera, Paola aveva motivato la sua scelta spiegando che la sua decisione era stata «maturata nel tempo», e aveva aggiunto: «La diagnosi è un parkinsonismo irreversibile e feroce […] arrivata oggi ad uno stadio che non mi consente più di vivere. Non sono autonoma in nulla, tranne che nel pensiero».
Nei video di seguito Fiume e Maltese hanno spiegato invece i motivi della loro scelta di unirsi alla disobbedienza civile sul suicidio assistito.
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