La prima intervista di Salman Rushdie dopo l’accoltellamento
Ha parlato delle ferite e di quanto male gli fanno, della fatica che fa adesso a scrivere e della “fatwa”
In una lunga intervista con il direttore del New Yorker David Remnick, lo scrittore Salman Rushdie ha parlato per la prima volta pubblicamente dell’accoltellamento subìto lo scorso agosto, nel quale perse la vista dall’occhio destro e l’uso della mano sinistra. Rushdie, che ha 75 anni, fu aggredito sul palco di un festival letterario organizzato a Chautauqua, nello stato di New York, da un uomo che si suppone abbia agito su ispirazione della condanna a morte (fatwa) che avevano emesso contro di lui nel 1989 le autorità religiose iraniane, a causa del romanzo I Versi satanici.
Parlando dei suoi romanzi, della convalescenza dopo l’accoltellamento e degli effetti della condanna a morte, che lo costrinse a vivere sotto la protezione del governo britannico per quasi dieci anni, Rushdie ha detto:
«Ho sempre pensato che i miei libri fossero più interessanti della mia vita. Il mondo sembra non essere d’accordo».
Nell’intervista, Rushdie definisce l’attacco «colossale» e dice di considerarsi molto fortunato, nonostante i danni riportati. Spiega di essere stato «meglio. Ma considerando quello che è successo, non poi così male»: le ferite più gravi all’addome, al petto e al collo «sono essenzialmente guarite», racconta, e dice di riuscire ad alzarsi e a camminare, ma di fare molta fatica a scrivere, visto che nella mano sinistra ha la sensibilità solo in due polpastrelli.
Rushdie ha poi spiegato di fare molta fatica a scrivere anche per via dei disturbi da stress post traumatico di cui soffre. «Ho trovato molto, molto difficile scrivere. Mi siedo per scrivere, e non succede niente. Scrivo, ma è un misto di vuoto e schifezze, roba che scrivo e cancello il giorno successivo. Non ne sono ancora uscito, in realtà». Martedì intanto verrà pubblicato La città della vittoria, il suo ultimo romanzo: completato poco prima dell’attacco, parla di una bambina di nove anni e di come un suo incontro con una divinità riesce a cambiare il corso della storia.
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Rushdie, che è britannico e di origini indiane, rimase sei settimane in ospedale dopo l’aggressione. L’uomo che lo aveva accoltellato, un 24enne del New Jersey di nome Hadi Matar, fu subito fermato, arrestato e incriminato per tentato omicidio. Non è ancora stato processato e si è dichiarato innocente, ma si ritiene abbia agito per eseguire la fatwa emessa contro Rushdie nel 1989 dall’ayatollah Ruhollah Khomeini, l’allora leader politico e religioso dell’Iran, che riteneva che lo scrittore avesse insultato e offeso la religione islamica e il suo profeta Maometto nei Versi satanici, il suo noto romanzo del 1988.
Parlando della reazione rispetto all’attacco, Rushdie spiega di non voler «fare la vittima», ma che ogni tanto gli capita di starsene lì seduto e dire: «Qualcuno mi ha piantato un coltello addosso! Povero me… è una cosa che ogni tanto mi capita di pensare», commenta ridendo. «Fa male», dice, ma aggiunge di non volere che le persone che leggono il suo libro pensino a questo. Racconta anche di non aver mai pensato al modo in cui avrebbero reagito le persone se lui fosse stato «assassinato, o quasi assassinato», ma che l’emozione che prova di più adesso è la gratitudine.
A un certo punto, durante l’intervista, Remnick chiede a Rushdie se secondo lui fu un errore fare una vita più libera dopo essere uscito dal programma di protezione del governo britannico ed essersi trasferito a New York, nel 2000. Rushdie risponde di esserselo domandato già di suo, e di non conoscere la risposta. Alla fine «ho avuto più di vent’anni di vita», dice, «e poi ho scritto molti libri». «Tre quarti della mia vita come scrittore sono trascorsi dopo la fatwa: In un certo senso, non puoi rammaricarti per quella che è stata la tua vita», osserva.
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