«Nessuno è diventato vecchio su internet, almeno fino ad ora»
È l'originale intuizione con cui comincia il nuovo libro di Massimo Mantellini
Massimo Mantellini si occupa di internet e di innovazione digitale da quasi trent’anni, scrivendone sul suo blog e su molte pubblicazioni online (anche sul Post), e in alcuni libri dedicati soprattutto ai cambiamenti sociali e quotidiani introdotti dalle nuove tecnologie nelle vite di questo millennio. Il suo nuovo libro pubblicato con Einaudi, Invecchiare al tempo della rete, nasce da un’originale intuizione, rappresentata nel testo che in questa collana illustra le copertine, incipit delle riflessioni contenute nel libro: «Nessuno è diventato vecchio su internet, almeno finora».
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Nessuno è diventato vecchio su internet, almeno fino ad ora. Sono passati venticinque anni da quando tutto è cominciato e la rete ha avvolto le vite di molti. Non le vite di tutti, ovviamente, non ancora, ma quelle di molti sí, le nostre sí. In alcuni luoghi del mondo di anni ne sono passati trenta. Non sono poi tanti. In ogni caso, ovunque sul Pianeta, e ogni giorno di piú, le persone invecchiano dentro un luogo differente da quello in cui invecchiavano prima. Un luogo inedito, in buona parte inesplorato.
Ho 58 anni. La prima volta in cui mi sono sentito vecchio è stato a 23. Da allora non ho piú smesso. Venticinque anni fa, quando di anni ne avevo 33, ho cominciato a sentirmi vecchio su internet. Sono quelle cose che si dicono.
Nel dicembre del 1968 Natalia Ginzburg scrisse un breve saggio intitolato La vecchiaia. Ginzburg a quei tempi aveva 52 anni e tutto il testo è attraversato da un doppio tono: quello pratico, una sorta di manualistica sentimentale su come salvarsi, su come provare a non diventare vecchi dentro un percorso ineluttabile, e quello profetico, legato all’accettazione dolorosa della propria decadenza legata al tempo ormai trascorso: un tempo implacabile, che sarà uguale per tutti.
La vecchiaia vorrà dire in noi, essenzialmente, la fine dello stupore. Perderemo la facoltà sia di stupirci, sia di stupire gli altri. Noi non ci meraviglieremo piú di niente, avendo passato la nostra vita a meravigliarci di tutto.
Il saggio di Ginzburg è un testo per adulti. La prima volta che mi capitò sotto gli occhi avevo 52 anni, la medesima età di Ginzburg quando lo scrisse: lo avessi incrociato anche solo dieci anni prima forse non mi avrebbe colpito tanto. Perché la vecchiaia è una faccenda da vecchi, interessa soprattutto chi è ormai avanti negli anni. Tutti gli altri, anche se la troveranno descritta nelle parole di una grande scrittrice, le passeranno accanto con noncuranza.
L’incapacità di stupirsi e la consapevolezza di non destare stupore farà sí che noi penetreremo a poco a poco nel regno della noia. La vecchiaia s’annoia ed è noiosa: la noia genera noia, propaga noia intorno come la seppia propaga l’inchiostro.
Il nostro destino sarà – scrive piú avanti – l’immobilità della pietra. Diventeremo rigidi e fermissimi, come un grosso sasso sul greto di un fiume. Quello saremo noi, in ogni caso, comunque vadano le cose.
Le parole di Ginzburg restano parole del secolo scorso, fuori da qualsiasi schema digitale, e il digitale è invece la grammatica di questi tempi. Lette ora restano intatte nella loro bellezza e profondità ma reclamano alcuni aggiustamenti e qualche nuova domanda. Come si diventa vecchi oggi? Quale seppia spargerà oggi il proprio inchiostro?
Scrive Michel Serres provando ad immaginare il nuovo secolo digitale:
Sí, da alcuni decenni mi accorgo che viviamo in un periodo paragonabile all’aurora della paideia, dopo che i greci appresero a scrivere e a dimostrare, e simile al Rinascimento che vide nascere la stampa ed affermarsi il regno del libro. Periodi tuttavia incomparabili perché, mentre cambiano le tecniche, il corpo subisce una metamorfosi, si trasformano la nascita e la morte, la sofferenza e la guarigione, i mestieri, lo spazio, l’habitat, lo stare al mondo.
Se lo stare al mondo attuale è differente da quello precedente, per ragioni meramente tecniche, allora anche la vecchiaia di Ginzburg sarà ormai lontana da quella attuale. Oppure sarà simile, ancora lí accanto, ma dentro l’impercettibile scarto che modifica tutto: la tecnologia che domina e rende la vecchiaia dei tempi attuali un’immobilità di nuovo tipo.
Nessuno è diventato vecchio su internet fino ad ora. Noi però lo stiamo diventando: resta da capire come. Come sarà la nostra nuova pietra immobile digitale?
Talvolta in treno apro lo zaino, estraggo il vecchio computer portatile dalla sua custodia e lo appoggio sul tavolino di fronte. L’aggeggio di alluminio argentato si accende, si collega al mio telefono ed io sono pronto per ciò che mi ero proposto di fare. Ogni tanto, a questo punto, sollevo lo sguardo sui miei compagni di viaggio, uomini e donne a me sconosciuti che hanno seguito con la coda dell’occhio tutta l’operazione: ciò che mi sembra di scorgere nei loro sguardi è una circospetta perplessità. La faccia che forse farei io se, d’improvviso, si materializzasse davanti a me un’impiegata degli anni Cinquanta con la sua gonna plissettata, gli occhiali da vista a virgola e un’enorme telescrivente.
Esistono molte maniere differenti per far sentire vecchi i vecchi: gli sguardi degli sconosciuti sono una di quelle.
Lo zaino stesso mi crea qualche perplessità. Qual è l’età oltre la quale uno zainetto nero in spalla, con dentro un notebook, alcuni libri, i tappi per le orecchie, un po’ di cavi, un antidolorifico, un taccuino e altre scartoffie, diventa un oggetto inadeguato? Quell’uomo che vedo riflesso nella vetrina, con i suoi capelli bianchi che vanno diradandosi, con il suo abbigliamento casual, potrà tagliare la folla della stazione con il suo zainetto in spalla senza suscitare il compatimento degli astanti? Senza assomigliare a certe anziane signore con i jeans glitterati? E dovrebbe interessarsene oppure è lui stesso, e quello che sta pensando, parte del problema?
Fra le molte maniere per rendere vecchi i vecchi c’è la natura della società che li comprende. Lo sguardo giudicante non del singolo individuo ma l’occhiale malinconico della comunità. È lei che fa e disfa il senso estetico comune, lo enfatizza o lo ignora a seconda delle sue necessità.
Ho speso qualche tempo in Inghilterra negli ultimi decenni e ricordo sempre una frase che mi disse un’amica italiana che abita lassú da anni. Gli inglesi – diceva – hanno molti insopportabili difetti ma anche qualche pregio: per esempio sono attratti dall’inconsueto. Vivono la deviazione estetica come un valore. Se sei strano – pensano – forse potresti essere interessante. Forse potresti aggiungere qualcosa a cui noi, cosí rigidi e ligi, non avevamo pensato. Si applicano senza saperlo, gli inglesi, ad un pensiero che stimola l’innovazione attraverso la frequentazione del diverso, anche se magari a improvvise ondate o attraverso piccoli, impercettibili frammenti. Altre società fanno l’esatto contrario: lasciano ai margini ogni irregolarità, ogni deviazione formale dal percorso stabilito. Ne restano spaventate, le accettano solo dopo molti ripensamenti, o le rifiutano categoricamente. Sono – mediamente – società meno solide.
Forse è per questo che ora, verso i miei sessant’anni, dentro l’atrio enorme della stazione di Firenze, in un giugno afosissimo, immagino il mio zaino in spalla come “un problema”, esattamente come immagino sia un problema, per me e per tutti, la mia nuova vecchiaia digitale.
Gli specchi.
Col passare del tempo l’immagine che lo specchio ci restituisce si allontana da noi. Quell’uomo o quella donna riflessi non saremo noi, faticheremo a riconoscerci, invocheremo, quando possibile, cause di forza maggiore in nostra difesa. Cosí lo specchio, invecchiando, diventa il luogo della fatica di sé, quello in cui una prova tangibile tenta di rimettere le cose in ordine senza piú riuscirci. Tu sei quello! Guardati, tu non sei ciò che senti di essere!
Quando negli anni Sessanta del secolo scorso furono messi in commercio i primi registratori portatili le persone incidevano su nastro magnetico la propria voce e l’ascoltavano per la prima volta. Lo stesso accadde piú avanti con le immagini in movimento delle prime videocamere amatoriali. Non ci eravamo mai ascoltati. Non ci eravamo mai visti camminare. Ascoltavamo il nastro, premevamo il tasto pausa e poi esclamavamo: ma questo non sono io! La nostra voce, raccolta da fuori di noi, aveva i tratti dell’originalità imperfetta. Eravamo noi senza esserlo del tutto, il suono di un noi che proveniva da un’altra dimensione.
Anche la nostra immagine proiettata nello specchio ha qualcosa di simile. Quell’uomo con i capelli bianchi, che ancora un po’ resistono (mio padre ha perso i capelli assai prima di me, quando era ancora giovane e questo è stato per me motivo di stupido orgoglio), sono io senza essere io. Durante il processo fisico che riguarda tutti, a un certo punto del percorso lo specchio rifletterà nuove immagini di noi che non saremo piú disposti ad accettare. Da quel momento gli specchi saranno i nostri nemici. Li eviteremo, per quanto possibile, rimarremo di fronte a essi giusto il minimo indispensabile.
La vecchiaia, quando arriva, smette di guardarsi allo specchio e di scattarsi foto. Detesta i promemoria e tenta di evitarli. La vecchiaia ruota l’obiettivo del selfie e si concentra sul panorama: fotografa i fiori e gli altri umani intorno. La vecchiaia digitale ha l’anima del cronista. L’immagine di noi, quella piú intima, resta invece custodita in un nuovo rullino fotografico interiore: nei tempi delle connessioni ubique un luogo inaccessibile a chiunque altro.
Il primo ritiro strategico? Solo mezza faccia dentro il selfie, l’altra metà della scena un innocuo panorama o una natura morta in un interno poco illuminato. Il secondo ritiro strategico? Via dall’inquadratura anche la mezza faccia di prima.
Il nostro rullino esteriore continuerà a rappresentarci là fuori, negli ambiti digitali che frequentiamo usualmente, ma si tratterà solo di un’impressione. I nostri amici avranno di noi solo vecchie foto, quando capiterà di incontrarci di persona dopo tanti anni sembreremo Walter Matthau che incontra il fratello in aeroporto dopo molto tempo, lo guarda stupito e gli grida: «Ma sei pelato! Ma quanto sei pelato?» L’altro deluso risponde: «È questa la prima cosa che mi dici dopo cosí tanto tempo?».
Saremo abbastanza pelati da non mostrarci piú agli altri. E sarà quello il prezzo da pagare.
Mentre diventeremo pelati, o grassi, o in ottima forma ma comunque impresentabili in base alle categorie che avremo previsto per noi stessi, una parte di noi scomparirà dalla rete. Resteranno le parole, perché le parole non hanno carta d’identità (per la verità ce l’hanno ma è un documento di non facile consultazione), svaporeranno le immagini, perché le foto sono il ritratto impietoso e alla portata di chiunque del tempo che è passato.
Jurgenson e P. J. Rey scrissero anni fa un saggio nel quale dicevano che la riservatezza e l’esposizione di sé in rete non sono un prodotto a somma zero. Non è vero – insomma – che al crescere di una si riduca l’altra. A differenza di quello che si pensa comunemente, per lo meno dentro certi ambiti digitali, io potrò scegliere di incrementare la parte di me che intendo rendere pubblica e potrò allo stesso tempo aumentare le cose della mia vita che vorrò tenere riservate. Potrò godere di moltissima privacy su alcuni argomenti e scegliere di non averne nessuna su altri. E questo complica molto le cose, per lo meno a riguardo del luogo comune che sentiamo ripetere continuamente a proposito della privacy che è morta, e che su internet tutti sanno tutto di tutti. Il mio rullino esteriore è qui accanto a me, è l’unico che al momento intenderò mostrarvi: tutto il resto, le prove del tempo che è scivolato su di me, continueranno a non essere affari vostri. Almeno fino a quando non ci incontreremo in un aeroporto.
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